lunedì 26 maggio 2025

Lo specchio (Jafar Panahi, 1997)




Il secondo lungometraggio di Jafar Panahi rappresenta una tappa importante nella riflessione metacinematografica del cinema iraniano degli anni '90. Dopo il successo internazionale de "Il palloncino bianco" (1995), Panahi decide di restare in Iran, rifiutando proposte di lavoro all’estero, per girare un altro film incentrato sull’infanzia, un tema centrale nella cinematografia iraniana per ragioni che travalicano l’estetica e sconfinano nella strategia: come lui stesso afferma, in un contesto in cui non è possibile esprimersi liberamente attraverso i personaggi adulti a causa della censura, si è costretti a farlo attraverso i bambini, trasformando lo sguardo infantile nel veicolo di un discorso critico.

Tuttavia, "Lo specchio" (Ayneh, 1997) non si limita a replicare le formule narrative de "Il palloncino bianco", ma le mette in discussione e le capovolge, con un colpo di scena che interrompe bruscamente la narrazione lineare e immerge lo spettatore in una riflessione sul confine fra realtà e finzione. La prima parte del film segue la piccola Mina, una bambina con un braccio ingessato che, all’uscita da scuola, scopre che sua madre non è venuta a prenderla; si avventura allora da sola nella caotica Teheran, cercando la strada di casa. La cinepresa la segue nei suoi incontri, nei suoi spostamenti incerti, nei suoi sguardi spaesati, in una metropoli brulicante e rumorosa, dove l’infanzia sembra sola e invisibile, ma anche irriducibilmente testarda.





Poi, all’improvviso, la bambina si rivolge alla macchina da presa e dice che non vuole più recitare. Il regista, fuori campo, la rimprovera, entra brevemente in scena e le riprese si interrompono. A questo punto, "Lo specchio" cambia pelle: la fotografia si fa instabile, sgranata, l’inquadratura perde la compostezza, la narrazione si apre all’imprevisto. Mina, ormai fuori dal ruolo, si toglie il gesso, l’hijab, il giubbino – simboli della finzione, ma anche di una costrizione sociale reale – e abbandona il set, mentre la troupe decide di continuare a riprenderla di nascosto, approfittando del microfono ancora addosso alla bambina.

Il film sembra allora inseguire la realtà mentre sfugge, registrare il mondo che continua a scorrere oltre il controllo del regista, restituendo l’illusione di un’autenticità non più filtrata, che però – come ammette Panahi stesso – era anch’essa sceneggiata. Il cortocircuito tra messa in scena e realtà è talmente riuscito da trarre in inganno: al Festival di Locarno, dove il film si è aggiudicato il Pardo d'oro, molti spettatori credevano che la rottura del film fosse accaduta realmente. Panahi invece finge di perdere il controllo del suo lavoro per metterci di fronte al paradosso della rappresentazione: più si cerca la realtà, più si deve costruirla.





Eppure, questa riflessione metacinematografica non si riduce a un esercizio postmoderno o autoreferenziale: il gesto di Mina, che rifiuta il proprio ruolo, che abbandona il set, che si oppone a essere rappresentata come una bambina piagnucolosa, assume un valore etico, politico e poetico. Da un lato, rivendica una soggettività che si sottrae alla funzione simbolica a cui il cinema – e la società – vogliono relegarla; dall’altro, smaschera l’artificio anche del cosiddetto “realismo”, invitando a una forma di rappresentazione ancora più sincera.

Allo stesso tempo, Panahi interroga la natura stessa del cinema iraniano degli anni ’90, fortemente influenzato dal neorealismo e dominato dalla figura del bambino errante. La continuità con "Il palloncino bianco" è evidente, anche perché Mina è interpretata dalla sorella dell’attrice protagonista del film precedente, ma è una continuità messa in discussione, rovesciata, speculare; il riflesso di una forma che cerca di superare sé stessa.

Panahi si distacca così dal modello kiarostamiano, cui pure è debitore, e che riecheggia non solo nella struttura narrativa circolare – Mina parte dalla scuola e alla scuola vuole tornare – ma anche nella costruzione dei personaggi: bambini caparbi, adulti bruschi o assenti, interazioni quotidiane che si caricano di senso. Le interruzioni brechtiane, le conversazioni di sfondo, la presenza della radio che scandisce una partita e i piani-sequenza lunghi e avvolgenti, riportano alla mente i capolavori del maestro, ma Panahi li trasforma in qualcosa di proprio 
Anche ne "Lo specchio" il metacinema non è un vezzo formale, ma una necessità morale: significa riconoscere i limiti del mezzo e, insieme, la sua potenza. Quando Mina chiede a un vigile se conosce suo padre o quando parla con l’uomo che sostiene di aver doppiato John Wayne, siamo in uno spazio ambiguo in cui tutto può essere reale e tutto può essere recitato. Eppure, anche in questo spaesamento, emerge una tensione alla verità.

