domenica 10 agosto 2025

Il più discusso del momento: The Old Bachelor (Pir Pesar)


Il film iraniano più discusso del momento è The Old Bachelor (Pir Pesar), diretto da Oktay Baraheni. Con una durata insolita di 3 ore e 12 minuti, pare essere il film iraniano più lungo di sempre. Nel cast troviamo Leila Hatami – celebre da noi per Una separazione – anche se non in un ruolo da protagonista.

La storia si svolge in una famiglia carica di tensione: due fratelli adulti vivono sotto lo stesso tetto di un padre autoritario e violento. Quando quest’ultimo decide di affittare l’appartamento al piano di sopra, con l’intenzione di risposarsi, la giovane inquilina finisce per attrarre il figlio maggiore e gli equilibri familiari cominciano a sgretolarsi.

Il film ha già conquistato alcuni riconoscimenti internazionali, tra cui il VPRO Big Screen Award al Festival di Rotterdam. In patria, l’impatto è concreto: The Old Bachelor ha stabilito un record di incassi per un film non comico.

Nel nostro sondaggio in corso c’è chi lo ha già inserito tra i migliori film iraniani del secolo.

Il dibattito in patria è più acceso che mai, ora che esiste la concreta possibilità che venga candidato agli Oscar. Dovrà vedersela soprattutto con il nuovo film di Saeed Roustayi, Woman and Child.

Speriamo di poterlo vedere presto anche noi.

venerdì 8 agosto 2025

Aerei e bombe


- Calmatevi bambini! Qui arrivano gli aerei, guardateli!

- Cos'è un aereo?


- Un aereo è qualcosa che vola. Come un uccello. L'uomo ha inventato qualcosa che vola come gli uccelli. Un aereo ha due scopi: primo, trasporta merci tra le città.


 Ma c'è anche un lato negativo. E che cos'è? È il bombardamento.

- Che cos'è il bombardamento?

- È quello che distrugge le nostre case. Ascoltate attentamente. Quello è il suono delle bombe. In questo momento la casa di qualcuno sta venendo distrutta. La nostra casa e la nostra scuola sono state distrutte dalle bombe.


- Lei è mai stato su un aereo?

- Io no, ma mio fratello ha un amico il cui nipote è stato su un aereo 


Dal film "Marooned in Iraq (Bahman Ghobadi, 2002)

giovedì 7 agosto 2025

Akhlaghirad su Rasoulof

"Hai girato due film con Rasoulof. Com’è il suo metodo di lavoro con gli attori?"

"Prima di tutto, cura molto il casting. Con il giusto attore, metà del lavoro è fatto. Nei suoi film si concentra più sulla struttura e sul contenuto che sui dettagli psicologici individuali. Forse un’eccezione è il personaggio interpretato da Soheila Golestani in The Seed of the Sacred Fig, dove si vedono più tratti distintivi. Una volta che capisce che hai interiorizzato il personaggio, dà pochissime indicazioni, solo piccoli aggiustamenti. Nel secondo film mi ha dato grande libertà, mentre nel primo ero molto nervoso all’inizio. È molto ricettivo con gli attori professionisti e ogni sua osservazione è precisa. Un piccolo errore può compromettere la comprensione del personaggio. Entrambi i lavori con lui sono stati sereni: il suo controllo del mezzo è totale, sia nella regia che nella sceneggiatura."

Dall'intervista di Ali Moosavi a Reza Akhlaghirad. Su Filmint

https://filmint.nu/interview-with-reza-akhlaghirad-ali-moosavi/

giovedì 24 luglio 2025

Barandeh (Il vincitore). Il film incompiuto di Amir Naderi

Prima di realizzare "Il corridore" (Davandeh), Amir Naderi firmò un contratto con il Kanun (Centro per lo sviluppo intellettuale dei bambini e degli adolescenti) per girare un film intitolato "Barandeh" (Il vincitore), iniziandone la produzione prima della rivoluzione. Tuttavia, la lavorazione si interruppe proprio a causa della rivoluzione del 1979. Dopo l’evento, il Kanun fece pressioni su Naderi affinché completasse Barandeh. Naderi montò gli ultimi diciannove minuti del film, ma senza fare il missaggio sonoro, e poi interruppe il progetto per convincere il Kanun a lasciargli girare Il corridore.

Seppur muto, il film anticipa chiaramente temi e stile del film successivo.
 
Sceneggiatore e regista: Amir Naderi
Con la partecipazione di: I bambini di Falakeh Dovvom, Bandar Abbas
Direttori della fotografia: Firooz Malekzadeh, Ali Bagheri
Suono: Changiz Sayyad, Hossein Moradi
Montaggio: Mousa Afshar, Mohammad Haghighi
Anno di produzione: 1978 (1357 del calendario iraniano)

 


 

mercoledì 23 luglio 2025

Shayda (Noora Niasari, 2023)

 

 
Il film d’esordio della regista Noora Niasari è una delle opere più significative del recente cinema iraniano della diaspora. Ambientato in Australia nel 1995, racconta la storia tormentata di una donna iraniana che cerca rifugio dalla violenza domestica e dal controllo patriarcale, in un contesto culturale che le è estraneo e a volte ostile.

Il film affonda le radici nella biografia della regista stessa. Niasari, nata a Teheran ma cresciuta in Australia, ha rivelato che la storia di "Shayda" è ispirata all’esperienza reale di sua madre, che negli anni ’90 si rifugiò con lei, ancora bambina, in un centro per donne maltrattate. L'inserto documentario d'epoca montato in chiusura del film ce la mostra, filmata dalla piccola Noora.

