lunedì 2 giugno 2025

Buonanotte a Teheran - Critical Zone in streaming

"BUONANOTTE A TEHERAN – CRITICAL ZONE", vincitore del Pardo d’Oro al Festival di Locarno, arriva su iwonderfull.it in streaming dal 12 giugno. In anteprima a Biografilm 2025, il film sarà presentato alla presenza del regista Ali Ahmadzade, che incontrerà il pubblico a Bologna durante la 21ª edizione del festival, in programma dal 6 al 16 giugno 




domenica 1 giugno 2025

Leggere Lolita a Teheran (Eran Riklis, 2024)



Si presenta come un’opera necessaria, come un manifesto civile, come un atto di accusa contro l’oppressione religiosa e patriarcale della Repubblica Islamica dell’Iran, e "Leggere Lolita a Teheran", nella versione cinematografica firmata da Eran Riklis, si inserisce effettivamente in questo solco. Eppure, il film fatica a trovare un linguaggio cinematografico davvero incisivo, rifugiandosi spesso in una narrazione ordinata, accessibile, a tratti didascalica. Più che un grido di dolore o un gesto di rottura, il film somiglia a un’elegante esposizione, pensata per essere compresa e accolta da un pubblico occidentale già predisposto all’empatia.

La regia di Riklis, cineasta israeliano già noto per "La sposa siriana" e "Il giardino di limoni" (qui gira in in Italia: produzione Minerva Pictures e Romanont con Rai Cinema), si distingue per il rispetto e l’attenzione con cui tratta la materia, ma appare qui meno coraggioso ed efficace rispetto ai suoi lavori precedenti. Il racconto autobiografico di Azar Nafisi, figura carismatica e complessa, viene restituito con una struttura ordinata, quasi scolastica, che sembra preferire la chiarezza all’ambiguità, la coerenza narrativa alla tensione emotiva. Le tappe della narrazione – introduzione, sviluppo, conclusione – sono nette, accompagnate da capitoli e cronologie che rendono il tutto facilmente leggibile, ma anche meno coinvolgente.

Alcune scelte, come l’uso episodico dei classici letterari ("Lolita", "Gatsby", "Daisy Miller", "Orgoglio e pregiudizio"), che nel libro rappresentavano territori di confronto interiore e tensione culturale, nel film si riducono spesso a simboli evocativi, più decorativi che realmente problematici. È un approccio che semplifica, anziché approfondire, e che rischia di appiattire la complessità del vissuto delle protagoniste. Manca quasi del tutto, malgrado i tentativi in sede di scrittura, quel senso di perdita che caratterizzava un romanzo sì un po' furbo, ma a suo modo epocale e di grande seguito. Le frasi programmatiche che punteggiano la sceneggiatura (“Pensare non è un reato”, “L’Iran non ti lascia”) appaiono troppo scolpite per convincerci della necessità del film in quanto opera di di testimonianza e resistenza.





Golshifteh Farahani è intensa, partecipe, capace di donare al suo personaggio una gravità autentica. Tuttavia, anche la sua interpretazione risente di una messa in scena che tende più a osservare che a penetrare davvero la materia. Il gruppo di ragazze che accompagna la protagonista resta spesso sullo sfondo, come un coro funzionale, poco esplorato nelle sue singole storie. La simultanea presenza dell'altra star della diaspora iraniana legata all'opposizione, Zar Amir Ebrahimi, conferma i sospetti di un prodotto infiocchettato per l'export. 

E se il tema della condizione femminile in Iran merita sempre e comunque di rimanere sotto i riflettori, forse il problema non è tanto ciò che "Leggere Lolita a Teheran" dice, quanto il modo in cui sceglie di dirlo: cercando il consenso più che lo shock, preferendo rassicurare piuttosto che provocare. In un tempo in cui i racconti del dissenso si moltiplicano nei circuiti festivalieri, servirebbe il coraggio di un cinema che non si limita a raccontare l’ingiustizia ma che ne fa esperienza formale. Che sbaglia, che urla, che balbetta. Questo, invece, è un film che non balbetta mai. E che proprio per questo, finisce col dire troppo poco.

Nel cast femminile anche Mina Kavani ("Gli orsi non esistono") e l'italo-iraniana Isabella Nefar.


lunedì 26 maggio 2025

Lo specchio (Jafar Panahi, 1997)




Il secondo lungometraggio di Jafar Panahi rappresenta una tappa importante nella riflessione metacinematografica del cinema iraniano degli anni '90. Dopo il successo internazionale de "Il palloncino bianco" (1995), Panahi decide di restare in Iran, rifiutando proposte di lavoro all’estero, per girare un altro film incentrato sull’infanzia, un tema centrale nella cinematografia iraniana per ragioni che travalicano l’estetica e sconfinano nella strategia: come lui stesso afferma, in un contesto in cui non è possibile esprimersi liberamente attraverso i personaggi adulti a causa della censura, si è costretti a farlo attraverso i bambini, trasformando lo sguardo infantile nel veicolo di un discorso critico.

Tuttavia, "Lo specchio" (Ayneh, 1997) non si limita a replicare le formule narrative de "Il palloncino bianco", ma le mette in discussione e le capovolge, con un colpo di scena che interrompe bruscamente la narrazione lineare e immerge lo spettatore in una riflessione sul confine fra realtà e finzione. La prima parte del film segue la piccola Mina, una bambina con un braccio ingessato che, all’uscita da scuola, scopre che sua madre non è venuta a prenderla; si avventura allora da sola nella caotica Teheran, cercando la strada di casa. La cinepresa la segue nei suoi incontri, nei suoi spostamenti incerti, nei suoi sguardi spaesati, in una metropoli brulicante e rumorosa, dove l’infanzia sembra sola e invisibile, ma anche irriducibilmente testarda.





Poi, all’improvviso, la bambina si rivolge alla macchina da presa e dice che non vuole più recitare. Il regista, fuori campo, la rimprovera, entra brevemente in scena e le riprese si interrompono. A questo punto, "Lo specchio" cambia pelle: la fotografia si fa instabile, sgranata, l’inquadratura perde la compostezza, la narrazione si apre all’imprevisto. Mina, ormai fuori dal ruolo, si toglie il gesso, l’hijab, il giubbino – simboli della finzione, ma anche di una costrizione sociale reale – e abbandona il set, mentre la troupe decide di continuare a riprenderla di nascosto, approfittando del microfono ancora addosso alla bambina.