La sequenza finale – con la macchina da presa che spiando si avvicina alla soglia della casa, l’audio che si interrompe deliberatamente, il microfono spento per errore – è una dichiarazione d’intenti: il cinema può solo avvicinarsi, può solo tentare di ascoltare, ma non può possedere ciò che filma. Come nel finale di "Close-Up", Panahi riflette sulla distanza incolmabile tra il filmico e il profilmico, tra l’arte e la vita. "Lo specchio" è allora una riflessione sull’impotenza e sulla responsabilità del cinema: può mostrare la realtà, ma non cambiarla; può raccontare la costrizione, ma non liberare; può solo – e già è moltissimo – restituire il riflesso di una verità che non smette di interrogare chi guarda.

domenica 25 maggio 2025

La torta che non c'era

 "Anche dopo che le è stato vietato di girare film, ha continuato a farli e i suoi film hanno continuato a essere proiettati a Cannes. Incluso "This Is Not a Film" , che a quanto pare è stato contrabbandato dall'Iran a Cannes dentro una torta. Come è andata?"


"La storia della torta non è altro che una bugia. Non ha niente a che fare con me, e non ho idea di chi l'abbia detta né di come sia iniziata. È quasi ridicola, perché abbiamo semplicemente messo il film su una chiavetta USB e io ho dato la chiavetta a qualcuno che era in viaggio, lui l'ha portata a Cannes e questo è tutto. Non ho idea di chi abbia inventato la storia della torta e a quale scopo. Che tipo di torta dovesse essere, se la chiavetta fosse dentro la torta, sopra la torta o altrove, non ne ho idea. Ma io non c'entro niente con quella storia."


https://www.hollywoodreporter.com/movies/movie-news/jafar-panahi-cannes-interview-it-was-just-an-accident-1236221113/?fbclid=IwZXh0bgNhZW0CMTEAAR4d4wZNY7MPmHh5H-wqibJ_bwBk57NxFX-tPfj-6H-Y9svdVLrsgpkjO3Qt7w_aem_fvwihSqfcSDk0z_yt-6SYQ




sabato 24 maggio 2025

Palma d'oro a Jafar Panahi!


 

"Un simple accident" di Jafar Panahi è il secondo film iraniano a vincere la palma d'oro a Cannes, il premio più prestigioso per il cinema d'autore, 28 anni dopo "Il sapore della ciliegia" di Abbas Kiarostami (1997). 

Panahi diventa inoltre il primo regista in assoluto ad aver trionfato nei quattro principali festival europei: oltre a Cannes, Locarno ("Lo specchio", 1997), Venezia ("Il cerchio", 2000) e Berlino ("Taxi Teheran", 2015)

Una giornata storica per il cinema iraniano!

sabato 17 maggio 2025

Kafka a Teheran ( Ali Asgari, Alireza Khatami, 2023)




L’asfissia quotidiana del vivere in un Paese dove il potere ha preso il posto dell’aria. Diretto da Alireza Khatami e Ali Asgari, "Kafka a Teheran" (Ayeh haye zamini) è costruito come una suite di nove episodi – o meglio, “versi”, secondo l’analogia poetica che ispira la struttura dell’opera ("Terrestrial Verses" è il titolo internazionale) – in cui uomini, donne e bambini iraniani si trovano di fronte a un’autorità invisibile ma pervasiva. L’uso della camera fissa, il montaggio proibito, l’assenza di controcampo: tutto converge nel creare un’estetica della costrizione, un teatro filmico dove l’individuo è sempre di fronte a un potere che lo guarda, lo giudica e lo piega. Khatami e Asgari hanno spiegato qual è la fonte di ispirazione per questa forma: il ghazal, la poesia persiana in strofe autonome ma legate tematicamente. Il film diventa così una raccolta di poesie civili e tragiche, dove l’umorismo affiora come una reazione nervosa all’assurdità del sistema.

