Nel panorama internazionale, il cinema iraniano è noto principalmente per i suoi film d'autore riflessivi e antispettacolari firmati Kiarostami, Panahi, o Farhadi. Tuttavia, al di là dei circuiti festivalieri mondiali, esiste un vasto repertorio cinematografico interno, profondamente radicato nel contesto politico e religioso post-rivoluzionario: il cinema della "Difesa Sacra", un genere egemonico in patria, lautamente finanziato dallo stato e premiato nei festival locali, ma poco studiato all’estero. Ne ha scritto di recente Kaveh Abbasian, regista e docente di cinema e media presso l’Università del Kent (Regno Unito) nel suo saggio “The War Must Go On: The Three Phases of Iranian Sacred Defence Cinema” incluso in "The I.B. Tauris Handbook of Iranian Cinema" (2024), a cura di Michelle Langford, Zahra Khosroshahi e Maryam Ghorbankarimi. Abbasian offre un'articolata genealogia di questo filone, suddividendolo in tre fasi principali: idealismo apocalittico, malinconia post-apocalittica e nazionalismo roboante.
Con l’ascesa della Repubblica Islamica nel 1979, il cinema iraniano è bollato da Khomeini come “centro di corruzione” importata dall’Occidente. Nonostante ciò, il cinema non viene bandito, ma riorientato in chiave educativa e religiosa. La guerra "imposta" dall'Iraq (1980–1988) fornisce il terreno ideale per promuovere una nuova estetica islamica. Inizialmente, film popolari di registi dell’era Pahlavi come "The Imperilled" (Iraj Ghaderi, 1982) e "The Eagles" (Samuel Khachikian, 1985) sono censurati o considerati non rispettosi dei valori islamici. La vera genesi del cinema della Difesa Sacra si sviluppa così in ambito televisivo, con documentari prodotti dal regista militante Morteza Avini, figura chiave della prima fase del genere.
The Eagles (1985) |
Avini incarna la visione teologico-rivoluzionaria della prima fase. Per lui, la guerra non è solo un conflitto militare, ma l’inizio di una rivoluzione escatologica che porterà al ritorno del Mahdi, il salvatore nascosto dell’Islam sciita. Nei suoi film, i martiri non sono semplici caduti ma annunciatori della fine dei tempi. Questo cinema è intriso di fede, sacrificio e misticismo, e Avini ne è sia teorico che artefice.
Accanto ad Avini, emergono altri registi chiave. Rasoul Mollagholipour è il cineasta di finzione più prolifico di questa prima fase
Il 1988 vede Khomeini "bere il calice del veleno", ossia accettare il cessate il fuoco. Per gli islamisti idealisti come Avini, la fine della guerra non è motivo di celebrazione, ma di dolore, sconfitta, risentimento. Anche il cinema si trasforma. I registi iniziano a riflettere sulle cicatrici della guerra più che sul suo eroismo. Ebrahim Hatamikia, che aveva appreso gran parte del suo mestiere durante la guerra e la collaborazione con Avini, realizza film come "The Scout" (1989)
Avini, prima della sua morte nel 1993 a causa di una mina antiuomo, è particolarmente critico nei confronti degli intellettuali laici che considera occidentalizzati e completamente distaccati dagli ideali della rivoluzione e della Sacra Difesa
Anche i film post-bellici di Mollagholipour, come "Journey to Chazzabeh" (1996) e "Heeva" (1999), esplorano personaggi che vivono nel passato e non riescono a liberarsi dei loro ideali di guerra
Il numero complessivo di film sulla Sacra Difesa inizia a diminuire dopo il 2000, con l'emergere anche di alcuni film considerati, in parte, anti-bellici, come "Gilaneh" di Rakhshan Banietemad, che rompe con l’epica per mostrare il dolore quotidiano di una madre nel prendersi cura del figlio disabile, vittima del conflitto. Questa fase segna anche l'ingresso di prospettive femminili e una maggiore introspezione.
Negli anni recenti, con l’avvento di nuove guerre (come quella in Siria) e la minaccia dell’ISIS, si apre una terza fase. Qui il cinema della Difesa Sacra abbraccia estetiche hollywoodiane, effetti speciali e toni epici per giustificare l’intervento militare iraniano all’estero. Figure come Hatamikia si riconvertono in registi di azione, esportando il messaggio ideologico della Repubblica Islamica in un contesto internazionale. Secondo Abbasian, questo cinema diventa uno strumento sofisticato di propaganda antioccidentale, camuffato da produzione mainstream ad alto budget. L'obiettivo è rendere la propaganda più attraente per le giovani generazioni che non hanno vissuto la rivoluzione e la guerra e che non sono necessariamente interessate a una narrazione esclusivamente islamica
Film di Mohammad Hossein Mahdavian, come "Standing in the Dust" (2016), "Midday Adventures" (2017) e "Midday Adventures: Trace of Blood" (2019)
Un esempio emblematico è "Lottery" (Mahdavian, 2018), che, pur non essendo un film di guerra, incarna l'aspetto sciovinista di questa fase
Ma è ancora Hatamikia l'esponente di punta della fase, con "Che" (2014), su una battaglia risalente al 1979 contro la guerriglia curda, "Bodyguard" (2016), ispirato alla figura del generale Soleimani e "Damascus Time" (2018), sulle attività dell'Iran in Siria.
Come nota Abbasian, il cinema della Difesa Sacra è il più grande segreto del cinema iraniano contemporaneo, ignorato dall’Occidente ma centrale nel progetto culturale della Repubblica Islamica. Le sue tre fasi riflettono i mutamenti ideologici della paese e il modo in cui la guerra viene narrata, rivissuta e reinventata per costruire l’identità nazionale. Dai toni mistici di Avini agli effetti digitali dei blockbuster contemporanei, la guerra nel cinema iraniano non finisce mai davvero: the war must go on. Purtroppo non solo al cinema.
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