Il film sembra allora inseguire la realtà mentre sfugge, registrare il mondo che continua a scorrere oltre il controllo del regista, restituendo l’illusione di un’autenticità non più filtrata, che però – come ammette Panahi stesso – era anch’essa sceneggiata. Il cortocircuito tra messa in scena e realtà è talmente riuscito da trarre in inganno: al Festival di Locarno, dove il film si è aggiudicato il Pardo d'oro, molti spettatori credevano che la rottura del film fosse accaduta realmente. Panahi invece finge di perdere il controllo del suo lavoro per metterci di fronte al paradosso della rappresentazione: più si cerca la realtà, più si deve costruirla.





Eppure, questa riflessione metacinematografica non si riduce a un esercizio postmoderno o autoreferenziale: il gesto di Mina, che rifiuta il proprio ruolo, che abbandona il set, che si oppone a essere rappresentata come una bambina piagnucolosa, assume un valore etico, politico e poetico. Da un lato, rivendica una soggettività che si sottrae alla funzione simbolica a cui il cinema – e la società – vogliono relegarla; dall’altro, smaschera l’artificio anche del cosiddetto “realismo”, invitando a una forma di rappresentazione ancora più sincera.

Allo stesso tempo, Panahi interroga la natura stessa del cinema iraniano degli anni ’90, fortemente influenzato dal neorealismo e dominato dalla figura del bambino errante. La continuità con "Il palloncino bianco" è evidente, anche perché Mina è interpretata dalla sorella dell’attrice protagonista del film precedente, ma è una continuità messa in discussione, rovesciata, speculare; il riflesso di una forma che cerca di superare sé stessa.

Panahi si distacca così dal modello kiarostamiano, cui pure è debitore, e che riecheggia non solo nella struttura narrativa circolare – Mina parte dalla scuola e alla scuola vuole tornare – ma anche nella costruzione dei personaggi: bambini caparbi, adulti bruschi o assenti, interazioni quotidiane che si caricano di senso. Le interruzioni brechtiane, le conversazioni di sfondo, la presenza della radio che scandisce una partita e i piani-sequenza lunghi e avvolgenti, riportano alla mente i capolavori del maestro, ma Panahi li trasforma in qualcosa di proprio 
Anche ne "Lo specchio" il metacinema non è un vezzo formale, ma una necessità morale: significa riconoscere i limiti del mezzo e, insieme, la sua potenza. Quando Mina chiede a un vigile se conosce suo padre o quando parla con l’uomo che sostiene di aver doppiato John Wayne, siamo in uno spazio ambiguo in cui tutto può essere reale e tutto può essere recitato. Eppure, anche in questo spaesamento, emerge una tensione alla verità.

La sequenza finale – con la macchina da presa che spiando si avvicina alla soglia della casa, l’audio che si interrompe deliberatamente, il microfono spento per errore – è una dichiarazione d’intenti: il cinema può solo avvicinarsi, può solo tentare di ascoltare, ma non può possedere ciò che filma. Come nel finale di "Close-Up", Panahi riflette sulla distanza incolmabile tra il filmico e il profilmico, tra l’arte e la vita. "Lo specchio" è allora una riflessione sull’impotenza e sulla responsabilità del cinema: può mostrare la realtà, ma non cambiarla; può raccontare la costrizione, ma non liberare; può solo – e già è moltissimo – restituire il riflesso di una verità che non smette di interrogare chi guarda.

domenica 25 maggio 2025

La torta che non c'era

 "Anche dopo che le è stato vietato di girare film, ha continuato a farli e i suoi film hanno continuato a essere proiettati a Cannes. Incluso "This Is Not a Film" , che a quanto pare è stato contrabbandato dall'Iran a Cannes dentro una torta. Come è andata?"


"La storia della torta non è altro che una bugia. Non ha niente a che fare con me, e non ho idea di chi l'abbia detta né di come sia iniziata. È quasi ridicola, perché abbiamo semplicemente messo il film su una chiavetta USB e io ho dato la chiavetta a qualcuno che era in viaggio, lui l'ha portata a Cannes e questo è tutto. Non ho idea di chi abbia inventato la storia della torta e a quale scopo. Che tipo di torta dovesse essere, se la chiavetta fosse dentro la torta, sopra la torta o altrove, non ne ho idea. Ma io non c'entro niente con quella storia."


https://www.hollywoodreporter.com/movies/movie-news/jafar-panahi-cannes-interview-it-was-just-an-accident-1236221113/?fbclid=IwZXh0bgNhZW0CMTEAAR4d4wZNY7MPmHh5H-wqibJ_bwBk57NxFX-tPfj-6H-Y9svdVLrsgpkjO3Qt7w_aem_fvwihSqfcSDk0z_yt-6SYQ




sabato 24 maggio 2025

Palma d'oro a Jafar Panahi!


 

"Un simple accident" di Jafar Panahi è il secondo film iraniano a vincere la palma d'oro a Cannes, il premio più prestigioso per il cinema d'autore, 28 anni dopo "Il sapore della ciliegia" di Abbas Kiarostami (1997). 

Panahi diventa inoltre il primo regista in assoluto ad aver trionfato nei quattro principali festival europei: oltre a Cannes, Locarno ("Lo specchio", 1997), Venezia ("Il cerchio", 2000) e Berlino ("Taxi Teheran", 2015)

Una giornata storica per il cinema iraniano!

sabato 17 maggio 2025

Kafka a Teheran ( Ali Asgari, Alireza Khatami, 2023)




L’asfissia quotidiana del vivere in un Paese dove il potere ha preso il posto dell’aria. Diretto da Alireza Khatami e Ali Asgari, "Kafka a Teheran" (Ayeh haye zamini) è costruito come una suite di nove episodi – o meglio, “versi”, secondo l’analogia poetica che ispira la struttura dell’opera ("Terrestrial Verses" è il titolo internazionale) – in cui uomini, donne e bambini iraniani si trovano di fronte a un’autorità invisibile ma pervasiva. L’uso della camera fissa, il montaggio proibito, l’assenza di controcampo: tutto converge nel creare un’estetica della costrizione, un teatro filmico dove l’individuo è sempre di fronte a un potere che lo guarda, lo giudica e lo piega. Khatami e Asgari hanno spiegato qual è la fonte di ispirazione per questa forma: il ghazal, la poesia persiana in strofe autonome ma legate tematicamente. Il film diventa così una raccolta di poesie civili e tragiche, dove l’umorismo affiora come una reazione nervosa all’assurdità del sistema.