Il film nasce dunque da una memoria privata, rielaborata cinematograficamente con sensibilità. Non è solo denuncia, è un atto di amore filiale. La dedica alla madre e alle "coraggiose donne dell’Iran" racchiude il senso dell’opera, legandola simbolicamente anche alle proteste scoppiate in Iran dopo l’uccisione di Mahsa Jina Amini nel 2022 e alla lotta per l’autodeterminazione femminile.

La protagonista, Shayda, è una giovane madre iraniana rifugiatasi con la figlia Mona, di sei anni, in un centro per donne vittime di abusi a Melbourne. Il marito Hossein è un uomo violento, possessivo e manipolatore, e vorrebbe sottrare Mona alla custodia di Shayda per riportarla in Iran. Tuttavia, in quanto padre legale, ottiene temporaneamente il diritto di visita. Ciò crea una situazione di costante tensione e insicurezza, mentre Shayda cerca disperatamente di ottenere l’affidamento esclusivo e ricostruire una nuova vita. Sullo sfondo del conflitto familiare e giudiziario si intreccia la celebrazione del Nowruz, il capodanno persiano, che diventa un’occasione per trasmettere a Mona — e, indirettamente, anche alle altre donne del rifugio australiano — i riti e i simboli dell’identità iraniana. La sceneggiatura, con grande intelligenza, evita ogni pedanteria attraverso un doppio espediente narrativo: da un lato, Shayda introduce la cultura persiana alla figlia; dall’altro, alle donne australiane. Così, elementi come il salto dei fuochi, l'Haft-Sin (il tavolo imbandito con sette oggetti simbolici che iniziano per s... ma non per sh), rituali legati al Nowruz, ma anche le canzoni pre-rivoluzionarie di Googoosh e Hayedeh, la cucina tradizionale e il ballo come espressione liberatoria, la poesia classica persiana, emergono in modo naturale, emotivo, non didascalico. Tutto fa parte di un bagaglio culturale che Shayda si porta dentro come forma di identità e come appiglio.
 
 

 

Uno degli aspetti più interessanti del film è proprio il modo in cui la cultura iraniana viene “portata” in esilio: non come folclore o esotismo per spettatori occidentali, ma come parte viva della quotidianità. Le melodie evocano un Iran perduto, un’epoca più libera, e si intrecciano alle emozioni del presente, come frammenti di un passato che ancora brucia. Fondamentale anche l’uso del bilinguismo: i dialoghi si muovono tra persiano e inglese, spesso nella stessa scena. Questa alternanza non è solo realistica, ma riflette anche la condizione ibrida dell’identità diasporica. Shayda parla persiano con la figlia, ma passa all’inglese con le assistenti sociali o le altre ospiti del rifugio. Il bilinguismo è particolarmente evidente nel personaggio di Farhad, il nuovo amico di Shayda appena arrivato dal Canada, che ormai conosce meglio l’inglese che il persiano: li alterna con una certa goffaggine, e questa incertezza linguistica diventa anche un segno della distanza emotiva e culturale che separa la diaspora dalla madrepatria. La vicinanza tra Farhad e Shayda innesca la gelosia feroce di Hossein, che percepisce la presenza dell’uomo come una minaccia alla propria autorità e intensifica il controllo e l’intimidazione.

Una delle parti più dolorose del film è costituita dalle telefonate tra Shayda e sua madre, rimasta in Iran. La donna è affettuosa, ma al tempo stesso incapace di comprendere davvero la scelta e la sofferenza della figlia. Le vuole bene, ma la colpevolizza. Con tono conciliante, spera ancora che Shayda possa fare “la cosa giusta” e tornare con Hossein, per la buona reputazione della famiglia. In quelle conversazioni emerge tutta la distanza, non solo geografica ma anche culturale, tra generazioni e mondi: una madre cresciuta in una società patriarcale interiorizzata, che non riesce a concepire la ribellione silenziosa e radicale della figlia come atto legittimo e necessario.

La protagonista è interpretata da Zar Amir Ebrahimi, vincitrice del premio come miglior attrice a Cannes nel 2022 per "Holy Spider", oggi vera e propria icona del cinema iraniano in esilio. La sua Shayda è vibrante, trattenuta, credibile: la maternità non è solo il motore della sua azione, ma il luogo in cui resiste, sogna, si protegge. Meno riuscito, invece, il personaggio del marito Hossein: stereotipato, privo di quelle sfumature psicologiche che potrebbero renderlo più umano e ambiguo. Si pensi ad esempio alla complessità morale dei personaggi maschili di Asghar Farhadi, dove il confine tra colpevole e vittima è sempre sottile. In Shayda, invece, la figura del marito resta più netta e prevedibile, sacrificando una parte di ambivalenza narrativa.

Pur con alcuni limiti nella costruzione del personaggio antagonista, Shayda resta un film intenso, importante e profondamente umano, che trasforma un’esperienza familiare dolorosa in un racconto cinematografico universale parlando di libertà, identità, maternità e memoria.

Co-prodotto da Cate Blanchett e premiato al Sundance. 

Da vedere in lingua originale.

martedì 24 giugno 2025

Il cinema iraniano alla guerra: i film della "Difesa Sacra"

Nel panorama internazionale, il cinema iraniano è noto principalmente per i suoi film d'autore riflessivi e antispettacolari firmati Kiarostami, Panahi, o Farhadi. Tuttavia, al di là dei circuiti festivalieri mondiali, esiste un vasto repertorio cinematografico interno, profondamente radicato nel contesto politico e religioso post-rivoluzionario: il cinema della "Difesa Sacra", un genere egemonico in patria, lautamente finanziato dallo stato e premiato nei festival locali, ma poco studiato all’estero. Ne ha scritto di recente Kaveh Abbasian, regista e docente di cinema e media presso l’Università del Kent (Regno Unito) nel suo saggio “The War Must Go On: The Three Phases of Iranian Sacred Defence Cinema” incluso in "The I.B. Tauris Handbook of Iranian Cinema" (2024), a cura di Michelle Langford, Zahra Khosroshahi e Maryam Ghorbankarimi. Abbasian offre un'articolata genealogia di questo filone, suddividendolo in tre fasi principali: idealismo apocalittico, malinconia post-apocalittica e nazionalismo roboante.

