"Mi chiedo sempre fino a che punto l’artista intenda rappresentare la
realtà di una scena. I pittori catturano solo un frammento di realtà e
niente prima o dopo di esso.
Per 24 Frames ho iniziato con quadri famosi ma poi ho deciso di usare fotografie che ho scattato nel corso degli anni. Ho incluso circa quattro minuti e mezzo di ciò che immaginavo potesse accadere prima o dopo ogni immagine che ho catturato” Didascalia iniziale del film
Negli ultimi anni della sua vita, Abbas Kiarostami è stato un artista inafferrabile; lo si poteva incontrare a Roma alle prese con uno spettacolo di teatro tradizionale persiano, allestire a Parigi un’opera lirica, a New York per una mostra fotografica o di videoarte. E il cinema? Almeno da “Five” (2003), Kiarostami ha lasciato ai margini il film narrativo lavorando a un’estetica della con-fusione - per dirla con Elio Ugenti - in cui, con l’ausilio del digitale, le discipline che da sempre ha praticato confluivano, in un unitario approccio multidisciplinare.
Opera postuma cui l’autore pensava da cinque anni e vi ha dedicato gli ultimi tre, portata a compimento dal figlio Ahmad, “24 Frames”, è l’ammirevole punto di arrivo di tale ricerca. Di circa quaranta ‘capitoli’ girati, Kiarostami padre ne aveva scartati dieci; al figlio è spettato il compito di uniformare le durate e di sceglierne ventiquattro. Il titolo gioca sul fatto che i film sonori in pellicola venivano proiettati a ventiquattro fotogrammi al secondo; “frame”, inoltre, significa sia “cornice”, sia “fotogramma”. Le riprese, tutte a macchina fissa, tranne una (tipicamente kiarostamiana) carrellata dall’abitacolo di un’automobile, e quasi tutte frontali, ricordano le vedute dei primi esperimenti del cinematografo e del proto-cinema; non a caso il film doveva originariamente intitolarsi “24 Frames Before and After Lumiere”.
La selezione di Ahmad, in ossequio all’evoluzione del progetto concepito dall’autore (vedi didascalia iniziale), ha escluso in particolare i quadri: di Van Gogh, Picasso, Millet, Wyeth. Resta il capitolo di apertura, un tableau vivant dei “Cacciatori nella neve” di Pieter Bruegel il Vecchio, cui seguono, 23 fotografie (a loro volta composte da frammenti eterogenei), per lo più in bianco e nero, musicate ma non commentate da voice over, animate con l’impiego della computer-generated imagery.
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Per 24 Frames ho iniziato con quadri famosi ma poi ho deciso di usare fotografie che ho scattato nel corso degli anni. Ho incluso circa quattro minuti e mezzo di ciò che immaginavo potesse accadere prima o dopo ogni immagine che ho catturato” Didascalia iniziale del film
Negli ultimi anni della sua vita, Abbas Kiarostami è stato un artista inafferrabile; lo si poteva incontrare a Roma alle prese con uno spettacolo di teatro tradizionale persiano, allestire a Parigi un’opera lirica, a New York per una mostra fotografica o di videoarte. E il cinema? Almeno da “Five” (2003), Kiarostami ha lasciato ai margini il film narrativo lavorando a un’estetica della con-fusione - per dirla con Elio Ugenti - in cui, con l’ausilio del digitale, le discipline che da sempre ha praticato confluivano, in un unitario approccio multidisciplinare.
Opera postuma cui l’autore pensava da cinque anni e vi ha dedicato gli ultimi tre, portata a compimento dal figlio Ahmad, “24 Frames”, è l’ammirevole punto di arrivo di tale ricerca. Di circa quaranta ‘capitoli’ girati, Kiarostami padre ne aveva scartati dieci; al figlio è spettato il compito di uniformare le durate e di sceglierne ventiquattro. Il titolo gioca sul fatto che i film sonori in pellicola venivano proiettati a ventiquattro fotogrammi al secondo; “frame”, inoltre, significa sia “cornice”, sia “fotogramma”. Le riprese, tutte a macchina fissa, tranne una (tipicamente kiarostamiana) carrellata dall’abitacolo di un’automobile, e quasi tutte frontali, ricordano le vedute dei primi esperimenti del cinematografo e del proto-cinema; non a caso il film doveva originariamente intitolarsi “24 Frames Before and After Lumiere”.
La selezione di Ahmad, in ossequio all’evoluzione del progetto concepito dall’autore (vedi didascalia iniziale), ha escluso in particolare i quadri: di Van Gogh, Picasso, Millet, Wyeth. Resta il capitolo di apertura, un tableau vivant dei “Cacciatori nella neve” di Pieter Bruegel il Vecchio, cui seguono, 23 fotografie (a loro volta composte da frammenti eterogenei), per lo più in bianco e nero, musicate ma non commentate da voice over, animate con l’impiego della computer-generated imagery.
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Soggetto privilegiato sono gli animali in rapporto con la natura che li circonda, anzi spesso collocati in ambienti inusuali (cavalli che corrono sulla neve, mucche spiaggiate sul bagnasciuga di un mare mosso) o in condizioni atmosferiche avverse. La neve, amatissima dall’autore ma poco presente nel suo cinema (a differenza che nelle sue fotografie), la fa da padrona.
L'uomo partecipa, non visto, in lontananza (un aereo, un motoscafo, un motorino), o attraverso costruzioni (case, muretti) in cui è collocato il punto di osservazione. Talvolta non influenza la vita di piante e animali, ma altre volte interviene pesantemente, come quando, fuori campo, taglia un paio di alberi, o spara colpi di arma da fuoco. I principali spunti di meditazione offerti da “24 Frames” riguardano dunque l’impatto dell’uomo sull’ambiente, e l’influenza dell’artista figurativo sulla modalità di osservazione della realtà: sempre fuori campo, qualcuno abbassa un finestrino, un altro alza una tenda, modificando le visuali. Talvolta l’immagine è talmente manipolata (o “disturbata” dal sonoro) che risulta stravolta.
Le uniche presenze umane visibili dominano le due sequenze rispettivamente più straniante e più da dibattito. Nel frame n.15 uomini immobili, di spalle, guardano la Tour Eiffel, mentre dietro di loro (dunque davanti a noi) passanti camminano di fretta e una musicista di strada intona un tango. Parigi è uno dei pochi riferimenti geografici di un film non collocabile localmente; come di fatto apolide era, in tarda età, il suo artefice. Nel capitolo finale invece una ragazza, anche lei di spalle, si è addormentata davanti al computer in cui scorre l’happy ending de “I migliori anni della nostra vita”. Curiosamente un film hollywoodiano, curiosamente la sequenza di un bacio, che Kiarostami in Iran non avrebbe potuto filmare.
Le idee disseminate sono tali e tante da fare di “24 Frames” l’ennesima riflessione filosofica che travalica il piacere meramente audiovisivo e che, paradossalmente, nella frammentarietà e incompiutezza, si rivela più complessa e risolta delle altre sperimentazioni ultracinematografiche del Kiarostami del nuovo millennio.
Curiosità: Ahmad sostiene che ha lavorato al film una troupe ridottissima, e che i credits nei titoli di coda siano di persone inesistenti, semplici nomi e cognomi che suonano buffi in persiano.
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