Il titolo originale del film è tratto da una poesia di Forugh Farrokhzad, la più grande poeta iraniana del Novecento, anche documentarista. Gli ultimi versi della poesia recitano: “E dopo la terra / Non accolse più i morti.” È un’immagine che cristallizza la negazione del futuro, ma anche la condanna di un presente inospitale. “Kafka a Teheran” è un’opera di resistenza che si regge sulla parola, sul corpo in ascolto, sulla performance degli attori che affrontano lunghissimi piani-sequenza con una notevole tensione drammatica. Non improvvisa nulla: tutto era già scritto, ogni dettaglio calibrato. Eppure ogni scena vibra di vita vissuta. Perché questa non è fiction, è iperrealtà: per l’iraniano medio, questi dialoghi sono pane quotidiano. Non per niente uno dei due registi, Ali Asgari, già noto al pubblico italiano dei festival in particolare per i suoi corti (oltre che per aver studiato a Roma Tre)  a causa di questo film ha subito il sequestro del passaporto per alcuni mesi.






Il primo episodio, tra i più emblematici e mordaci, presenta un giovane uomo che desidera chiamare suo figlio appena nato "David". L’impiegato fuori campo – di cui non vediamo il volto, ma solo sentiamo la voce inquisitoria – obietta: è un nome occidentale, non iraniano. Il giovane propone Gholam Hossein, come Saedi, scrittore iconico della sinistra iraniana, oppositore dello scià, simbolo di un’altra idea di cultura. La scelta scatena una spirale grottesca di incomprensione e censura.

Il secondo episodio, unico con una bambina protagonista, è un piccolo capolavoro di sintesi sulla repressione dell’identità femminile. Selena, otto anni, balla ascoltando pop occidentale mentre indossa una felpa di Topolino (figura che ritorna, poi, in un altro degli episodi migliori). Ma deve provarsi il “completo” per la scuola: un processo che la spoglia progressivamente della sua individualità per rivestirla di anonimato e ortodossia. Appena finita la vestizione, si libera da tutto e ricomincia a ballare. È un gesto che vale quanto mille discorsi: l’identità resiste, anche se continuamente negata. 






“Kafka a Teheran” è un atto di cinema che si fa testimonianza, nonostante tutto. Non un film “su” l’Iran, ma “dentro” l’Iran. Non c’è violenza esplicita, né riferimenti diretti alla guida suprema o ai Guardiani della Rivoluzione. Eppure ogni sequenza è un urlo sommesso contro l’autoritarismo, una denuncia che passa attraverso l’ordinario. Un aspirante regista si vede censurare ogni pagina della sua sceneggiatura, una donna subisce molestie a un colloquio di lavoro, le patenti di guida diventano un problema e così via, una situazione kafkiana dopo l’altra, fino a un finale apocalittico. Episodi in apparenza scollegati, ma uniti dal filo di un assurdo che ricorda Beckett o Ionesco, ma che è del tutto iraniano.

Un film sulla burocrazia che diventa teologia, sulla religione che diventa norma, sul potere che si annida nei dettagli, nelle carte da firmare, nei nomi da scegliere. E anche un film sulla dignità di chi non si piega. Girato in soli sette giorni, autofinanziato, senza permessi ufficiali, è un capitolo importante del nuovo cinema iraniano post-”Donna Vita Libertà”. Khatami e Asgari dicono: C’era un tempo per raccontare storie attorno al fuoco. Ora è tempo di raccontarle dentro il fuoco. Ecco cos’è "Kafka a Teheran": un film dentro il fuoco, che brucia e illumina.


giovedì 15 maggio 2025

Una separazione (Asghar Farhadi, 2011)

 



Quando nel 2011 "Una separazione" (Jodāyi-e Nāder az Simin) vinse l’Orso d’Oro alla Berlinale, e nel 2012 il primo premio Oscar nella storia del cinema iraniano, la critica internazionale lo accolse come un capolavoro di coraggio e umanità. Il film di Asghar Farhadi fu letto da molti come un’allegoria della società iraniana, oppressa da rigidità religiose, patriarcato e tensioni generazionali. Ma fermarsi a questa chiave interpretativa significherebbe ridurre un’opera che invece si distingue per la complessità della costruzione narrativa e per la radicale ambiguità morale che la attraversa. "Una separazione" non è solo il racconto di una coppia in crisi: è un laboratorio cinematografico che interroga la verità, la giustizia, il linguaggio stesso e le modalità con cui costruiamo — o evitiamo — di assumerci responsabilità.

Il punto di partenza narrativo è semplice ma potente: Simin vuole lasciare l’Iran per garantire alla figlia Termeh un futuro diverso, ma il marito Nader si oppone perché si sente moralmente vincolato ad accudire il padre malato di Alzheimer. Da questa divergenza scaturisce una catena di eventi che coinvolge anche Razieh, una donna incinta e devota che accetta di lavorare per Nader, e che finirà per essere vittima e nodo centrale di un dramma giudiziario, e suo marito Hojjat, uomo facilmente irascibile e pieno di debiti. Ma "Una separazione" è molto più di una duplice vicenda familiare: è una frattura epistemologica, dove ciò che vediamo e ciò che ci viene detto divergono costantemente. La verità, se esiste, è sempre parziale, ritardata, distorta. I personaggi mentono o tacciono non per cattiveria, ma per necessità. Nessuno è interamente colpevole, nessuno è del tutto innocente. Ogni parola detta ha un peso specifico e ogni omissione produce conseguenze.




Il film costruisce un universo dove la verità è una costruzione discorsiva e le versioni dei fatti si rincorrono senza mai sovrapporsi perfettamente. Il sistema giudiziario rappresentato non è una garanzia di verità ma un luogo in cui i personaggi dosano ogni frase per evitare ripercussioni legali. Farhadi orchestra con minuzia questa tensione drammaturgica: ogni scena aggiunge un dettaglio, ma nessuna scioglie l’enigma. Nader ha davvero spinto Razieh, causandone l’aborto? E Razieh ha detto tutto ciò che sa? Le risposte non sono mai date: lo spettatore è chiamato a decidere, ma qualsiasi posizione sarà sempre provvisoria.