Con l’ascesa della Repubblica Islamica nel 1979, il cinema iraniano è bollato da Khomeini come “centro di corruzione” importata dall’Occidente. Nonostante ciò, il cinema non viene bandito, ma riorientato in chiave educativa e religiosa. La guerra "imposta" dall'Iraq (1980–1988) fornisce il terreno ideale per promuovere una nuova estetica islamica. Inizialmente, film popolari di registi dell’era Pahlavi come "The Imperilled" (Iraj Ghaderi, 1982) e "The Eagles" (Samuel Khachikian, 1985) sono censurati o considerati non rispettosi dei valori islamici. La vera genesi del cinema della Difesa Sacra si sviluppa così in ambito televisivo, con documentari prodotti dal regista militante Morteza Avini, figura chiave della prima fase del genere.


The Eagles (1985)


Avini incarna la visione teologico-rivoluzionaria della prima fase. Per lui, la guerra non è solo un conflitto militare, ma l’inizio di una rivoluzione escatologica che porterà al ritorno del Mahdi, il salvatore nascosto dell’Islam sciita. Nei suoi film, i martiri non sono semplici caduti ma annunciatori della fine dei tempi. Questo cinema è intriso di fede, sacrificio e misticismo, e Avini ne è sia teorico che artefice.

Accanto ad Avini, emergono altri registi chiave. Rasoul Mollagholipour è il cineasta di finzione più prolifico di questa prima faseI suoi primi quattro film, tutti realizzati durante la guerra – "Neynava" (1983) , "A Boat to the Shore" (1986) , "Flight at Night" (1987) e "Horizon" (1989) – incarnano le tendenze ideologiche del periodo. Mollagholipour si concentra sui volontari e i loro sacrifici , rendendo il martirio dei personaggi centrali per le trameI suoi film abbondano di simboli sciiti, dall'uso di bandiere con scritte religiose a rituali eseguiti prima delle operazioni militari. L'autore dedica un considerevole spazio agli iracheni, raffigurandoli come figure assolutamente malvagie, in netto contrasto con gli eroici personaggi iraniani.

Il 1988 vede Khomeini "bere il calice del veleno", ossia accettare il cessate il fuoco. Per gli islamisti idealisti come Avini, la fine della guerra non è motivo di celebrazione, ma di dolore, sconfitta, risentimento. Anche il cinema si trasforma. I registi iniziano a riflettere sulle cicatrici della guerra più che sul suo eroismo. Ebrahim Hatamikia, che aveva appreso gran parte del suo mestiere durante la guerra e la collaborazione con Avini, realizza film come "The Scout" (1989) e "The Immigrant" (1990) che, sebbene metaforicamente, ritraggono personaggi che si sentono abbandonati in un ambiente inospitale. "From Karkheh to Rhein" (1993) si concentra sulla difficile situazione dei veterani di guerra iraniani dopo il conflitto, in particolare sul protagonista Saeed, un cieco a causa di attacchi chimici iracheni, che non riesce ad accettare il mondo post-bellico. "The Scent of Joseph's Shirt" (1995) presenta un personaggio che rifiuta di accettare la morte del figlio in guerra, e rappresenta un attaccamento malinconico agli ideali della guerra

Avini, prima della sua morte nel 1993 a causa di una mina antiuomo, è particolarmente critico nei confronti degli intellettuali laici che considera occidentalizzati e completamente distaccati dagli ideali della rivoluzione e della Sacra Difesa. Le sue critiche si estendono a registi come Abbas Kiarostami, che accusa di fare film per i festival occidentali. Hatamikia condivide questo approccio ostile, che raggiunge il culmine nel suo film "The Glass Agency" (1998). Il film presenta un personaggio che simboleggia Kiarostami e il suo tipo di intellettuale, dipinto come un codardo.


Una tendenza significativa di questa seconda fase è la critica sociale. "The Marriage of the Blessed" (1989) di Mohsen Makhmalbaf mostra un combattente iraniano che non riesce ad adattarsi alla vita civile dopo essere stato dimesso da un ospedale psichiatrico.

Anche i film post-bellici di Mollagholipour, come "Journey to Chazzabeh" (1996) e "Heeva" (1999), esplorano personaggi che vivono nel passato e non riescono a liberarsi dei loro ideali di guerraSimilmente, in "Sheida" (1999) di Kamal Tabrizi, il protagonista, un combattente idealista che ha temporaneamente perso la vista, fatica ad accettare la fine della guerra, e la sua preoccupazione per il passato è romanticizzata e lodata.





Il numero complessivo di film sulla Sacra Difesa inizia a diminuire dopo il 2000, con l'emergere anche di alcuni film considerati, in parte, anti-militaristi, come "Gilaneh"  di Rakhshan Banietemad, che rompe con l’epica per mostrare il dolore quotidiano di una madre nel prendersi cura del figlio disabile, vittima del conflitto. Questa fase segna anche l'ingresso di prospettive femminili e una maggiore introspezione. 

