domenica 29 aprile 2018

Qualcuno da amare, Abbas Kiarostami (2012)




Alla prima trasferta giapponese, Kiarostami si cala nella cultura locale in punta di piedi, senza operare sostanziali variazioni stilistiche rispetto al cinema che gli è più congeniale e affidandosi al punto di vista di uno dei tre personaggi principali: il professor Watanabe, interpretato da Tadashi Okuno, non professionista che ha fatto per cinquant'anni la comparsa senza pronunciare un parola, e che si ritrova a ricoprire un ruolo di primo piano a quanto pare a sua insaputa.
Dietro il volto di un anziano professore in pensione che si è occupato di sociologia e che ancora lavora come traduttore e conferenziere non è difficile intravedere la prospettiva di un affermato cineasta alle prese con l'autunno della propria carriera e con un soggetto - invero esile, debolissimo - che non padroneggia a dovere a causa della distanza culturale e generazionale che lo separa dalla location (poco conta un precedente mediometraggio dedicato a Ozu) e dagli altri due personaggi principali, una studentessa che si prostituisce e il suo irascibile fidanzato - un giovane meccanico - il più complesso e meno decifrabile del trio.

Tutto si svolge in meno di ventiquattro ore, la pellicola divisa in due parti di pressoché ugual durata. La prima notturna, la seconda alla luce del sole, con ambientazione costantemente in interni, siano essi quelli di un appartamento, siano quelli di un abitacolo tipicamente kiarostamiano. Anche i controcampi delle sequenze in automobile sono soggettive dall'interno della vettura. Ed è qui che il regista, affidandosi per non rischiare al proprio inconfondibile mestiere, si dimostra maggiormente a suo agio e crea momenti di indubbia suggestione (grazie anche ai giochi di luce di Katsumi Yanagijima, sulla falsariga di quanto fatto da Luca Bigazzi in "Copia Conforme"). È davvero un piacere ritrovare quei sottilissimi giochi di sguardo che rimandano al Kiarostami migliore, momenti perduti nelle opere recenti (inedite da noi) del cineasta, ultimamente alla ricerca di un linguaggio maggiormente sperimentale ed esasperato (si pensi all'uso sistematico del fuori campo, che qui è invece solo uno stilema all'interno di una gamma più articolata). Ma anche in "Copia conforme", vicenda di una coppia adulta priva del punto di vista del "terzo incomodo" che qui ritroviamo, e lavoro ben più intellettualistico di quest'ultimo, mancavano quelle reiterate interpellazioni dell'adulto rivolte al bambino o all'adolescente (e allo spettatore) che hanno fatto grande il cinema del Kiarostami più celebrato.


Ma al di là del senso di "déjà vu in altro luogo", che queste sequenze pur buone restituiscono, le note dolenti riguardano praticamente tutto il resto. Dicevamo di un soggetto inconsistente, sceneggiato in maniera altrettanto risibile, tra sospetti anacronismi (possibile che in Giappone si usino ancora così tanto le segreterie telefoniche?) e fiacche trovate tappabuchi (ad esempio la barzelletta sui millepiedi). Da chi ha realizzato copioni di estrema efficacia per sé e per i propri allievi non possiamo accettare una storiella improbabile e poco sviluppata, e un finale tranciante, di maniera, decisamente più irrisolto che sanamente aperto.
Distribuito da Lucky Red dopo quasi un anno dalla presentazione a Cannes 2012, e con un titolo italiano che annulla il riferimento al brano jazz "Like Someone in Love", "Qualcuno da amare" è indicato solo per pochi fan irriducibili che ancora non si rassegnano al declino di uno dei maggiori artisti contemporanei. E che magari, se non grideranno al capolavoro, daranno la colpa alla lontananza dall'Iran.
 
Pubblicato su Ondacinema il 25/04/2013
 
 

domenica 22 aprile 2018

Ingredienti per un film iraniano formato export


Nove ingredienti per un film iraniano da festival o da corsa agli Oscar (anche se poi arriva Asghar Farhadi e smentisce tutti):

- presenza della troupe all'interno del film
- miseria, sfortuna, povertà
- ricerca spasmodica di un paio di scarpe, una mela, una pera, un pesce
- sfruttamento di donne e bambini
- suicidio dovuto ad afasia e noia
- attori non professionisti
- natura selvaggia in villaggi e campagne
- avere il film censurato
- terremoti, alluvioni, peste, talebani

Vignetta parodistica a opera di Mahmoud M. 

Quello con la bacchetta non sembra proprio Abbas Kiarostami?

mercoledì 18 aprile 2018

Modest Reception, Mani Haghighi (2012)



Mani Haghighi, nipote del decano della Persia cinematografica Ebrahim Golestan, è un habitué del festival di Berlino. E, dato che parliamo della passerella che ha ospitato spesso l'opera di Jafar Panahi e ha fatto da trampolino alla straordinaria carriera di Asghar Farhadi, è possibile che Haghighi, per altro collaboratore di Farhadi di vecchia data (per esempio attore in "About Elly", dove ha messo a repentaglio le facoltà uditive di Golshifteh Farahani), diventi il prossimo nome di spicco del cinema iraniano a livello mondiale. Possibile, ma non così probabile: le strizzate d'occhio al film di genere americano potrebbero generare una curiosità più limitata, nonostante una personalità autoriale fuori discussione.

Non posso però sbilanciarmi troppo: prima di "Modest Reception" (Paziraie sadeh) avevo visto il solo "A Dragon Arrives!", opera misteriosa e davvero suggestiva, che ha avuto anche una fugacissima distribuzione italiana. Prima o poi dovrò recensirla. Anche l'ultimo "The Pig" è stato accolto molti bene alla Berlinale. "Modest Reception" narra di una coppia (lo stesso Haghighi e l'altra attrice farhadiana Taraneh Alidoosti, meno dolce del solito), che si aggira in auto per montagne innevate, carica di sacchi pieni di banconote, che elargisce senza motivo a persone bisognose, in cambio di richieste bizzarre, filmando i fortunati/malcapitati con un Iphone.

Questo strano road movie ha tutte le peculiarità e i limiti del film che punta sull'originalità del soggetto. Sfida lo spettatore a interrogarsi sull'identità dei protagonisti e sui motivi delle loro gesta. Dicono di essere fratelli, poi sposi, saranno davvero in una di queste relazioni? Lei ha sul serio commesso dei crimini? A tratti si potrebbe pensare che facciano beneficenza disinteressata, ma presto emerge un certo sadismo, specie in lui. E gli interlocutori, più che rapportarsi all'evento di una fortuna piovuta dal celo, devono dimostrare se, per soldi, sono disposti a commettere atti empi, blasfemi, umilianti.

Un cinema come questo può irritare per l'intento apertamente teorico e provocatorio, ma di sicuro smuove l'interesse di chi è propenso a porsi domande e non si accontenta di storie ampiamente risapute.