Questa dinamica è sostenuta da una messa in scena rigorosa, che unisce il realismo quotidiano a una tensione costante. La camera a mano, gli ambienti domestici, l’assenza di musica e le interpretazioni misurate di tutto il cast - a partire dai quattro protagonisti Leila Hatami, Peyman Moadi, Sareh Bayat e Shahab Hosseini - danno al film un tono sobrio e al contempo drammatico. L’estetica di Farhadi è deliberatamente sospensiva: più che coinvolgere emotivamente, sollecita il giudizio, costringe a pensare. Emblematica è la scena iniziale: Nader e Simin parlano direttamente alla macchina da presa, rivolgendosi a un giudice invisibile. È lo spettatore, dunque, a essere messo sul banco, in una posizione di responsabilità morale. Non può semplicemente osservare: deve interrogarsi, prendere posizione, sapere che ogni giudizio sarà parziale e forse ingiusto.

In questo processo, Termeh — la figlia undicenne — assume un ruolo fondamentale. Non è solo un personaggio secondario, ma una vera e propria figura osservativa, il cui punto di vista orienta l’intera struttura percettiva del film. Fin dalla prima apparizione la vediamo filtrata da un vetro, sfocata, mentre guarda la madre entrare in camera: un’immagine che anticipa il gioco di trasparenze e riflessi che attraversa tutto il film. L’appartamento familiare diventa una rete di sguardi incrociati, dove ogni superficie vetrata collega e separa i personaggi, creando una costellazione visiva in cui la distanza affettiva e la possibilità del legame convivono.




Termeh incarna anche un altro tipo di conflitto: quello tra due modelli educativi e sociali. Nader, pur affettuoso, la cresce nel culto dell’integrità assoluta; Simin, più pragmatica, la educa alla mediazione. Quando Termeh scopre che anche il padre mente, lo scarto etico che ne deriva è devastante: si incrina l’identificazione, si frantuma la coerenza morale. In quella rottura silenziosa si specchia il destino di una generazione e, simbolicamente, di un intero paese in bilico tra fedeltà e cambiamento.

La tensione tra visibile e invisibile è rafforzata da un uso sapiente delle ellissi. Farhadi taglia fuori dallo schermo i momenti decisivi: non vediamo la caduta di Razieh, né il momento esatto del furto. Lo spettatore, come i personaggi, è lasciato in sospeso, costretto a colmare le lacune con ipotesi, ricostruzioni, dubbi. L’importante non è il fatto in sé, ma la discussione che ne deriva. La verità non è ciò che accade, ma ciò che viene detto — o non detto — su ciò che è accaduto. Le ellissi non nascondono: rivelano, proprio in quanto omettono. Diventano luoghi di conflitto, generatori narrativi.





Il realismo del film si fonda su questa paradossale combinazione di precisione minuziosa e vuoti strategici. Farhadi riesce così a unire l’esattezza del dettaglio con la tensione drammatica; l’eccesso di costruzione non indebolisce il realismo, lo rafforza: la credibilità scaturisce non dalla semplicità, ma dalla complessità.

"Una separazione" è quindi un film che non denuncia, ma interroga; non prende posizione, ma costringe a prenderla. Parla del presente senza essere didascalico, perché pone domande universali: sul senso della giustizia, sulla responsabilità individuale, sull’etica della parola. È un cinema della responsabilità, dove il vero protagonista non è un personaggio, ma lo spettatore. Farhadi non offre risposte: crea condizioni affinché ciascuno si senta obbligato a porsi delle domande. In questo senso, "Una separazione" è uno dei più grandi film del XXI secolo, capace di restituire la complessità dell’umano in una forma tanto limpida quanto inquietante.


martedì 13 maggio 2025

Dietro il parabrezza: come il cinema iraniano trasforma l’auto in spazio politico

Nel cinema iraniano, l’automobile non è solo un mezzo, ma una vera e propria arena narrativa. Nasim Naghavi, studiosa di cultura visiva, lo dimostra in un saggio che analizza come l’interno di un’auto diventi uno spazio intimo e altamente simbolico in film come Dieci di Abbas Kiarostami e Taxi Teheran di Jafar Panahi.

Per molti registi iraniani, girare scene all’interno di un’auto non è solo una scelta estetica o logistica, ma una precisa strategia narrativa. Nell’Iran contemporaneo, dove lo spazio pubblico è fortemente regolamentato, l’abitacolo diventa il teatro di una “mobilità sociale” che riflette tensioni di classe, genere e identità. È dentro un’auto che i personaggi si confessano, litigano, si mettono a nudo, spesso protetti – o intrappolati – da una lamiera sottile.

Interessante è la riflessione di Naghavi sul ruolo delle donne in questi microcosmi mobili. In una società in cui la libertà femminile è sorvegliata, l’auto offre – seppur temporaneamente – un angolo di autonomia: un luogo in cui togliere il velo, parlare liberamente, o semplicemente guidare, può assumere un significato profondamente politico.

Quello che emerge è una visione stratificata e critica dello spazio urbano iraniano: non solo strade, palazzi o piazze, ma anche le auto che lo attraversano diventano luoghi vivi e carichi di senso. 

Articolo completo: Navigating Class, Gender, and Urban Mobile Spaces – Nasim Naghavi (MDPI)

lunedì 12 maggio 2025

La lotta delle donne nei film di Roustayi

La tesi di Narges Azami, intitolata The Marginality of Women in Narratives: Reflections on Iranian Women's Struggles Through Saeed Roustayi's Films (2025), analizza la marginalizzazione delle donne in tre film iraniani post-rivoluzionari diretti da Saeed Roustayi: Life and a Day (2016), Just 6.5 (2019) e Leila e i suoi fratelli (2022). Utilizzando il concetto di intersezionalità, lo studio esamina come diverse forme di oppressione—come genere e classe—si intersechino nella vita delle donne. 