Negli anni recenti, con l’avvento di nuove guerre (come quella in Siria) e la minaccia dell’ISIS, si apre una terza fase. Qui il cinema della Difesa Sacra abbraccia estetiche hollywoodiane, effetti speciali e toni epici per giustificare l’intervento militare iraniano all’estero. Figure come Hatamikia si riconvertono in registi di azione, esportando il messaggio ideologico della Repubblica Islamica in un contesto internazionale. Secondo Abbasian, questo cinema diventa uno strumento sofisticato di propaganda antioccidentale, camuffato da produzione mainstream ad alto budget. L'obiettivo è rendere la propaganda più attraente per le giovani generazioni che non hanno vissuto la rivoluzione e la guerra e che non sono necessariamente interessate a una narrazione esclusivamente islamica. A partire dal 2011 è lo stesso corpo dei Guardiani dell Rivoluzione (IRGC) a produrre direttamente i film tramite le neonata organizzazione Owj Arts and Media.

Film di Mohammad Hossein Mahdavian, come "Standing in the Dust" (2016), "Midday Adventures" (2017) e "Midday Adventures: Trace of Blood" (2019), insieme ai lavori di Narges Abyar ("Breath", 2016; "When the Moon Was Full", 2019), Bahram Tavakoli ("The Lost Strait", 2018) e Mehdi Jafari ("23 People", 2019), sono esempi della nuova ondata. Questi registi producono film con trame complesse e un uso più elaborato degli storyboard e della pre-produzione, simili a quelli criticati dagli autori della prima ora.

Un esempio emblematico è "Lottery" (Mahdavian, 2018), che, pur non essendo un film di guerra, incarna l'aspetto sciovinista di questa faseLa storia, ispirata al filmfarsi, il cinema commerciale dei tempi dello scià, ruota attorno a una giovane coppia che sogna di vincere la lotteria della green card e trasferirsi negli Stati UnitiQuando la ragazza scompare e si scopre che è morta a Dubai, il ragazzo si vendicaIl film glorifica così la violenza, necessaria per salvare l'Iran e le sue donne.




Ma è ancora Hatamikia l'esponente di punta della fase, con "Che" (2014), su una battaglia risalente al 1979 contro la guerriglia curda, "Bodyguard" (2016), ispirato alla figura del generale Soleimani e "Damascus Time" (2018), sulle attività dell'Iran in Siria.

Come nota Abbasian, il cinema della Difesa Sacra è il più grande segreto del cinema iraniano contemporaneo, ignorato dall’Occidente ma centrale nel progetto culturale della Repubblica Islamica. Le sue tre fasi riflettono i mutamenti ideologici della paese e il modo in cui la guerra viene narrata, rivissuta e reinventata per costruire l’identità nazionale. Dai toni mistici di Avini agli effetti digitali dei blockbuster contemporanei, la guerra nel cinema iraniano non finisce mai davvero: the war must go on. Purtroppo non solo al cinema.


giovedì 19 giugno 2025

Panahi non può rientrare in Iran

Dopo anni a non poter uscire dall'Iran, oggi Jafar Panahi non ci può rientrare. Così su Instagram:

"Due settimane fa, su invito di un festival cinematografico [di Sidney], sono partito per un viaggio. Pochi giorni dopo è iniziata la guerra. Da quel momento ho cercato in tutti i modi di tornare a casa, alla mia famiglia, soprattutto a mia madre. La chiusura dei confini aerei e terrestri mi ha praticamente imprigionato fuori dal mio Paese. Fino a ieri ho fatto ogni sforzo per tornare, ma è stato tutto inutile. Continuerò comunque a cercare di rientrare.

Questa situazione per me è profondamente dolorosa e insopportabile; non solo per la lontananza da casa, ma per il senso di impotenza di fronte al dolore di un popolo che ogni giorno è vittima di questa guerra. Quando il destino di una nazione è nelle mani di fanatici e potenze ambiziose, non rimane nulla se non rabbia, dolore e una pesante responsabilità."


mercoledì 18 giugno 2025

Shayda al cinema da 10 luglio

Dopo essere stato presentato alla 76esima edizione del Locarno Film Festival e aver vinto il premio Audience Award al Sundance Film Festival 2023, Shayda, esordio della regista iraniano-australiana Noora Niasari, con protagonista Zar Amir Ebrahimi, già vincitrice del premio per la miglior attrice a Cannes nel 2022 con Holy Spider, sarà distribuito nelle sale italiane dal 10 luglio da Wanted Cinema

Anche Jafar Panahi condanna l'aggressione

Dopo Rasoulof, anche Jafar Panahi specifica meglio la sua posizione, in un commeto comparso in una sua "stories" di Instagram:

"Non ho alcun dubbio su questo punto chiaro e non negoziabile: ho già espresso esplicitamente la mia posizione e la ribadisco ancora una volta: un attacco alla mia patria, l’Iran, non è in alcun modo accettabile. Israele ha violato l’Iran e dovrebbe essere processato in un tribunale internazionale come aggressore di guerra.

Questa posizione non significa in alcun modo ignorare decenni di cattiva gestione, corruzione, oppressione, tirannia e incompetenza del regime della Repubblica Islamica. Questo governo non ha né il potere, né la volontà, né la legittimità per governare il paese o gestire le crisi. Restare sotto questo regime significa continuare il crollo, continuare la repressione e continuare la fuga! L’unica via d’uscita è sciogliere immediatamente questo sistema e avviare un governo democratico e popolare, responsabile.

Con piena enfasi sulla salvaguardia dell’integrità territoriale dell’Iran e del diritto alla sovranità nazionale, chiedo la fine immediata e incondizionata della devastante guerra tra la Repubblica Islamica e il regime israeliano; una guerra che distrugge la vita e i mezzi di sussistenza dei civili da entrambe le parti e che devasta le infrastrutture vitali. Questa guerra rappresenta una minaccia grave per la pace regionale e i valori umani.

