In
attesa del bellissimo "Il cliente", in uscita il prossimo
24 novembre per Lucky Red, ricordiamo "Il passato", il film precedente e altrettanto
valido di Asghar Farhadi. Anche in questo caso non possiamo chiamarlo iraniano, poiché la produzione è francese. Tuttavia stiamo parlando del regista di punta della
cinematografia nazionale; che non ha scelto la diaspora: ha solo
fatto una trasferta. L'eccezione ci pare lecita.
"La
verità era uno specchio che cadendo dal cielo si ruppe. Ciascuno ne
prese un pezzo e vedendo riflessa in esso la propria immagine,
credette di possedere l'intera verità." Questi versi, ad opera
del poeta e mistico Rumi, citati spesso da Mohsen Makhmalbaf, sono
stati un punto di riferimento e ispirazione per gran parte dei
registi iraniani acclamanti a livello internazionale, soprattutto
negli anni Novanta. Se per loro, tuttavia, relatività significava
soprattutto cinema nel cinema, per il quarantunenne [oggi quarantaquattrenne] Asghar Farhadi,
unico nome di spicco dell'ultima ondata di cineasti persiani, è
questione di punti di vista alternativi sulla realtà, presente e
passata. Se se ne ha un'opinione prevenuta, non suffragata
dall'esperienza, questa è dovuta in particolare a una costruzione
mentale, che andrà gradualmente smascherata e rovesciata attraverso
la conoscenza, il confronto, il dibattito, il moltiplicarsi degli
angoli di osservazione. In termini cinematografici, attraverso i
dialoghi di una sceneggiatura cesellata con la precisione maniacale
del miniaturista.
Palesata
definitivamente quest'abilità con il capolavoro "Una
separazione", giunto ora al sesto film, il Nostro si configura
definitivamente come il regista iraniano più marcatamente borghese
(lo è almeno dalla sua terza opera, "Fireworks Wednesday",
inedita in Italia), per la centralità del tema della famiglia, che
gli è dichiaratamente caro, e per l'estrazione sociale dei
personaggi. La grossa novità è la trasferta. Abbandonata la terra
natia, Farhadi approda in Francia, come il protagonista Ahmad (Ali
Mossaffa), che vi fa ritorno dopo quattro anni, per formalizzare il
divorzio con Marie (Bérénice Bejo), che nel frattempo vive con un
nuovo compagno, Samir (Tahar Rahim, il "Profeta" di
Audiard) e il suo bambino, insieme a due figli nati da un matrimonio
di Marie precedente a quello con Ahmad. Samir a sua volta è sposato,
ma la moglie vegeta in stato comatoso dopo aver tentato il suicidio.
La trama, come si può vedere, è intricatissima, fitta di drammi
sentimentali e malintesi multipli, sempre disvelati con una
precisione di scrittura davvero rara.
Fuori
dai patrii confini, il cinema farhadiano perde i rimandi alla morale
religiosa e ai vincoli politici che arricchivano di contenuti "About
Elly" e "Una separazione", ma trova un'ottima
compensazione con la scelta di avere tre protagonisti, sempre
meravigliosamente caratterizzati (così come i personaggi di
contorno, compresi i bambini, gli unici limpidi, trasparenti,
incapaci di costruirsi sovrastrutture mentali in quanto scevri delle
ombre e del passato e ben radicati nel presente), rispetto alla
coralità e alla situazione di coppia dei due precedenti.
Le
complicazioni del narrato sono la naturale conseguenza per chi
ambisce, riuscendoci, a tirar fuori dal cilindro un grande film
partendo da assunti da dramma teatrale ottocentesco. Sono infatti il
palcoscenico e la figura di Henrik Ibsen rispettivamente la palestra
di formazione e il principale riferimento artistico di Farhadi.
Sul
piano prettamente registico curiosamente l'autore, proprio come in
"Una separazione", riserva le sequenze di maggiore impatto
all'incipit e all'epilogo: da un lato l'arrivo in aeroporto di Ahmad
e il non dialogo con Marie attraverso un vetro, emblema
dell'incomunicabilità tra i due ex-coniugi, dall'altra un
piano-sequenza finale dal sapore dreyeriano (meglio non rivelare di
più). In mezzo, Farhadi si affida al découpage classico, ma evita
il rischio soap opera grazie all'eccellente direzione degli attori -
magistrale quella dei bambini - e a un impiego delle musiche
sottilissimo, quasi impercettibile.
Per
la fortissima tensione creata nella messa in scena di drammi
familiari, da più parti si è parlato di thriller psicologico, di
dramma filmato come un poliziesco, di "film alla Bergman girato
da Hitchcock". Più propriamente, meglio definirlo come un
grande, densissimo melò contemporaneo, alla stregua dei più alti
esempi del genere. Un nuovo "Segreti e bugie", insomma,
firmato dal più grande sceneggiatore nonché uno dei maggiori
cineasti sulla piazza.
Una
menzione speciale, da parte nostra e della giuria di Cannes 2013, che
le ha assegnato il Prix d'interprétation, va infine all'attrice
protagonista, Bérénice Bejo. Lanciata definitivamente nel
firmamento da "The Artist" del marito Michel Hazanavicius,
ci spiazza interpretando un personaggio diametralmente opposto,
persino caratterizzato con una punta di misoginia. Bérénice riesce
a restituire, in maniera impeccabile, l'"energica debolezza"
e l'antipatia che lo contraddistinguono. E pensare che il regista le
avrebbe preferito Marion Cotillard...
Pubblicato su Ondacinema, in anteprima rispetto all'uscita in sala, il 19/6/2013
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