L'analisi identifica quattro temi principali: 

1. Lavoro emotivo: le donne sono spesso caricate di responsabilità emotive non riconosciute. 


2. Cancellazione simbolica: le loro esperienze e contributi vengono frequentemente ignorati o minimizzati. 


3. Visibilità limitata: le donne sono spesso assenti o marginali negli spazi pubblici e istituzionali. 


4. Oppressione intersezionale: le discriminazioni basate su genere, classe e tradizione si combinano, limitando le scelte e la libertà delle donne. 



La tesi sostiene che i film di Roustayi criticano il sistema patriarcale iraniano, mostrando come l'oppressione femminile non derivi sempre da atti violenti, ma spesso da dinamiche silenziose come pressioni emotive, silenzio forzato e esclusione sociale. In particolare, Leila’s Brothers illustra come una donna, nonostante i suoi sforzi per migliorare la situazione familiare, venga ostacolata da norme tradizionali e dinamiche patriarcali. 

In conclusione, la tesi evidenzia come l'oppressione delle donne in Iran sia perpetuata non solo attraverso la violenza, ma anche tramite meccanismi sottili e sistemici che limitano la loro autonomia e visibilità. 





giovedì 24 aprile 2025

Roustayi a Cannes

Annunciato in concorso a Cannes anche il nuovo film di Saeed Roustayi, il regista di "Leila e i suoi fratelli". Titolo: "Woman and Child"









Aggiornameni sul secondo film francese di Farhadi

Aggiornamenti sull'undicesimo film di Asghar Farhadi, il secondo girato in Francia.

Titolo: "Parallel Tales". Cast: Isabelle Huppert, Virginie Efira, Vincent Cassel, Pierre Niney, Adam Bessa, Catherine Deneuve. Sarà prodotto da Alexandre Mallet-Guy insieme ad Asghar Farhadi e David Levine e sarà lanciato al Marchè di Cannes a maggio.
Si tratterà di una coproduzione ufficiale franco-italiana-belga tra la Memento Production di Mallet-Guy in Francia, la Lucky Red di Andrea Occhipinti in Italia e la Panache Productions di André Logie e La Compagnie Cinématographique di Gaëtan David in Belgio. Anche la Anonymous Content negli Stati Uniti coprodurrà il film. Budget: 12 milioni di euro. Inizio riprese in autunno a Parigi. Uscita nelle sale previste per la primavera del 2026

martedì 22 aprile 2025

Farhadi torna in Francia

Mentre non si conosce ancora la data di uscita del primo film made in USA di Asghar Farhadi, è stato rivelato che il prossimo progetto segnerà il ritorno in Francia del regista premio Oscar, dodici anni dopo "Il passato"

martedì 8 aprile 2025

Registi e produttore de Il mio giardino persiano condannati

Behtash Sanaeeha e Maryam Moghaddam sono stati condannati al carcere per il loro film "Il mio giardino persiano", insieme al produttore Gholamreza Mousavi.

La corte ha condannato i registi a 14 mesi di reclusione, pena sospesa,  per "attività di propaganda contro la Repubblica Islamica".

Tutti e tre gli imputati hanno ricevuto anche una pena detentiva sospesa di un anno per "aver partecipato alla produzione di contenuti osceni", insieme alla confisca delle attrezzature.

"Il mio giardino persiano", nonostante avesse un permesso di produzione, è stato girato in Iran con gli attori Lili Farhadpour ed Esmail Mehrabi senza rispettare l'obbligo dell'hijab.



venerdì 21 marzo 2025

IL MUSEO NAZIONALE DEL CINEMA RENDE OMAGGIO A MOHAMMAD RASOULOF

 

Il regista iraniano, Premio della Giuria a Cannes e Orso d’Oro a Berlino,

sarà al Cinema Massimo per presentare una selezione dei suoi film

 

Cinema Massimo, 3-9 aprile 2025

 

Nato a Shiraz nel 1972, Mohammad Rasoulof è un regista e sceneggiatore iraniano conosciuto per la forza e il coraggio con cui ha saputo affrontare temi come la repressione, la libertà individuale e le contraddizioni sociali e politiche del suo Paese. Il Museo Nazionale del Cinema gli rende omaggio con una ampia selezione dei suoi film di finzione, presentati al Cinema Massimo dal 3 al 9 aprile 2025.

 

Mohammad Rasoulof sarà a Torino dal 3 al 6 aprile per introdurre le proiezioni dei suoi film al Cinema Massimo; il 4 aprile alle ore 20:30 incontrerà il pubblico in una conversazione condotta da Carlo Chatrian, direttore del Museo Nazionale del Cinema. A seguire, alle 21:30, presenterà il suo film There is No Evil.

 

Dopo aver studiato cinema all'Università di Teheran, esordisce alla regia nel 2002 col film Gagooman, seguito da L’isola di ferro e da una serie di opere che raggiungono fin da subito i grandi festival internazionali, alternando film di finzione e documentari. Nel 2009 arriva il Premio FIPRESCI al Torino Film Festival con The White Meadows, nel 2017 il Premio della giuria al Festival di Cannes con A Man of Integrity e nel 2020 l’Orso d’oro alla Berlinale con There is No EvilIl seme del fico sacro, suo ultimo lavoro, è stato premiato a Cannes ed è entrato nella cinquina dei nominati per il miglior film internazionale agli Oscar 2025.

 

Rasoulof realizza film che esplorano le tensioni politiche e sociali dell'Iran contemporaneo attraverso uno sguardo intimo e riflessivo. Nei suoi racconti di uomini e donne, che si confrontano con un sistema autoritario, sfidando le restrizioni imposte dal potere e ponendo domande cruciali sulla giustizia, la verità e la resistenza, il cinema diventa uno strumento di denuncia sociale e politica, ma anche un’occasione di ricerca e conoscenza.

 

Nonostante i successi internazionali, la sua carriera è stata segnata da un rapporto difficile con le autorità iraniane: più volte arrestato e messo sotto sorveglianza, Rasoulof ha continuato a pensare e realizzare film che interrogano il concetto di potere, tanto nell’ambito pubblico quanto in quello privato. Nel 2024 è riuscito a lasciare il suo paese per ricongiungersi con la sua famiglia in Germania. Insieme a Jafar Panahi, Rasoulof è una delle figure di spicco del cinema iraniano contemporaneo.