Entrambi i regimi dovrebbero essere apertamente condannati per la loro persistenza nella violenza, nella guerra e nella totale indifferenza verso la dignità umana. Attacchi missilistici, bombardamenti di aree residenziali e uccisione mirata di civili sono crimini. Morale, politica e sicurezza non sono scuse per questi crimini. Continuare questo ciclo di sangue e odio non farà altro che aumentare l’instabilità nel mondo e diffondere il disastro.

Chiedo all’ONU e alla comunità internazionale di agire immediatamente, con decisione e senza esitazioni o ritardi, per costringere i due regimi a fermare le azioni militari e l’uccisione di civili. Il silenzio e l’inazione continuata significano complicità nel crimine. Chiaro e forte!

#نه_به_جنگ #نه_به_جمهوری_اسلامی
#NoAllaGuerra #NoAllaRepubblicaIslamica"




martedì 17 giugno 2025

Mohammed Rasoulof condanna anche l'aggressione

Dopo aver firmato con Panahi e altri 5 intellettuali un appello fortemente contestato perché chiedeva il cessate il fuoco senza condannare l'aggressione israeliana, Mohammad Rasoulof ha esplicitato meglio la sua posizione con un post su Instagram:

"Niente, nessuna scusa e nessuna giustificazione possono rendere legittima un'invasione del suolo iraniano.

L'attacco militare di Israele contro l'Iran è un'aggressione palese al nostro territorio, e i responsabili devono essere chiamati a rispondere davanti ai tribunali internazionali.

Tuttavia, la difesa dell'integrità territoriale dell'Iran non significa in alcun modo ignorare quattro decenni di distruzione causati dalla Repubblica Islamica. Questo regime, accumulando corruzione, inefficienza e repressione, non solo si è dimostrato incapace di risolvere le crisi interne e regionali, ma con decisioni che generano crisi ha trascinato la popolazione nel cuore della catastrofe. La Repubblica Islamica è il problema principale.
La sua sopravvivenza equivale al proseguimento della decadenza morale, alla continua repressione delle libertà, e al perpetuarsi del ciclo di violenza, povertà e collasso. L'Iran ha bisogno di superare questa struttura logora e oppressiva.
L’unica via di salvezza è avviare un processo di transizione verso un ordine popolare, responsabile e democratico: un ordine che risponda al popolo, non che lo domini.

Le vere vittime della guerra in corso tra la Repubblica Islamica e il governo israeliano sono le persone: persone che sotto le macerie delle bombe, in mezzo al terrore e tra le rovine, lottano per respirare. Questa guerra deve finire immediatamente, prima che ciò che resta di speranza, vita e futuro venga completamente distrutto.

La Repubblica Islamica e il governo di Israele devono essere esplicitamente condannati per la continuazione della violenza, per l’istigazione alla guerra, per l’umiliazione della dignità umana e per l’uccisione deliberata di civili.
Chiedo alle istituzioni internazionali e a tutte le coscienze sveglie del mondo di agire con decisione, senza indugi né compromessi, per fermare immediatamente gli attacchi militari e porre fine al massacro dei civili."




Messaggio di Asghar Farhadi

In una stories su Instagram, Asghar Farhadi ha scritto:

Iran, resterai tu.
Con tutte le ferite, resterai tu.
Le ferite causate da governanti indegni, da stranieri devastatori, da traditori senza valore.
O terra madre, tu con tutti i dolori nascosti nei petti pazienti
resterai salda e accoglierai con affetto i tuoi figli nel tuo abbraccio.
Tu, per sempre, resterai l’Iran.

lunedì 16 giugno 2025

Bombe da Israele, registi iraniani divisi

Dopo giorni di silenzio dall'inizio della guerra imperialista di Israele all'Iran, voci autorevoli del cinema iraniano iniziano a farsi sentire, rivelando divisioni.

I grandi nomi della dissidenza, Jafar Panahi e l'esule Mohammad Rasoulof, hanno rotto gli indugi firmando un appello congiunto con le premi Nobel per la pace Narges Mohammadi e Shirin Ebadi.

La loro presa di posizione chiede esplicitamente all'Iran la sospensione dell'arricchimento dell'uranio e, in modo radicale, la fine del regime stesso, oltre alla cessazione delle ostilità da entrambe le parti, aggressore e aggredito.

Dall'altro lato, registi che operano più spesso all'interno del perimetro consentito dalle istituzioni, come Nima Javidi (regista di "Melbourne"), hanno utilizzato i social media per esprimere la loro contrarietà alla guerra.

Una voce particolarmente coraggiosa arriva dai registi di "Kafka a Teheran", Ali Asgari e Alireza Khatami.

Pur essendo autori di opere fortemente critiche verso la Repubblica Islamica e le sue contraddizioni, si sono schierati senza esitazione e senza ambiguità contro la guerra e le sue devastazioni fin dai primi momenti.

Silenzio assoluto, invece, da tanti registi importanti di film che abbiamo amato 


lunedì 2 giugno 2025

Buonanotte a Teheran - Critical Zone in streaming

"BUONANOTTE A TEHERAN – CRITICAL ZONE", vincitore del Pardo d’Oro al Festival di Locarno, arriva su iwonderfull.it in streaming dal 12 giugno. In anteprima a Biografilm 2025, il film sarà presentato alla presenza del regista Ali Ahmadzade, che incontrerà il pubblico a Bologna durante la 21ª edizione del festival, in programma dal 6 al 16 giugno 




domenica 1 giugno 2025

Leggere Lolita a Teheran (Eran Riklis, 2024)



Si presenta come un’opera necessaria, come un manifesto civile, come un atto di accusa contro l’oppressione religiosa e patriarcale della Repubblica Islamica dell’Iran, e "Leggere Lolita a Teheran", nella versione cinematografica firmata da Eran Riklis, si inserisce effettivamente in questo solco. Eppure, il film fatica a trovare un linguaggio cinematografico davvero incisivo, rifugiandosi spesso in una narrazione ordinata, accessibile, a tratti didascalica. Più che un grido di dolore o un gesto di rottura, il film somiglia a un’elegante esposizione, pensata per essere compresa e accolta da un pubblico occidentale già predisposto all’empatia.

