sabato 10 novembre 2018

Tutti lo sanno, Asghar Farhadi (2018)



In occasione del matrimonio della sorella, Laura (Penélope Cruz) torna con i figli nel proprio paese natale, nel cuore di un vigneto spagnolo di proprietà del suo amico Paco (Javier Bardem), mentre il marito Alejandro (Ricardo Darín) è rimasto in Argentina. Ma un avvenimento inaspettato turberà il suo soggiorno facendo riaffiorare un passato rimasto troppo a lungo sepolto.

Il secondo film europeo di Asghar Farhadi, una coproduzione tra Spagna, Francia, Italia, già alla presentazione a Cannes era andato incontro ai giudizi negativi pressoché unanimi della critica. In effetti, lo diciamo subito, è forse il film meno convincente del regista. Proviamo a capirne i motivi, senza ripercorrere nel dettaglio la trama, confrontando invece "Tutti lo sanno" con le caratteristiche che hanno fatto grande il cinema di Farhadi.

L'accusa di aver rappresentato una Spagna da cartolina è infondata, il problema è semmai l'opposto: il film potrebbe essere ambientato ovunque, al netto dei divieti che Farhadi può incontrare in patria (curioso che un musulmano racconti le gesta di produttori di vino; infatti le goffaggini non mancano). Non c'è la cappa della società a soffocare le scelte di vita dei personaggi; pretestuosi appaiono i riferimenti fatalistici a Dio da parte di Alejandro, della religione cattolica resta solo il rito del matrimonio. Ricorre il tema dell'espatrio ma, davvero, non aggiunge nulla. Se non c'è Spagna, non c'è neanche Argentina (per il terzo protagonista Farhadi inizialmente pensava a un turista americano). L'emigrazione e il ritorno in patria non sono elementi che contribuiscono a lacerare gli animi dei personaggi, a differenza che in molti altri film, ad esempio nella trasferta francese de "Il passato".



I protagonisti non sono persone più istruite della media, con un'autorevolezza morale da rimettere in discussione (magistrale in tal senso "Il cliente"). La moglie di Paco fa l'educatrice, ma è un personaggio secondario, e lo sguardo sui ragazzi 'difficili' che lei segue, e che sono presenti nel film, è assente. Anziché un confronto tra ceti, il regista abbozza un discorso di classe, tra proprietari terrieri produttivi in ascesa ed ex possidenti, e tra viticoltori e braccianti, ma è talmente superficiale da passare inosservato. Come l'autore conosce bene la realtà urbana e i suoi abitanti, l'ambiente della comunità agricola gli è palesemente estraneo. Non è solo una questione geografica. Maggiore credibilità ha invece il tema del denaro, se astratto dal contesto: la necessità di averlo, il pudore e l'orgoglio ferito di chi è costretto a chiederne in prestito, le passate fortune perdute e rinfacciate; sono elementi che si inseriscono, per la prima volta in modo così prepotente, e non scontato, in dinamiche tra personaggi che invece sono consuete.

Resta infatti il cuore del cinema di Farhadi: la famiglia, coi suoi drammi, le separazioni, le accuse vicendevoli. È in quest'alveo che si sviluppa la parte migliore del film, quella centrale che coincide con l'arrivo di Alejandro dall'Argentina, in cui emerge un minimo di riflessione intellettuale, sulla paternità e le responsabilità che comporta; ma soprattutto si ritrova la capacità di scrittura dell'autore, in grado di avvincere complicando la vicenda, scavando nel passato dei personaggi, mettendo in discussione le verità acquisite. Peccato che anche la visione generazionale risulti grossolana. Di solito i figli sono solo testimoni delle bugie e dei litigi dei genitori ("Una separazione", "About Elly"), in questo caso c'è una vittima esplicita.



Spesso si accosta l'arte di Farhadi al thriller o ad altri generi analoghi. Ciò è dovuto sia alla straordinaria tensione drammatica, sia al meccanismo di indagine retrospettiva, alla ricerca di sconvolgenti verità ignote che ribaltano di continuo ragioni e torti. Qui il dispositivo drammaturgico è più banale. Come filo conduttore c'è un giallo, che si risolve di colpo e non per gradi, mentre la sconvolgente verità sul passato è in realtà molto prevedibile. I finali aperti dei film precedenti non erano un mero vezzo autorialistico, bensì l'attestato della complessità sociale e psicologica delineate, su cui il giudizio era appannaggio dello spettatore e non del regista. "Tutti lo sanno" si muove alla ricerca di colpevoli senza appello, e infine spiega troppe cose delle vittime. Riesce a intrattenere per larghi tratti, e non è poco, ma è lecito aspettarsi che un regista di tal rango eviti certi scivoloni e mantenga un'alta tensione morale e intellettuale.

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