 

 

PROGRAMMA DELLE PROIEZIONI

 

The Twilight (Gagooman)

(Iran 2002, 83’, DCP col., v.o. sott. it.)

Nel 1998, in una delle prigioni del Nord-Est dell'Iran, si verificò uno strano evento che ha ispirato il film. Alireza, un detenuto problematico incarcerato per furto, cerca di fuggire. Il direttore del carcere spinge la madre di Alireza a trovare una sposa adatta, una giovane donna che sta scontando una pena per reati di droga.

Gio 3, h. 18.30/Dom 6, h. 16.00

La proiezione di giovedì 3 sarà introdotta da Mohammad Rasoulof

 

Il seme del fico sacro (The Seed of the Sacred Fig)

(Iran 2024, 167’, DCP, col., v.o. sott. it.)

Mentre divampa a Teheran il movimento di protesta per la morte di una giovane donna, Iman festeggia la sua promozione a giudice istruttore del Tribunale della Guardia Rivoluzionaria. Le sue figlie, Rezvan e Sana, sono scioccate dagli eventi e la moglie Najmeh cerca di fare del suo meglio per tenere insieme la famiglia. Quando Iman scopre che la sua pistola d’ordinanza è sparita, sospetta delle tre donne. Spaventato dal rischio di rovinare la sua reputazione e di perdere il lavoro, diventa sempre più paranoico e inizia, un’indagine in cui vengono oltrepassati tutti confini.

Gio 3, h. 20.30/Mar 8, h. 15.15

La proiezione di giovedì 3 sarà introdotta da Mohammad Rasoulof

 

L'isola di ferro (Jazire-ye āhani)

(Iran 2005, 92’, DCP, col., v.o. sott. it.)

Siamo nel golfo Persico. Una piccola comunità di persone senza mezzi di sussistenza decide di stabilirsi a bordo di una vecchia petroliera abbandonata. Su questa anomala isola le attività quotidiane del gruppo cominciano lentamente ad essere avviate come in una città qualunque fino a quando il capitano e leader della nave inizia a vendere, pezzo dopo pezzo, tutte le parti in ferro dell'imbarcazione mettendo a rischio la stabilità della nave stessa.

Ven 4, h. 16.00/Mer 9, h. 16.00

La proiezione di venerdì 4 sarà introdotta da Mohammad Rasoulof

 

The White Meadows (Keshtzar haye sepid)

(Iran 2009, 90’, DCP col., v.o. sott. it.)

L'atipico funzionario Rahmat naviga di isola in isola, in uno scenario caratterizzato da distese di sale, per raccogliere e custodire le lacrime delle persone. Che cosa ne faccia, è un mistero. Le trasforma in perle? Al primo approdo, sulla barca a remi sale di nascosto un ragazzo, in fuga alla ricerca di suo padre.

Ven 4, h. 18.00/Mar 8, h. 18.30

La proiezione di venerdì 4 sarà introdotta da Mohammad Rasoulof

 

Il male non esiste (Sheytan vojud nadarad)

(Iran 2020, 151’, DCP, col., v.o. sott. it.)

Heshmat è un buon padre e un buon marito attento ai bisogni della famiglia. Ogni mattino si alza presto per andare al lavoro. Quale lavoro? Pouya non se la sente di essere colui che legalmente dovrà sopprimere una vita umana. Cosa dovrà fare per evitare questo compito? Javad torna al paese per chiedere in sposa l’amata, ma dovrà fare i conti con le sue azioni. Un'anziana coppia riceve la visita della nipote cresciuta in Germania, la quale è ignara che lo zio ha un doloroso segreto da confessarle. Film in quattro episodi sul tema della pena di morte in Iran. Orso d'oro a Berlino.

Ven 4, h. 21.30/Lun 7, h. 18.00

La proiezione di venerdì 4 sarà introdotta da Mohammad Rasoulof

 

Manuscripts Don’t Burn (Dast-Neveshtehaa Nemisoozand)

(Iran 2013, 125’, DCP, col., v.o. sott. it.)

Basata su fatti realmente accaduti, la storia ruota attorno a un manoscritto che descrive un fallito piano da parte del regime iraniano di uccidere nel 1995 ventuno scrittori e giornalisti. Quasi vent'anni dopo, l'esistenza di questo documento rimane una minaccia e il capo della commissione di censura ha assoldato due killer, Morteza e Khosrow, per raccogliere le copie rimanenti e mettere a tacere i partecipanti.

Sab 5, h. 16.00/Dom 6, h. 20.30

La proiezione di sabato 5 sarà introdotta da Mohammad Rasoulof

 

A Man of Integrity (Lerd)

(Iran 2017, 112’, DCP, col., v.o. sott. it.)

Reza e Hadis vivono con il figlio in una casa nella campagna nel nord dell’Iran. Hadis è direttrice di un liceo femminile e Reza ha un allevamento di pesci rossi. Si trovano ad affrontare una società privata, con forti legami con il governo e le autorità locali, che vuole rilevare la loro casa e il loro terreno, come già accaduto per molti agricoltori e proprietari della zona. La corruzione dilaga e la scelta di Reza dovrà tenere conto delle sue regole morali.

Sab 5, h. 18.30/Lun 7, h. 15.45

La proiezione di sabato 5 sarà introdotta da Mohammad Rasoulof

 

Goodbye (Be omid-e didar)

(Iran 2011, 100’, col., v.o. sott. it.)

Una giovane avvocata, alla quale è stato tolto il diritto di esercitare la professione, vive lontana dal marito, un giornalista inviso al potere di Teheran che ora lavora nel sud del paese in un’azienda per lo sviluppo. Decisa ad abbandonare l’Iran insieme al marito, sta portando avanti una pratica complessa che dovrebbe consentirle di ottenere un visto per l’estero: nel frattempo scopre di essere incinta, e deve decidere cosa fare con il bambino. Premio alla regista a Cannes.