La regia di Riklis, cineasta israeliano già noto per "La sposa siriana" e "Il giardino di limoni" (qui gira in in Italia: produzione Minerva Pictures e Romanont con Rai Cinema), si distingue per il rispetto e l’attenzione con cui tratta la materia, ma appare qui meno coraggioso ed efficace rispetto ai suoi lavori precedenti. Il racconto autobiografico di Azar Nafisi, figura carismatica e complessa, viene restituito con una struttura ordinata, quasi scolastica, che sembra preferire la chiarezza all’ambiguità, la coerenza narrativa alla tensione emotiva. Le tappe della narrazione – introduzione, sviluppo, conclusione – sono nette, accompagnate da capitoli e cronologie che rendono il tutto facilmente leggibile, ma anche meno coinvolgente.

Alcune scelte, come l’uso episodico dei classici letterari ("Lolita", "Gatsby", "Daisy Miller", "Orgoglio e pregiudizio"), che nel libro rappresentavano territori di confronto interiore e tensione culturale, nel film si riducono spesso a simboli evocativi, più decorativi che realmente problematici. È un approccio che semplifica, anziché approfondire, e che rischia di appiattire la complessità del vissuto delle protagoniste. Manca quasi del tutto, malgrado i tentativi in sede di scrittura, quel senso di perdita che caratterizzava un romanzo sì un po' furbo, ma a suo modo epocale e di grande seguito. Le frasi programmatiche che punteggiano la sceneggiatura (“Pensare non è un reato”, “L’Iran non ti lascia”) appaiono troppo scolpite per convincerci della necessità del film in quanto opera di di testimonianza e resistenza.





Golshifteh Farahani è intensa, partecipe, capace di donare al suo personaggio una gravità autentica. Tuttavia, anche la sua interpretazione risente di una messa in scena che tende più a osservare che a penetrare davvero la materia. Il gruppo di ragazze che accompagna la protagonista resta spesso sullo sfondo, come un coro funzionale, poco esplorato nelle sue singole storie. La simultanea presenza dell'altra star della diaspora iraniana legata all'opposizione, Zar Amir Ebrahimi, conferma i sospetti di un prodotto infiocchettato per l'export. 

E se il tema della condizione femminile in Iran merita sempre e comunque di rimanere sotto i riflettori, forse il problema non è tanto ciò che "Leggere Lolita a Teheran" dice, quanto il modo in cui sceglie di dirlo: cercando il consenso più che lo shock, preferendo rassicurare piuttosto che provocare. In un tempo in cui i racconti del dissenso si moltiplicano nei circuiti festivalieri, servirebbe il coraggio di un cinema che non si limita a raccontare l’ingiustizia ma che ne fa esperienza formale. Che sbaglia, che urla, che balbetta. Questo, invece, è un film che non balbetta mai. E che proprio per questo, finisce col dire troppo poco.

Nel cast femminile anche Mina Kavani ("Gli orsi non esistono") e l'italo-iraniana Isabella Nefar.


lunedì 26 maggio 2025

Lo specchio (Jafar Panahi, 1997)




Il secondo lungometraggio di Jafar Panahi rappresenta una tappa importante nella riflessione metacinematografica del cinema iraniano degli anni '90. Dopo il successo internazionale de "Il palloncino bianco" (1995), Panahi decide di restare in Iran, rifiutando proposte di lavoro all’estero, per girare un altro film incentrato sull’infanzia, un tema centrale nella cinematografia iraniana per ragioni che travalicano l’estetica e sconfinano nella strategia: come lui stesso afferma, in un contesto in cui non è possibile esprimersi liberamente attraverso i personaggi adulti a causa della censura, si è costretti a farlo attraverso i bambini, trasformando lo sguardo infantile nel veicolo di un discorso critico.

Tuttavia, "Lo specchio" (Ayneh, 1997) non si limita a replicare le formule narrative de "Il palloncino bianco", ma le mette in discussione e le capovolge, con un colpo di scena che interrompe bruscamente la narrazione lineare e immerge lo spettatore in una riflessione sul confine fra realtà e finzione. La prima parte del film segue la piccola Mina, una bambina con un braccio ingessato che, all’uscita da scuola, scopre che sua madre non è venuta a prenderla; si avventura allora da sola nella caotica Teheran, cercando la strada di casa. La cinepresa la segue nei suoi incontri, nei suoi spostamenti incerti, nei suoi sguardi spaesati, in una metropoli brulicante e rumorosa, dove l’infanzia sembra sola e invisibile, ma anche irriducibilmente testarda.





Poi, all’improvviso, la bambina si rivolge alla macchina da presa e dice che non vuole più recitare. Il regista, fuori campo, la rimprovera, entra brevemente in scena e le riprese si interrompono. A questo punto, "Lo specchio" cambia pelle: la fotografia si fa instabile, sgranata, l’inquadratura perde la compostezza, la narrazione si apre all’imprevisto. Mina, ormai fuori dal ruolo, si toglie il gesso, l’hijab, il giubbino – simboli della finzione, ma anche di una costrizione sociale reale – e abbandona il set, mentre la troupe decide di continuare a riprenderla di nascosto, approfittando del microfono ancora addosso alla bambina.