Il titolo originale del film è tratto da una poesia di Forugh Farrokhzad, la più grande poeta iraniana del Novecento, anche documentarista. Gli ultimi versi della poesia recitano: “E dopo la terra / Non accolse più i morti.” È un’immagine che cristallizza la negazione del futuro, ma anche la condanna di un presente inospitale. “Kafka a Teheran” è un’opera di resistenza che si regge sulla parola, sul corpo in ascolto, sulla performance degli attori che affrontano lunghissimi piani-sequenza con una notevole tensione drammatica. Non improvvisa nulla: tutto era già scritto, ogni dettaglio calibrato. Eppure ogni scena vibra di vita vissuta. Perché questa non è fiction, è iperrealtà: per l’iraniano medio, questi dialoghi sono pane quotidiano. Non per niente uno dei due registi, Ali Asgari, già noto al pubblico italiano dei festival in particolare per i suoi corti (oltre che per aver studiato a Roma Tre)  a causa di questo film ha subito il sequestro del passaporto per alcuni mesi.






Il primo episodio, tra i più emblematici e mordaci, presenta un giovane uomo che desidera chiamare suo figlio appena nato "David". L’impiegato fuori campo – di cui non vediamo il volto, ma solo sentiamo la voce inquisitoria – obietta: è un nome occidentale, non iraniano. Il giovane propone Gholam Hossein, come Saedi, scrittore iconico della sinistra iraniana, oppositore dello scià, simbolo di un’altra idea di cultura. La scelta scatena una spirale grottesca di incomprensione e censura.

Il secondo episodio, unico con una bambina protagonista, è un piccolo capolavoro di sintesi sulla repressione dell’identità femminile. Selena, otto anni, balla ascoltando pop occidentale mentre indossa una felpa di Topolino (figura che ritorna, poi, in un altro degli episodi migliori). Ma deve provarsi il “completo” per la scuola: un processo che la spoglia progressivamente della sua individualità per rivestirla di anonimato e ortodossia. Appena finita la vestizione, si libera da tutto e ricomincia a ballare. È un gesto che vale quanto mille discorsi: l’identità resiste, anche se continuamente negata. 






“Kafka a Teheran” è un atto di cinema che si fa testimonianza, nonostante tutto. Non un film “su” l’Iran, ma “dentro” l’Iran. Non c’è violenza esplicita, né riferimenti diretti alla guida suprema o ai Guardiani della Rivoluzione. Eppure ogni sequenza è un urlo sommesso contro l’autoritarismo, una denuncia che passa attraverso l’ordinario. Un aspirante regista si vede censurare ogni pagina della sua sceneggiatura, una donna subisce molestie a un colloquio di lavoro, le patenti di guida diventano un problema e così via, una situazione kafkiana dopo l’altra, fino a un finale apocalittico. Episodi in apparenza scollegati, ma uniti dal filo di un assurdo che ricorda Beckett o Ionesco, ma che è del tutto iraniano.

Un film sulla burocrazia che diventa teologia, sulla religione che diventa norma, sul potere che si annida nei dettagli, nelle carte da firmare, nei nomi da scegliere. E anche un film sulla dignità di chi non si piega. Girato in soli sette giorni, autofinanziato, senza permessi ufficiali, è un capitolo importante del nuovo cinema iraniano post-”Donna Vita Libertà”. Khatami e Asgari dicono: C’era un tempo per raccontare storie attorno al fuoco. Ora è tempo di raccontarle dentro il fuoco. Ecco cos’è "Kafka a Teheran": un film dentro il fuoco, che brucia e illumina.


giovedì 15 maggio 2025

Una separazione (Asghar Farhadi, 2011)

 



Quando nel 2011 "Una separazione" (Jodāyi-e Nāder az Simin) vinse l’Orso d’Oro alla Berlinale, e nel 2012 il primo premio Oscar nella storia del cinema iraniano, la critica internazionale lo accolse come un capolavoro di coraggio e umanità. Il film di Asghar Farhadi fu letto da molti come un’allegoria della società iraniana, oppressa da rigidità religiose, patriarcato e tensioni generazionali. Ma fermarsi a questa chiave interpretativa significherebbe ridurre un’opera che invece si distingue per la complessità della costruzione narrativa e per la radicale ambiguità morale che la attraversa. "Una separazione" non è solo il racconto di una coppia in crisi: è un laboratorio cinematografico che interroga la verità, la giustizia, il linguaggio stesso e le modalità con cui costruiamo — o evitiamo — di assumerci responsabilità.