Sab 5, h. 20.45/Dom 6, h. 18.00 –

La proiezione di sabato 5 sarà introdotta da Mohammad Rasoulof

 

 

Per info e biglietti: www.cinemamassimotorino.it

 


mercoledì 12 marzo 2025

Voci da Cannes

La pagina Phoenix Journal of Toronto riporta voci secondo cui a Cannes 78, che si terrà nel mese di maggio, potrebbero esserci tre film iraniani molto attesi: il nuovo di Shahram Mokri, di cui ci aveva parlato Babak Karimi in video intervista, il nuovo Jafar Panahi, e "Donna e bambino" di Saeed Roustaee, il regista di "Leila e i suoi fratelli"




sabato 8 marzo 2025

Video intervista a Babak Karimi su Nosrat Karimi

Video intervista a Babak Karimi, che ci ha parlato del documentario dedicato a suo padre Nosrat Karimi, importante regista e attore del cinema e della tv iraniana prerivoluzionari




Il documentario è visibile qui.








lunedì 3 marzo 2025

Terzo Oscar Per l'Iran

Il premio Oscar per il miglior cortometraggio di animazione è stato vinto dall'iraniano "In the Shadow of the Cypress", di Shirin Sohani e Hossein Molayemi.

Si tratta di un film di 20 minuti senza dialoghi, coprodotto dal mitico Kanun, e si può vedere a questo link.

https://vimeo.com/ondemand/intheshadowofthecypress/1050779616?fbclid=PAY2xjawIyNA5leHRuA2FlbQIxMQABplCR8555WhUDmb7_CrvNG3gieMsBnKD_8ii7oeo3WVAmz3KztGBWB41ghw_aem_vZjp7L2EU9_4LpGDwHobyg

I registi hanno potuto ritirare il premio grazie a un visto ottenuto "per miracolo" all'ultimo minuto e lo hanno dedicato a "chi lotta per le proprie battaglie interne e esterne e ai nostri concittadini iraniani che soffrono".

In questo sito dell'opposizione iraniana all'estero ci sono un po' di informazioni aggiuntive 

https://www.rferl.org/a/iran-oscars-animated-short-sohani-molayemi/33334236.html

domenica 23 febbraio 2025

Ali Abbasi accusato di molestie

Il regista di "Holy Spider" Ali Abbasi è stato accusato di un gesto molesto nei confronti di un attore famoso di cui non è stata rivelata l'identità. L'episodio è avvenuto a un afterparty dei Golden Globes. L'agenzia CAA ha deciso di interrompere la collaborazione con il regista, che si è scusato su X dicendo che il gesto non aveva natura sessuale 

giovedì 20 febbraio 2025

Una petizione per Sanaeeha e Moqaddam

Il mondo del cinema internazionale si mobilita per i registi de "Il mio giardino persiano" attraverso una petizione raggiungibile al seguente link:

https://www.change.org/p/iran-clear-maryam-behtash-of-all-charges-now?fbclid=PAZXh0bgNhZW0CMTEAAabf1xMPNDOix_ElRPTw3wC_brIk1DLOCxPGtGjFZ7jDywc6VgBhXTOf6Qc_aem__Zxg1DEzcOeIqkqVdSmh0A


Tra i primi firmatari anche  Mohammad Rasoulof e Jafar Panahi.




[Français ci-dessous]

We, the undersigned,

call upon the Islamic Republic of Iran's authorities to immediately and unconditionally clear all the charges levelled at filmmakers Maryam Moghadam & Behtash Sanaeeha.

After months of interrogation, and after continuous travel bans for the past two years, they are now due to appear in Iran's Revolutionary Court on March 1st, 2025 because of their Berlinale-awarded film My Favourite Cake, which has been labelled as "obscene", as "offending public morality", as "propaganda against the regime", and as “unlawfully” screened without the authorities' permits for distribution. 

In the light of these persecutions, we stand uniformly by Maryam & Behtash and their freedom and right to create and to express themselves, just like any filmmaker and artist should be able to.




Nous demandons

aux autorités de la République islamique d'Iran de lever, immédiatement et sans condition, toutes les accusations portées contre les cinéastes Maryam Moghadam & Behtash Sanaeeha.

Après avoir subi de multiples interrogatoires, et alors qu’ils sont interdits de sortie du territoire iranien depuis près de deux ans, ils doivent à présent comparaître devant le tribunal révolutionnaire iranien le 1er mars 2025. Qualifié d'« obscène » par le réquisitoire, leur film Mon gâteau préféré, primé à la Berlinale en 2024, serait une « offense à la moralité publique » et une oeuvre de « propagande contre le régime », et a de plus été projeté « illégalement », sans autorisation officielle de distribution.

Face à ces persécutions, nous soutenons pleinement Maryam et Behtash dans leur droit de créer et de s’exprimer, comme tout cinéaste et artiste devrait pouvoir le faire.




Signed by
 (list will be updated intermittently; signatures via this website appear directly in the "ticker tape" at the top):