Il film sembra allora inseguire la realtà mentre sfugge, registrare il mondo che continua a scorrere oltre il controllo del regista, restituendo l’illusione di un’autenticità non più filtrata, che però – come ammette Panahi stesso – era anch’essa sceneggiata. Il cortocircuito tra messa in scena e realtà è talmente riuscito da trarre in inganno: al Festival di Locarno, dove il film si è aggiudicato il Pardo d'oro, molti spettatori credevano che la rottura del film fosse accaduta realmente. Panahi invece finge di perdere il controllo del suo lavoro per metterci di fronte al paradosso della rappresentazione: più si cerca la realtà, più si deve costruirla.





Eppure, questa riflessione metacinematografica non si riduce a un esercizio postmoderno o autoreferenziale: il gesto di Mina, che rifiuta il proprio ruolo, che abbandona il set, che si oppone a essere rappresentata come una bambina piagnucolosa, assume un valore etico, politico e poetico. Da un lato, rivendica una soggettività che si sottrae alla funzione simbolica a cui il cinema – e la società – vogliono relegarla; dall’altro, smaschera l’artificio anche del cosiddetto “realismo”, invitando a una forma di rappresentazione ancora più sincera.

Allo stesso tempo, Panahi interroga la natura stessa del cinema iraniano degli anni ’90, fortemente influenzato dal neorealismo e dominato dalla figura del bambino errante. La continuità con "Il palloncino bianco" è evidente, anche perché Mina è interpretata dalla sorella dell’attrice protagonista del film precedente, ma è una continuità messa in discussione, rovesciata, speculare; il riflesso di una forma che cerca di superare sé stessa.

Panahi si distacca così dal modello kiarostamiano, cui pure è debitore, e che riecheggia non solo nella struttura narrativa circolare – Mina parte dalla scuola e alla scuola vuole tornare – ma anche nella costruzione dei personaggi: bambini caparbi, adulti bruschi o assenti, interazioni quotidiane che si caricano di senso. Le interruzioni brechtiane, le conversazioni di sfondo, la presenza della radio che scandisce una partita e i piani-sequenza lunghi e avvolgenti, riportano alla mente i capolavori del maestro, ma Panahi li trasforma in qualcosa di proprio 
Anche ne "Lo specchio" il metacinema non è un vezzo formale, ma una necessità morale: significa riconoscere i limiti del mezzo e, insieme, la sua potenza. Quando Mina chiede a un vigile se conosce suo padre o quando parla con l’uomo che sostiene di aver doppiato John Wayne, siamo in uno spazio ambiguo in cui tutto può essere reale e tutto può essere recitato. Eppure, anche in questo spaesamento, emerge una tensione alla verità.

La sequenza finale – con la macchina da presa che spiando si avvicina alla soglia della casa, l’audio che si interrompe deliberatamente, il microfono spento per errore – è una dichiarazione d’intenti: il cinema può solo avvicinarsi, può solo tentare di ascoltare, ma non può possedere ciò che filma. Come nel finale di "Close-Up", Panahi riflette sulla distanza incolmabile tra il filmico e il profilmico, tra l’arte e la vita. "Lo specchio" è allora una riflessione sull’impotenza e sulla responsabilità del cinema: può mostrare la realtà, ma non cambiarla; può raccontare la costrizione, ma non liberare; può solo – e già è moltissimo – restituire il riflesso di una verità che non smette di interrogare chi guarda.

domenica 25 maggio 2025

La torta che non c'era

 "Anche dopo che le è stato vietato di girare film, ha continuato a farli e i suoi film hanno continuato a essere proiettati a Cannes. Incluso "This Is Not a Film" , che a quanto pare è stato contrabbandato dall'Iran a Cannes dentro una torta. Come è andata?"


"La storia della torta non è altro che una bugia. Non ha niente a che fare con me, e non ho idea di chi l'abbia detta né di come sia iniziata. È quasi ridicola, perché abbiamo semplicemente messo il film su una chiavetta USB e io ho dato la chiavetta a qualcuno che era in viaggio, lui l'ha portata a Cannes e questo è tutto. Non ho idea di chi abbia inventato la storia della torta e a quale scopo. Che tipo di torta dovesse essere, se la chiavetta fosse dentro la torta, sopra la torta o altrove, non ne ho idea. Ma io non c'entro niente con quella storia."


https://www.hollywoodreporter.com/movies/movie-news/jafar-panahi-cannes-interview-it-was-just-an-accident-1236221113/?fbclid=IwZXh0bgNhZW0CMTEAAR4d4wZNY7MPmHh5H-wqibJ_bwBk57NxFX-tPfj-6H-Y9svdVLrsgpkjO3Qt7w_aem_fvwihSqfcSDk0z_yt-6SYQ




sabato 24 maggio 2025

Palma d'oro a Jafar Panahi!


 

"Un simple accident" di Jafar Panahi è il secondo film iraniano a vincere la palma d'oro a Cannes, il premio più prestigioso per il cinema d'autore, 28 anni dopo "Il sapore della ciliegia" di Abbas Kiarostami (1997). 