Il punto di partenza narrativo è semplice ma potente: Simin vuole lasciare l’Iran per garantire alla figlia Termeh un futuro diverso, ma il marito Nader si oppone perché si sente moralmente vincolato ad accudire il padre malato di Alzheimer. Da questa divergenza scaturisce una catena di eventi che coinvolge anche Razieh, una donna incinta e devota che accetta di lavorare per Nader, e che finirà per essere vittima e nodo centrale di un dramma giudiziario, e suo marito Hojjat, uomo facilmente irascibile e pieno di debiti. Ma "Una separazione" è molto più di una duplice vicenda familiare: è una frattura epistemologica, dove ciò che vediamo e ciò che ci viene detto divergono costantemente. La verità, se esiste, è sempre parziale, ritardata, distorta. I personaggi mentono o tacciono non per cattiveria, ma per necessità. Nessuno è interamente colpevole, nessuno è del tutto innocente. Ogni parola detta ha un peso specifico e ogni omissione produce conseguenze.




Il film costruisce un universo dove la verità è una costruzione discorsiva e le versioni dei fatti si rincorrono senza mai sovrapporsi perfettamente. Il sistema giudiziario rappresentato non è una garanzia di verità ma un luogo in cui i personaggi dosano ogni frase per evitare ripercussioni legali. Farhadi orchestra con minuzia questa tensione drammaturgica: ogni scena aggiunge un dettaglio, ma nessuna scioglie l’enigma. Nader ha davvero spinto Razieh, causandone l’aborto? E Razieh ha detto tutto ciò che sa? Le risposte non sono mai date: lo spettatore è chiamato a decidere, ma qualsiasi posizione sarà sempre provvisoria.

Questa dinamica è sostenuta da una messa in scena rigorosa, che unisce il realismo quotidiano a una tensione costante. La camera a mano, gli ambienti domestici, l’assenza di musica e le interpretazioni misurate di tutto il cast - a partire dai quattro protagonisti Leila Hatami, Peyman Moadi, Sareh Bayat e Shahab Hosseini - danno al film un tono sobrio e al contempo drammatico. L’estetica di Farhadi è deliberatamente sospensiva: più che coinvolgere emotivamente, sollecita il giudizio, costringe a pensare. Emblematica è la scena iniziale: Nader e Simin parlano direttamente alla macchina da presa, rivolgendosi a un giudice invisibile. È lo spettatore, dunque, a essere messo sul banco, in una posizione di responsabilità morale. Non può semplicemente osservare: deve interrogarsi, prendere posizione, sapere che ogni giudizio sarà parziale e forse ingiusto.

In questo processo, Termeh — la figlia undicenne — assume un ruolo fondamentale. Non è solo un personaggio secondario, ma una vera e propria figura osservativa, il cui punto di vista orienta l’intera struttura percettiva del film. Fin dalla prima apparizione la vediamo filtrata da un vetro, sfocata, mentre guarda la madre entrare in camera: un’immagine che anticipa il gioco di trasparenze e riflessi che attraversa tutto il film. L’appartamento familiare diventa una rete di sguardi incrociati, dove ogni superficie vetrata collega e separa i personaggi, creando una costellazione visiva in cui la distanza affettiva e la possibilità del legame convivono.




Termeh incarna anche un altro tipo di conflitto: quello tra due modelli educativi e sociali. Nader, pur affettuoso, la cresce nel culto dell’integrità assoluta; Simin, più pragmatica, la educa alla mediazione. Quando Termeh scopre che anche il padre mente, lo scarto etico che ne deriva è devastante: si incrina l’identificazione, si frantuma la coerenza morale. In quella rottura silenziosa si specchia il destino di una generazione e, simbolicamente, di un intero paese in bilico tra fedeltà e cambiamento.

La tensione tra visibile e invisibile è rafforzata da un uso sapiente delle ellissi. Farhadi taglia fuori dallo schermo i momenti decisivi: non vediamo la caduta di Razieh, né il momento esatto del furto. Lo spettatore, come i personaggi, è lasciato in sospeso, costretto a colmare le lacune con ipotesi, ricostruzioni, dubbi. L’importante non è il fatto in sé, ma la discussione che ne deriva. La verità non è ciò che accade, ma ciò che viene detto — o non detto — su ciò che è accaduto. Le ellissi non nascondono: rivelano, proprio in quanto omettono. Diventano luoghi di conflitto, generatori narrativi.





