domenica 9 ottobre 2016

Close-Up, Abbas Kiarostami (1990)

C'ero anch'io, in quel gruppetto di giovani appassionati che hanno scritto le primissime recensioni su Ondacinema. Ho collaborato per anni - oltre cento i miei contributi - con quel sito che mi ha permesso di conoscere persone che oggi annovero tra i miei amici. Una sezione di approfondimento era (ed è) quella delle "Pietre miliari", ovvero i classici più influenti nella storia del cinema. La mia prima pietra scagliata fu "Un chien andalou" . La seconda "Close-Up" del maestro Kiarostami. Rileggendola oggi la trovo molto bella, uno dei miei esiti più felici. La riporto qui sotto.
"Close-Up" figura tra i migliori 50 documentari di sempre nella classifica della rivista Sight & Sound.





È il 1990 e il successo di film come "Dov'è la casa del mio amico" ha ormai varcato i confini della Repubblica Islamica, segnalando il nome di Abbas Kiarostami all'attenzione del pubblico occidentale più cinefilo. Il regista sta lavorando ad uno dei suoi tipici soggetti, su un gruppo di bambini alle prese coi pochi spiccioli di cui dispongono, quando la cronaca impone un repentino mutamento di rotta. L'autore non riesce infatti a non pensare a quell'uomo che, per scopi imprecisati, si è introdotto in casa altrui, facendosi passare per un altro celebre regista: Mohsen Makhmalbaf. Una storia che incarna una serie di spunti ideali per essere trasformati in un film di Kiarostami.
È l'alba di "Close-Up", film che, oltre a unire i due massimi esponenti del Nuovo Cinema Iraniano, ne costituisce una sorta di compendio. Nella vicenda dell'impostore Sabzian possiamo infatti trovare una riflessione sui rapporti tra la realtà persiana contemporanea e il potere attrattivo del cinema, nonché sulla labilità del confine tra realtà e finzione.

La prima parte racchiude in sé l'intera poetica del regista. Il giornalista Farazmand ha avuto la soffiata della sua vita e, per realizzare uno scoop "alla Oriana Fallaci", non esita a denunciare Sabzian. Nel reporter è possibile, per molti versi, intravedere un alter-ego di Kiarostami: per la povertà di mezzi con cui entrambi sono costretti a lavorare (Farazmand non ha nemmeno un registratore ed è costretto a elemosinarlo in giro), per la forza di volontà che nonostante tutto ci mettono, ma anche per gli aspetti (poco) etici insiti nel loro mestiere, che offre spesso la tentazione di lucrare sulle disgrazie altrui.
Nel tragitto, percorso su un taxi improvvisato, che accompagna i gendarmi e il giornalista sul luogo dell'accaduto, incontriamo per brevi istanti personaggi che non si vedono, ma che si possono solo immaginare, e altri, come il venditore di tacchini, che svelano frammenti di vita quotidiana.
Scene fittamente dialogate lasciano il campo, una volta giunti davanti alla casa degli Ahankah (i gabbati), a silenzi; a fugaci tasselli della triste vita dei soldati, quello di leva che sente nostalgia di casa, quello che non sa nulla del mondo, men che meno del cinema; a squarci di inaspettata poesia, con Farazmand che raccoglie alcuni splendidi fiori da un mucchio di foglie morte e ne fa un mazzetto (qualcuno ricorda il fiore tra le pagine di un quaderno, nell'ultima inquadratura di "Dov'è la casa del mio amico"?). E all'attesa: quella dei militari, quella dello spettatore, quella di una bomboletta spray che, scalciata dal giornalista, percorre lentamente una discesa, con la telecamera che la segue pazientemente. Tutti ad aspettare l'ovvio epilogo del prologo, ovvero l'arresto di Sabzian.

È dunque un film di fiction, quello che i titoli di testa, a un quarto d'ora dall'inizio della pellicola, stanno introducendo, sovraimpressi alle rotative del giornale di Farazmand che titola "Arrestato il falso Makhmalbahf?" No, non lo è. Potrebbe invece tramutarsi in un documentario, dal momento che lo stesso Kiarostami entra in gioco, va a intervistare i personaggi coinvolti nel caso e ottiene l'autorizzazione a filmare il processo per truffa che vede imputato lo stesso Sabzian.
Ciò che preme al regista è, da un lato, svelare immediatamente il processo filmico, chiedendo di poter intervenire in prima persona nel dibattimento e spiegando i dispositivi tecnici utilizzati per le riprese; dall'altro affiancare all'indagine giudiziaria quella psicologica, scavando coi suoi close-up (è il termine inglese che indica il primo piano) nella mente dell'imputato.

