giovedì 24 luglio 2025

Barandeh (Il vincitore). Il film incompiuto di Amir Naderi

Prima di realizzare "Il corridore" (Davandeh), Amir Naderi firmò un contratto con il Kanun (Centro per lo sviluppo intellettuale dei bambini e degli adolescenti) per girare un film intitolato "Barandeh" (Il vincitore), iniziandone la produzione prima della rivoluzione. Tuttavia, la lavorazione si interruppe proprio a causa della rivoluzione del 1979. Dopo l’evento, il Kanun fece pressioni su Naderi affinché completasse Barandeh. Naderi montò gli ultimi diciannove minuti del film, ma senza fare il missaggio sonoro, e poi interruppe il progetto per convincere il Kanun a lasciargli girare Il corridore.

Seppur muto, il film anticipa chiaramente temi e stile del film successivo.
 
Sceneggiatore e regista: Amir Naderi
Con la partecipazione di: I bambini di Falakeh Dovvom, Bandar Abbas
Direttori della fotografia: Firooz Malekzadeh, Ali Bagheri
Suono: Changiz Sayyad, Hossein Moradi
Montaggio: Mousa Afshar, Mohammad Haghighi
Anno di produzione: 1978 (1357 del calendario iraniano)

 


 

mercoledì 23 luglio 2025

Shayda (Noora Niasari, 2023)

 

 
Il film d’esordio della regista Noora Niasari è una delle opere più significative del recente cinema iraniano della diaspora. Ambientato in Australia nel 1995, racconta la storia tormentata di una donna iraniana che cerca rifugio dalla violenza domestica e dal controllo patriarcale, in un contesto culturale che le è estraneo e a volte ostile.

Il film affonda le radici nella biografia della regista stessa. Niasari, nata a Teheran ma cresciuta in Australia, ha rivelato che la storia di "Shayda" è ispirata all’esperienza reale di sua madre, che negli anni ’90 si rifugiò con lei, ancora bambina, in un centro per donne maltrattate. L'inserto documentario d'epoca montato in chiusura del film ce la mostra, filmata dalla piccola Noora.

Il film nasce dunque da una memoria privata, rielaborata cinematograficamente con sensibilità. Non è solo denuncia, è un atto di amore filiale. La dedica alla madre e alle "coraggiose donne dell’Iran" racchiude il senso dell’opera, legandola simbolicamente anche alle proteste scoppiate in Iran dopo l’uccisione di Mahsa Jina Amini nel 2022 e alla lotta per l’autodeterminazione femminile.

La protagonista, Shayda, è una giovane madre iraniana rifugiatasi con la figlia Mona, di sei anni, in un centro per donne vittime di abusi a Melbourne. Il marito Hossein è un uomo violento, possessivo e manipolatore, e vorrebbe sottrare Mona alla custodia di Shayda per riportarla in Iran. Tuttavia, in quanto padre legale, ottiene temporaneamente il diritto di visita. Ciò crea una situazione di costante tensione e insicurezza, mentre Shayda cerca disperatamente di ottenere l’affidamento esclusivo e ricostruire una nuova vita. Sullo sfondo del conflitto familiare e giudiziario si intreccia la celebrazione del Nowruz, il capodanno persiano, che diventa un’occasione per trasmettere a Mona — e, indirettamente, anche alle altre donne del rifugio australiano — i riti e i simboli dell’identità iraniana. La sceneggiatura, con grande intelligenza, evita ogni pedanteria attraverso un doppio espediente narrativo: da un lato, Shayda introduce la cultura persiana alla figlia; dall’altro, alle donne australiane. Così, elementi come il salto dei fuochi, l'Haft-Sin (il tavolo imbandito con sette oggetti simbolici che iniziano per s... ma non per sh), rituali legati al Nowruz, ma anche le canzoni pre-rivoluzionarie di Googoosh e Hayedeh, la cucina tradizionale e il ballo come espressione liberatoria, la poesia classica persiana, emergono in modo naturale, emotivo, non didascalico. Tutto fa parte di un bagaglio culturale che Shayda si porta dentro come forma di identità e come appiglio.
 
 

 

Uno degli aspetti più interessanti del film è proprio il modo in cui la cultura iraniana viene “portata” in esilio: non come folclore o esotismo per spettatori occidentali, ma come parte viva della quotidianità. Le melodie evocano un Iran perduto, un’epoca più libera, e si intrecciano alle emozioni del presente, come frammenti di un passato che ancora brucia. Fondamentale anche l’uso del bilinguismo: i dialoghi si muovono tra persiano e inglese, spesso nella stessa scena. Questa alternanza non è solo realistica, ma riflette anche la condizione ibrida dell’identità diasporica. Shayda parla persiano con la figlia, ma passa all’inglese con le assistenti sociali o le altre ospiti del rifugio. Il bilinguismo è particolarmente evidente nel personaggio di Farhad, il nuovo amico di Shayda appena arrivato dal Canada, che ormai conosce meglio l’inglese che il persiano: li alterna con una certa goffaggine, e questa incertezza linguistica diventa anche un segno della distanza emotiva e culturale che separa la diaspora dalla madrepatria. La vicinanza tra Farhad e Shayda innesca la gelosia feroce di Hossein, che percepisce la presenza dell’uomo come una minaccia alla propria autorità e intensifica il controllo e l’intimidazione.

Una delle parti più dolorose del film è costituita dalle telefonate tra Shayda e sua madre, rimasta in Iran. La donna è affettuosa, ma al tempo stesso incapace di comprendere davvero la scelta e la sofferenza della figlia. Le vuole bene, ma la colpevolizza. Con tono conciliante, spera ancora che Shayda possa fare “la cosa giusta” e tornare con Hossein, per la buona reputazione della famiglia. In quelle conversazioni emerge tutta la distanza, non solo geografica ma anche culturale, tra generazioni e mondi: una madre cresciuta in una società patriarcale interiorizzata, che non riesce a concepire la ribellione silenziosa e radicale della figlia come atto legittimo e necessario.

La protagonista è interpretata da Zar Amir Ebrahimi, vincitrice del premio come miglior attrice a Cannes nel 2022 per "Holy Spider", oggi vera e propria icona del cinema iraniano in esilio. La sua Shayda è vibrante, trattenuta, credibile: la maternità non è solo il motore della sua azione, ma il luogo in cui resiste, sogna, si protegge. Meno riuscito, invece, il personaggio del marito Hossein: stereotipato, privo di quelle sfumature psicologiche che potrebbero renderlo più umano e ambiguo. Si pensi ad esempio alla complessità morale dei personaggi maschili di Asghar Farhadi, dove il confine tra colpevole e vittima è sempre sottile. In Shayda, invece, la figura del marito resta più netta e prevedibile, sacrificando una parte di ambivalenza narrativa.

Pur con alcuni limiti nella costruzione del personaggio antagonista, Shayda resta un film intenso, importante e profondamente umano, che trasforma un’esperienza familiare dolorosa in un racconto cinematografico universale parlando di libertà, identità, maternità e memoria.

Co-prodotto da Cate Blanchett e premiato al Sundance. 

Da vedere in lingua originale.