Il realismo del film si fonda su questa paradossale combinazione di precisione minuziosa e vuoti strategici. Farhadi riesce così a unire l’esattezza del dettaglio con la tensione drammatica; l’eccesso di costruzione non indebolisce il realismo, lo rafforza: la credibilità scaturisce non dalla semplicità, ma dalla complessità.

"Una separazione" è quindi un film che non denuncia, ma interroga; non prende posizione, ma costringe a prenderla. Parla del presente senza essere didascalico, perché pone domande universali: sul senso della giustizia, sulla responsabilità individuale, sull’etica della parola. È un cinema della responsabilità, dove il vero protagonista non è un personaggio, ma lo spettatore. Farhadi non offre risposte: crea condizioni affinché ciascuno si senta obbligato a porsi delle domande. In questo senso, "Una separazione" è uno dei più grandi film del XXI secolo, capace di restituire la complessità dell’umano in una forma tanto limpida quanto inquietante.


martedì 13 maggio 2025

Dietro il parabrezza: come il cinema iraniano trasforma l’auto in spazio politico

Nel cinema iraniano, l’automobile non è solo un mezzo, ma una vera e propria arena narrativa. Nasim Naghavi, studiosa di cultura visiva, lo dimostra in un saggio che analizza come l’interno di un’auto diventi uno spazio intimo e altamente simbolico in film come Dieci di Abbas Kiarostami e Taxi Teheran di Jafar Panahi.

Per molti registi iraniani, girare scene all’interno di un’auto non è solo una scelta estetica o logistica, ma una precisa strategia narrativa. Nell’Iran contemporaneo, dove lo spazio pubblico è fortemente regolamentato, l’abitacolo diventa il teatro di una “mobilità sociale” che riflette tensioni di classe, genere e identità. È dentro un’auto che i personaggi si confessano, litigano, si mettono a nudo, spesso protetti – o intrappolati – da una lamiera sottile.

Interessante è la riflessione di Naghavi sul ruolo delle donne in questi microcosmi mobili. In una società in cui la libertà femminile è sorvegliata, l’auto offre – seppur temporaneamente – un angolo di autonomia: un luogo in cui togliere il velo, parlare liberamente, o semplicemente guidare, può assumere un significato profondamente politico.

Quello che emerge è una visione stratificata e critica dello spazio urbano iraniano: non solo strade, palazzi o piazze, ma anche le auto che lo attraversano diventano luoghi vivi e carichi di senso. 

Articolo completo: Navigating Class, Gender, and Urban Mobile Spaces – Nasim Naghavi (MDPI)

lunedì 12 maggio 2025

La lotta delle donne nei film di Roustayi

La tesi di Narges Azami, intitolata The Marginality of Women in Narratives: Reflections on Iranian Women's Struggles Through Saeed Roustayi's Films (2025), analizza la marginalizzazione delle donne in tre film iraniani post-rivoluzionari diretti da Saeed Roustayi: Life and a Day (2016), Just 6.5 (2019) e Leila e i suoi fratelli (2022). Utilizzando il concetto di intersezionalità, lo studio esamina come diverse forme di oppressione—come genere e classe—si intersechino nella vita delle donne. 

L'analisi identifica quattro temi principali: 

1. Lavoro emotivo: le donne sono spesso caricate di responsabilità emotive non riconosciute. 


2. Cancellazione simbolica: le loro esperienze e contributi vengono frequentemente ignorati o minimizzati. 


3. Visibilità limitata: le donne sono spesso assenti o marginali negli spazi pubblici e istituzionali. 


4. Oppressione intersezionale: le discriminazioni basate su genere, classe e tradizione si combinano, limitando le scelte e la libertà delle donne. 



La tesi sostiene che i film di Roustayi criticano il sistema patriarcale iraniano, mostrando come l'oppressione femminile non derivi sempre da atti violenti, ma spesso da dinamiche silenziose come pressioni emotive, silenzio forzato e esclusione sociale. In particolare, Leila’s Brothers illustra come una donna, nonostante i suoi sforzi per migliorare la situazione familiare, venga ostacolata da norme tradizionali e dinamiche patriarcali. 

In conclusione, la tesi evidenzia come l'oppressione delle donne in Iran sia perpetuata non solo attraverso la violenza, ma anche tramite meccanismi sottili e sistemici che limitano la loro autonomia e visibilità.