  • The International Coalition for Filmmakers at Risk (ICFR)
  • Orwa Nyrabia, International Documentary Festival Amsterdam (IDFA)
  • Vanja Kaludjercic, International Film Festival Rotterdam (IFFR)
  • Mike Downey OBE, European Film Academy (EFA)
  • Matthijs Wouter Knol, European Film Academy (EFA)
  • Alberto Barbera, Venice Film Festival
  • Nashen Moodley, Sydney Film Festival
  • Margje de Koning, Movies That Matter
  • Sarah Spring, Documentary Association of Canada
  • Céline Sciamma, writer-director
  • Jean-Pierre Dardenne, writer/director/producer
  • Mohammad Rasoulof, writer-director
  • Agnieszka Holland, writer-director
  • Hiam Abbass, actor/director
  • Jafar Panahi, writer-director
  • Juliette Binoche, actor
  • Isabel Coixet, writer-director
  • Pedro Almodóvar, writer-director
  • Agustín Almodóvar, producer
  • Marie-Ange Luciani, film producer
  • Nina Menkes, director
  • Robin Campillo, writer-director
  • Mina Kavani, actor
  • Diana El Jeiroudi, director/producer
  • Emilie Dequenne, actor
  • Arthur Harari, writer/director/actor
  • Jeanne Balibar, actor
  • Rebecca Zlotowski, writer-director
  • Juho Kuosmanen, writer-director
  • Mariane Pearl, (screen)writer
  • Dominik Moll, writer-director
  • Rebecca Thomas, writer-director
  • Marina Foïs, actor
  • Robert Guédiguian, writer-director
  • Jonás Trueba, writer-director
  • Gilles Marchand, writer-director
  • Tricia Tuttle, Berlinale Film Festival
  • Kirsten Niehuus, Medienboard Berlin-Brandenburg
  • Dominic Willsdon, International Documentary Association (IDA)
  • Sophie Mirouze, Festival La Rochelle Cinéma
  • Abby Sun, International Documentary Association (IDA)
  • Pauline Girardot, MIFC/Festival Lumière Lyon
  • Toru Kubota, Docu Athan
  • Marjo Pipinen, Finnish Film Foundation
  • Dominique Choisy, writer-director
  • Joelle Touma, screenwriter
  • Marco Cherqui, film producer
  • Gilles Gaston-Dreyfus, actor
  • Patricia Mazuy, writer-director
  • Emilia Mello, producer/director
  • Jonathan Wakeman, screenwriter
  • Vanessa Lhoste, actor
  • Valérie Donzelli, writer/director/actor
  • Philippe Le Guay, writer-director
  • Christine Plenus, set photographer
  • Jean-Pierre Duret, sound designer & recordist
  • Collectif Cinéma
  • Sara Ishaq, writer-director
  • Jordi Wijnalda, writer-director
  • Athanasia Biniadaki
  • Etienne Hardy
  • Matthew Rankin, writer-director
  • Lev Nussimbaum
  • Sabrina Meier, actor
  • Diane Carson, film journalist
  • Véronique Closset
  • Javier Lafuente, producer
  • Brenda Mattick, editor
  • Emma Mattei, programmer
  • José Marquez
  • Ranya Mokdad
  • Yukiko Inoue
  • Mary Ann De Vlieg, IETM
  • Sato Akari
  • Marc Lowyck
  • Mary Mehrian
  • Bea de Visser, filmmaker/visual artist
  • Gwenda Jansen
  • Jumei Ma
  • Christopher Zitterbart, producer
  • Joachim Trier, writer-director
  • Charles Soebarta, BerlinDocuFest
  • Valérie Mougin, Cinémas UGC
  • Alex Szalat, Doc's Up Fund
  • Peter Krupenin, producer
  • Miro Bilbrough, writer/director
  • Alba Rohrwacher, actor
  • Bénédicte Thomas, distributor
  • Janine Teerling, writer-director
  • Clément Chautant, sales agent
  • Yanis Laschet
  • Marceau Laborie
  • Aïda Vosoughi, artist/filmmaker
  • Tess Franzen, sales exec
  • Delphine Lallet, screenwriter
  • Ania Bijvoet
  • Ayça Çiftçi, director
  • Philippe Lallet
  • Louise Richard
  • Mercedes Martinez, programmer
  • Itsaso Arana Baztan, actor/screenwriter
  • Eddie Chebbi, producer
  • Christian Allaume, programmer
  • Solenn Rousseau, programmer/educator
  • Stéphanie Berthelor
  • Paul de Beco, acquisitions
  • Sam Menopa
  • Myra Evans, visual artist
  • Eva Gerold
  • Marie-Line Laboiry
  • Gerrit Zitterbart
  • Marie-France Aubert, Festival International du Film d'Amiens
  • Laurence Reymond, Quinzaine des Cinéastes, Cannes
  • María Campaña Ramia, Ambulante Documentary Film Festival
  • Laure Caillol, First Cut Lab
  • Ivanna Kozak, Ukrainian Film Festival Berlin
  • Karyοfyllia Karabeti, actor
  • Aisha Gazdar, filmmaker/journalist
  • Marie Regan, filmmaker
  • Pauline Delfino
  • Elahe Esmaili
  • Sarah Dorman Sveen, producer
  • Gérard Krawczyk, director
  • George Katsios
  • Alexandre Tylski, director/researcher
  • Faris Sayegh
  • Cécile Giraud, exhibitor
  • Kellen Quinn, producer
  • Michel Vitteaut
  • Evangelia Petrou
  • Giorgia Caffagni
  • Jeanne Le Gall
  • Isabelle Benkemoun, producer
  • Zoé Le Gall
  • Antonia Stelitano
  • Dimitra Rigatou
  • David Stangherlin
  • Alessandra Natella
  • Evangelia Xenogiannopoulou, researcher
  • Anastasia Theodorou
  • Sophie Beutelmann
  • Arash Mashverat, director
  • Maaike Terheggen
  • Floor Onrust, producer
  • Elodie Saget, curator
  • Cecilia Spano
  • Niusha Yousefian
  • Pierre Filmon, director
  • Cathérine Rudel
  • Irene Altavilla
  • Malu Janssen, writer-director
  • Radu Mihaileanu, writer-director
  • Sepideh Farsi, writer-director
  • Nicolas Bary, writer-director
  • Chantal Dumoulin
  • Volker Schlöndorff, writer/director/producer
  • Tabitha Jackson, film exec
  • Jerome Enrico, writer-director
  • Dibakar Das Roy, director/producer/actor
  • Jean Achache, writer-director
  • Kirsten Johnson, director/cinematographer
  • Françoise Cathérin
  • Avi Mograbi, director
  • Rémi Roy, producer
  • Miguel Courtois, director/producer
  • Morgan Gonzales
  • Diane Attanasio
  • Jetske de Jong
  • Laura Poitras, director
  • Étienne Astor
  • Alejandra Gatica
  • Catherine Coetsier
  • Irène Oger, distributor/programmer
  • Anna Durand
  • Frédéric Sojcher, director/educator
  • Jean-Pierre Sauné, writer-director
  • Gerard Tierney, documentary producer
  • Vasilis Oikonomou
  • Maguy Bussière
  • Francesco Montagner, writer-director
  • Maarten Treurniet, director
  • Noortje Post
  • Marianne Dumoulin, producer
  • Jacques Oger, director/editor
  • Anne Le Ny, actor
  • Guandalina Martin
  • Astrid Ast
  • Emmanuelle Béart, actor
  • Marion Guillon, Films Boutique
  • Félix Chrétien
  • Katerina Gabunija, festival coordinator
  • Elena Lapschin
  • Héloïse Richard
  • Sandrine Bonnaire, actor
  • Dominique Brem
  • Maria Krebs
  • Emmanuel Mouret, actor/director/writer
  • Catherine Parrott
  • Petra Van Horssen, distributor
  • Rozenn Fequant, Biarritz Film Festival
  • Maud Berbille, producer
  • Suzanne Bernatchez
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