Il secondo lungometraggio di Jafar Panahi rappresenta una tappa importante nella riflessione metacinematografica del cinema iraniano degli anni '90. Dopo il successo internazionale de "Il palloncino bianco" (1995), Panahi decide di restare in Iran, rifiutando proposte di lavoro all’estero, per girare un altro film incentrato sull’infanzia, un tema centrale nella cinematografia iraniana per ragioni che travalicano l’estetica e sconfinano nella strategia: come lui stesso afferma, in un contesto in cui non è possibile esprimersi liberamente attraverso i personaggi adulti a causa della censura, si è costretti a farlo attraverso i bambini, trasformando lo sguardo infantile nel veicolo di un discorso critico.
Tuttavia, "Lo specchio" (Ayneh, 1997) non si limita a replicare le formule narrative de "Il palloncino bianco", ma le mette in discussione e le capovolge, con un colpo di scena che interrompe bruscamente la narrazione lineare e immerge lo spettatore in una riflessione sul confine fra realtà e finzione. La prima parte del film segue la piccola Mina, una bambina con un braccio ingessato che, all’uscita da scuola, scopre che sua madre non è venuta a prenderla; si avventura allora da sola nella caotica Teheran, cercando la strada di casa. La cinepresa la segue nei suoi incontri, nei suoi spostamenti incerti, nei suoi sguardi spaesati, in una metropoli brulicante e rumorosa, dove l’infanzia sembra sola e invisibile, ma anche irriducibilmente testarda.
Poi, all’improvviso, la bambina si rivolge alla macchina da presa e dice che non vuole più recitare. Il regista, fuori campo, la rimprovera, entra brevemente in scena e le riprese si interrompono. A questo punto, "Lo specchio" cambia pelle: la fotografia si fa instabile, sgranata, l’inquadratura perde la compostezza, la narrazione si apre all’imprevisto. Mina, ormai fuori dal ruolo, si toglie il gesso, l’hijab, il giubbino – simboli della finzione, ma anche di una costrizione sociale reale – e abbandona il set, mentre la troupe decide di continuare a riprenderla di nascosto, approfittando del microfono ancora addosso alla bambina.
Il film sembra allora inseguire la realtà mentre sfugge, registrare il mondo che continua a scorrere oltre il controllo del regista, restituendo l’illusione di un’autenticità non più filtrata, che però – come ammette Panahi stesso – era anch’essa sceneggiata. Il cortocircuito tra messa in scena e realtà è talmente riuscito da trarre in inganno: al Festival di Locarno, dove il film si è aggiudicato il Pardo d'oro, molti spettatori credevano che la rottura del film fosse accaduta realmente. Panahi invece finge di perdere il controllo del suo lavoro per metterci di fronte al paradosso della rappresentazione: più si cerca la realtà, più si deve costruirla.
Eppure, questa riflessione metacinematografica non si riduce a un esercizio postmoderno o autoreferenziale: il gesto di Mina, che rifiuta il proprio ruolo, che abbandona il set, che si oppone a essere rappresentata come una bambina piagnucolosa, assume un valore etico, politico e poetico. Da un lato, rivendica una soggettività che si sottrae alla funzione simbolica a cui il cinema – e la società – vogliono relegarla; dall’altro, smaschera l’artificio anche del cosiddetto “realismo”, invitando a una forma di rappresentazione ancora più sincera.
Allo stesso tempo, Panahi interroga la natura stessa del cinema iraniano degli anni ’90, fortemente influenzato dal neorealismo e dominato dalla figura del bambino errante. La continuità con "Il palloncino bianco" è evidente, anche perché Mina è interpretata dalla sorella dell’attrice protagonista del film precedente, ma è una continuità messa in discussione, rovesciata, speculare; il riflesso di una forma che cerca di superare sé stessa.
Panahi si distacca così dal modello kiarostamiano, cui pure è debitore, e che riecheggia non solo nella struttura narrativa circolare – Mina parte dalla scuola e alla scuola vuole tornare – ma anche nella costruzione dei personaggi: bambini caparbi, adulti bruschi o assenti, interazioni quotidiane che si caricano di senso. Le interruzioni brechtiane, le conversazioni di sfondo, la presenza della radio che scandisce una partita e i piani-sequenza lunghi e avvolgenti, riportano alla mente i capolavori del maestro, ma Panahi li trasforma in qualcosa di proprio Anche ne "Lo specchio" il metacinema non è un vezzo formale, ma una necessità morale: significa riconoscere i limiti del mezzo e, insieme, la sua potenza. Quando Mina chiede a un vigile se conosce suo padre o quando parla con l’uomo che sostiene di aver doppiato John Wayne, siamo in uno spazio ambiguo in cui tutto può essere reale e tutto può essere recitato. Eppure, anche in questo spaesamento, emerge una tensione alla verità.