Ormai il film sembra aver preso la strada del documentario classico, per quanto, come normalmente avviene, ampiamente manipolato: gli "attori" verranno trattenuti in aula ben nove ore dopo la fine dell'udienza. E invece, ecco partire un finto flashback, di pura fiction, in cui viene mostrato come Sabzian sia riuscito ad adescare la signora Ahankah, a introdursi in casa sua e a chiedere duemila toman per realizzare un film con i suoi familiari come protagonisti.

Mentre la ricostruzione prosegue, lo spettatore ha modo di rendersi conto di quanto sia misera la condizione dei nostri eroi: i due figli maschi del padrone di casa sono laureati ma ancora alla ricerca di un'occupazione, l'accusato ha un impiego modesto e precario in una stamperia, un divorzio alle spalle e due figli da mantenere. Uno spaccato impietoso dell'Iran dell'epoca, un Paese appena uscito da un'estenuante guerra con l'Iraq che lo ha spossato economicamente e socialmente. In un contesto tale, il mondo del cinema diventa un miraggio per chiunque cerchi il successo come scappatoia, per uscire dalle difficoltà quotidiane. Così, membri di una famiglia istruita e borghese accettano di fare gli attori per un ovvio millantatore.

Quest'ultimo è un personaggio estremamente sfaccettato ed interessante. Quando mente? Quando invece è sincero? Impossibile dirlo con certezza.
Tra chi ha studiato questa pellicola, quasi nessuno si è soffermato sul titolo scelto da Sabzian per il film che vuole realizzare: "La casa del ragno". Si tratta di un'immagine che, nella tradizione islamica, ha un duplice rimando: significa protezione se ricondotta a una leggenda che riguarda l'egira di Maometto, oppure fragile rifugio per chi ha rifiutato la dimora di Dio se si guarda a una sura del Corano. In ogni caso, a meno che non si tratti di una trovata di Kiarostami, è evidente la scelta "autobiografica" da parte di Sabzian, accompagnata dalla convinzione che i suoi attori, più colti di lui, non si accorgano della relazione tra il titolo e il raggiro che stanno subendo. Insomma, il protagonista di "Close-Up" è molto meno ingenuo di quanto voglia apparire. Crea una simile messinscena per godere, almeno una volta nella vita, del privilegio, del prestigio, del potere di essere ascoltato e obbedito da tutti.

La pellicola prosegue portando a compimento la classica (per il cinema iraniano) struttura circolare, con un altro flashback che ci mostra il momento della cattura, dove ritroviamo, inquadrati dall'interno di casa Ahankhah, il reporter e i gendarmi della prima sequenza, mentre Sabzian si lascia arrestare senza opporre resistenza. Successivamente, ottiene il perdono degli accusatori, i quali ritirano la denuncia non perché credano in un suo pentimento, ma perché si rendono conto dei suoi oggettivi problemi personali ed economici.

Poesia e commozione nell'ultima scena, in cui il vero Makhmalbaf incontra il suo doppio e lo abbraccia. Questi, davanti al suo mito, non trattiene le lacrime e per la prima volta si dimostra - possiamo dirlo - inequivocabilmente sincero. Acquistato un mazzo di fiori, i due si recano in moto alla casa degli Ahankah, per porgere ulteriori scuse, mentre la troupe di Kiarostami riprende tutto di nascosto.
Sembrerebbe la sequenza più realistica del film, se non fosse per l'artificio consistente nella simulazione di un guasto al microfono di Makhmalbaf, che impedisce l'ascolto di parte del dialogo (Kiarostami lo utilizza anche per impedire che il collega rubi la scena) e per quell'ultima inquadratura, su cui scorrono i titoli di coda: un primo piano di Sabzian, impossibile da effettuare senza palesare la macchina da presa all'attore.

Il film, in patria, colpisce molto pubblico e critica e dà il via a un dibattito tra i due registi coinvolti, proprio sul tema del realismo, con Kiarostami a sostenere che l'intera sceneggiatura gli si sia presentata davanti e che egli abbia dovuto esclusivamente filmarla e Makhmalbaf a ribattere che ciò che vediamo sullo schermo è soltanto una delle possibili interpretazioni dell'accaduto: quella dell'autore.
Anche Nanni Moretti omaggia questo film, nel cortometraggio "Il giorno della prima di Close-Up", che spiega le difficoltà nel programmare al cinema una simile pellicola.
Infine, due registi iraniani, a distanza di sei anni, tornano sulle tracce dei protagonisti per capire cosa sia cambiato nelle loro vite. "Close Up Long Shot", racconta di un Sabzian relativamente diverso da quello che conosciamo: il Sabzian del film è a tutti gli effetti un personaggio kiarostamiano. Un'ulteriore dimostrazione del genio di questo grande regista, ma anche la prova che, intorno alla questione del realismo, è Makhmalbaf ad aver ragione. 

http://www.ondacinema.it/film/recensione/close.html

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