martedì 23 maggio 2017

Il sapore della ciliegia, Abbas Kiarostami (1997)

Atipico road movie al contrario, acuta riflessione filosofica per immagini, punto di arrivo dello stile che ha reso celebre un artista geniale. 




Un frutto dalla lenta maturazione 

Abbas Kiarostami ha appena completato la sceneggiatura del quarto capitolo della trilogia di Koker, ma non la filmerà mai: una ciliegia, che è nella testa dell'autore da circa otto anni, a fatica sta cominciando a maturare. Anche perché indeciso sul finale, nel 1996 il regista sceglie come titolo provvisorio "Viaggio verso l'alba", poi trasformato ne "L'eclisse". Un serio incidente d'auto gli fa interrompere la lavorazione; infine la pellicola su cui è impressionata la sequenza dell'epilogo brucia, diventando inutilizzabile. Viene sostituita con materiale girato da un membro della troupe.
Con il titolo definitivo "Il sapore della ciliegia" il film, che doveva essere presentato alla Mostra di Venezia del 1996, arriva in concorso a Cannes 1997 - edizione del cinquantenario - solo all'ultimo momento, fuori catalogo, ma torna a casa con il bottino pieno: l'albero della ciliegia è una Palma d'oro, prima e unica per il cinema iraniano. Poco importa l'ex-aequo con "L'anguilla" di Imamura.






Una storia semplice...

Autunno. Un uomo di mezza età, alla guida di una Range Rover 4x4, si aggira misteriosamente per le colline intorno a Teheran. Cosa cerca? Persone da caricare in macchina, per una proposta. Dopo qualche rifiuto, sale un giovane soldato curdo, a cui infine il protagonista rivela di chiamarsi Badii, di volersi suicidare e di cercare qualcuno che, dietro lauto compenso, si rechi alla fossa in cui sarà sdraiato e, dopo aver accertato il decesso, lo ricopra di terra. Il ragazzo scappa terrorizzato. Successivamente un seminarista afgano rifiuta, poi un imbalsamatore turco-azero cerca di fargli cambiare idea, ma in ultimo accetta. Infine vediamo Badii nella fossa, ma non ne conosceremo con certezza il destino. L'epilogo ci mostra il protagonista 'redivivo' e la troupe sorridente, in primavera.


...per un'opera complessa. Domande e risposte per capirci di più


Perché un film sul suicidio?

Abbas Kiarostami dice in più occasioni di essersi ispirato all'opera poetica di Omar Khayyam e a un aforisma di E. M. Cioran: "Se non ci fosse la possibilità del suicidio, mi sarei già suicidato da tanto tempo". Ma è probabile che a monte ci siano anche ragioni autobiografiche, per esempio la lunga malattia mortale che colpisce suo padre.


Con quali scelte stilistiche viene affrontato il tema?

Il primo dispositivo drammaturgico è quello della dilazione. Non vediamo subito i titoli di testa, non conosciamo, se non col tempo, la voce, il modello dell'auto, il nome, l'intento del protagonista (si vedano le analisi cronometriche, che hanno fatto scuola, di Marco Dalla Gassa nella monografia "Abbas Kiarostami" del 2000); non sapremo mai il mestiere dell'uomo, la situazione familiare, il motivo del suo proposito e né se sarà compiuto. L'autore punta a generare curiosità in chi osserva, a fargli porre quesiti e anche immaginare soluzioni, ad affrontare il film con la testa e non con i sentimenti, senza immedesimazione nel protagonista.

Badii e i suoi compagni di questo strano viaggio non compaiono insieme nelle stesse inquadrature, hanno tra loro un rapporto distaccato. E quando parlano, è come se si rivolgessero allo spettatore.

L'automobile viaggia avanti e indietro per gli stessi luoghi, spesso scompare dietro le colline come se venisse interrata. Rimandano a immagini di morte o sepoltura tanti elementi del panorama naturale e artificiale: corvi, sabbia (che in una sequenza sommerge Badii), temporale, scavatrici, uccelli imbalsamati, solo per elencarne alcuni. L'autunno è la stagione del declino, i colori nettamente dominanti, giallo e ocra, sono nella tradizione persiana simboli della speranza smarrita  e della depressione.

Lo schermo nero prima del finale, che dura un minuto circa, costringe chi guarda a confrontarsi per lunghi attimi con il nulla, col buio di chi chiude gli occhi per morire.


Che funzione hanno i tre passeggeri?

Il protagonista è un persiano, senza apparenti difficoltà economiche. I tre interlocutori principali, che rappresentano anche tre età diverse dell'uomo dalla più giovane alla più avanzata (ma anche il figlio, il fratello, il padre), appartengono tutti a minoranze etniche (curiosità: l'imbalsamatore arriva da Mianeh, località di cui è originaria la famiglia di Jafar Panahi) e dichiarano di avere insufficiente denaro per i loro differenti scopiKiarostami vuol dirci che una condizione di relativo privilegio sociale non rende immuni dalle più gravi depressioni.
Il giovane soldato e l'anziano imbalsamatore (impiegato al museo di scienze naturali) simboleggiano inoltre la paura di ciò che ci attende e la saggezza maturata con le esperienze di vita vissuta ("Vuoi rinunciare al sapore della ciliegia?", da cui il titolo). L'incontro intermedio è, come dichiarato dal regista, strumentale a restituire un punto di vista religioso, per assecondare gli ayatollah e sperare in un nulla osta censorio. Peccato che i dialoghi platonici che accompagnano l'evoluzione del film conducano alla conclusione che cotanta saggezza, religiosa o laica che sia, è del tutto inadeguata a capire e a consolare chi il male di vivere ha incontrato. 
Un'ulteriore interpretazione (dal "Castoro" di Marco Della Nave) vuole i tre uomini come possibili fantasmi nella mente del protagonista; ma questo contraddirebbe l'impianto realistico, per quanto per nulla scevro di sovrastrutture filosofiche e religiose, che caratterizza l'opera omnia dell'autore. Quest'ultimo li identifica invece con "i tre ordini del mondo indo-europeo: il guerriero, il prete, l'uomo comune".





Perché Badii vuole suicidarsi?

L'unica risposta giusta a questa domanda è: non si sa. E neanche è importante. Ciò che interessa all'autore è che lo spettatore rifletta su una decisione già presa, si interroghi sull'opportunità del suicidio e su cosa comporti e rappresenti.
Se però vogliamo divertirci a trovare comunque una motivazione, possiamo raccogliere qualche indizio. La presenza spropositata di militari e i dialoghi sulle guerre possono rinviare a un episodio accaduto al protagonista nel periodo che egli definisce come il più felice della sua vita: il servizio di leva. Oppure l'accenno ai rapporti ferali con le persone care e la ricorrenza, pur saltuaria, del tema in episodi per lo più minori della filmografia del regista ("Il rapporto", "Lumière and Company", il successivo "Copia conforme") possono far pensare a una delusione sentimentale (da cui anche l'assenza di figure femminili rilevanti nel film).


Che senso ha l'epilogo?

Dopo gli attimi di schermo nero, il film si chiude con una controversa sequenza, che Kiarostami stesso era molto indeciso se inserire o meno; un post scriptum volutamente ben separato, non integrato nella trama. La sequenza si contrappone in maniera netta al punto a cui si era arrivati: è primavera, c'è luce, domina il verde speranza, Badii fuma tranquillo, c'è l'unico commento musicale di tutto il film ("St. James Infirmary" di Louis Armstrong). Viene mostrato il backstage del film - con tanto di troupe inquadrata - girato con videocamera a bassa definizione-
Questo finale risponde ad almeno tre esigenze: mette a dura prova eventuali certezze dello spettatore, rappresenta un ritorno alla vita (i soldati sfogliano fiori!), una resurrezione, svela il dispositivo filmico. Quest'ultimo aspetto, tipico dell'autore e del cinema iraniano, può servire anche ad ammansire i severi censori in patria, palesando la finzione di tutto ciò che è stato mostrato. Tale valenza esiste, ma non è da sopravvalutare, come talvolta viene fatto.


Come è stata scelta la location?

Il film è girato su strade fatte tracciare ad hoc (come già nella trilogia) e che rivedremo nell'incipit di "10 on Ten" (dove Kiarostami sottolinea quanto gli piacciano quei luoghi). All'autore interessava mostrare anche i grattaceli della metropoli in espansione sullo sfondo. Con il figlio Bahman, Abbas filma i sopralluoghi e mostra il girato al cast prima delle riprese, per spiegare meglio le sue intenzioni di messa in scena.


Chi è l'attore protagonista?

Homayoun Ershadi. Classe 1947, architetto, poi antiquario, nel 1996 è un attore semi-amatoriale con un paio di particine alle spalle. Grazie a questo film, a cinquant'anni diventa professionista a tutti gli effetti. È ancora in attività.


Che precedenti e che lasciti del film possiamo individuare? 

Per certi versi "Il sapore della ciliegia" è un unicum nella storia del cinema, anche se con diversi film si possono trovare affinità parziali. Facciamo solo due esempi. È curioso che un film con tema principale l'avvicinamento alla morte l'abbia girato l'altro vincitore di Cannes '97, Shoehi Imamura: "La ballata di Narayama". Se guardiamo invece ai meccanismi drammaturgici e allo stile, un'opera successiva somigliante è "Locke" di Steven Knight.

"Il sapore della ciliegia" e il suo trionfo cannense sono inizialmente del tutto ignorati in Iran (se non per lo scandalo di un bacio casto di Catherine Deneuve al regista...). Ma in tempi brevi, grazie alle aperture culturali del governo Khatami, il film può circolare in patria senza particolari criticità.

L'assistente alla regia Hassan Yektapanah realizzerà, in proprio, alcuni film di tutto rispetto, come il debutto "Djomeh".


Ci sono altre domande?




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