Panahi diventa inoltre il primo regista in assoluto ad aver trionfato nei quattro principali festival europei: oltre a Cannes, Locarno ("Lo specchio", 1997), Venezia ("Il cerchio", 2000) e Berlino ("Taxi Teheran", 2015)

Una giornata storica per il cinema iraniano!

sabato 17 maggio 2025

Kafka a Teheran ( Ali Asgari, Alireza Khatami, 2023)




L’asfissia quotidiana del vivere in un Paese dove il potere ha preso il posto dell’aria. Diretto da Alireza Khatami e Ali Asgari, "Kafka a Teheran" (Ayeh haye zamini) è costruito come una suite di nove episodi – o meglio, “versi”, secondo l’analogia poetica che ispira la struttura dell’opera ("Terrestrial Verses" è il titolo internazionale) – in cui uomini, donne e bambini iraniani si trovano di fronte a un’autorità invisibile ma pervasiva. L’uso della camera fissa, il montaggio proibito, l’assenza di controcampo: tutto converge nel creare un’estetica della costrizione, un teatro filmico dove l’individuo è sempre di fronte a un potere che lo guarda, lo giudica e lo piega. Khatami e Asgari hanno spiegato qual è la fonte di ispirazione per questa forma: il ghazal, la poesia persiana in strofe autonome ma legate tematicamente. Il film diventa così una raccolta di poesie civili e tragiche, dove l’umorismo affiora come una reazione nervosa all’assurdità del sistema.

Il titolo originale del film è tratto da una poesia di Forugh Farrokhzad, la più grande poeta iraniana del Novecento, anche documentarista. Gli ultimi versi della poesia recitano: “E dopo la terra / Non accolse più i morti.” È un’immagine che cristallizza la negazione del futuro, ma anche la condanna di un presente inospitale. “Kafka a Teheran” è un’opera di resistenza che si regge sulla parola, sul corpo in ascolto, sulla performance degli attori che affrontano lunghissimi piani-sequenza con una notevole tensione drammatica. Non improvvisa nulla: tutto era già scritto, ogni dettaglio calibrato. Eppure ogni scena vibra di vita vissuta. Perché questa non è fiction, è iperrealtà: per l’iraniano medio, questi dialoghi sono pane quotidiano. Non per niente uno dei due registi, Ali Asgari, già noto al pubblico italiano dei festival in particolare per i suoi corti (oltre che per aver studiato a Roma Tre)  a causa di questo film ha subito il sequestro del passaporto per alcuni mesi.






Il primo episodio, tra i più emblematici e mordaci, presenta un giovane uomo che desidera chiamare suo figlio appena nato "David". L’impiegato fuori campo – di cui non vediamo il volto, ma solo sentiamo la voce inquisitoria – obietta: è un nome occidentale, non iraniano. Il giovane propone Gholam Hossein, come Saedi, scrittore iconico della sinistra iraniana, oppositore dello scià, simbolo di un’altra idea di cultura. La scelta scatena una spirale grottesca di incomprensione e censura.

Il secondo episodio, unico con una bambina protagonista, è un piccolo capolavoro di sintesi sulla repressione dell’identità femminile. Selena, otto anni, balla ascoltando pop occidentale mentre indossa una felpa di Topolino (figura che ritorna, poi, in un altro degli episodi migliori). Ma deve provarsi il “completo” per la scuola: un processo che la spoglia progressivamente della sua individualità per rivestirla di anonimato e ortodossia. Appena finita la vestizione, si libera da tutto e ricomincia a ballare. È un gesto che vale quanto mille discorsi: l’identità resiste, anche se continuamente negata. 






“Kafka a Teheran” è un atto di cinema che si fa testimonianza, nonostante tutto. Non un film “su” l’Iran, ma “dentro” l’Iran. Non c’è violenza esplicita, né riferimenti diretti alla guida suprema o ai Guardiani della Rivoluzione. Eppure ogni sequenza è un urlo sommesso contro l’autoritarismo, una denuncia che passa attraverso l’ordinario. Un aspirante regista si vede censurare ogni pagina della sua sceneggiatura, una donna subisce molestie a un colloquio di lavoro, le patenti di guida diventano un problema e così via, una situazione kafkiana dopo l’altra, fino a un finale apocalittico. Episodi in apparenza scollegati, ma uniti dal filo di un assurdo che ricorda Beckett o Ionesco, ma che è del tutto iraniano.

Un film sulla burocrazia che diventa teologia, sulla religione che diventa norma, sul potere che si annida nei dettagli, nelle carte da firmare, nei nomi da scegliere. E anche un film sulla dignità di chi non si piega. Girato in soli sette giorni, autofinanziato, senza permessi ufficiali, è un capitolo importante del nuovo cinema iraniano post-”Donna Vita Libertà”. Khatami e Asgari dicono: C’era un tempo per raccontare storie attorno al fuoco. Ora è tempo di raccontarle dentro il fuoco. Ecco cos’è "Kafka a Teheran": un film dentro il fuoco, che brucia e illumina.


giovedì 15 maggio 2025

Una separazione (Asghar Farhadi, 2011)

 



Quando nel 2011 "Una separazione" (Jodāyi-e Nāder az Simin) vinse l’Orso d’Oro alla Berlinale, e nel 2012 il primo premio Oscar nella storia del cinema iraniano, la critica internazionale lo accolse come un capolavoro di coraggio e umanità. Il film di Asghar Farhadi fu letto da molti come un’allegoria della società iraniana, oppressa da rigidità religiose, patriarcato e tensioni generazionali. Ma fermarsi a questa chiave interpretativa significherebbe ridurre un’opera che invece si distingue per la complessità della costruzione narrativa e per la radicale ambiguità morale che la attraversa. "Una separazione" non è solo il racconto di una coppia in crisi: è un laboratorio cinematografico che interroga la verità, la giustizia, il linguaggio stesso e le modalità con cui costruiamo — o evitiamo — di assumerci responsabilità.

Il punto di partenza narrativo è semplice ma potente: Simin vuole lasciare l’Iran per garantire alla figlia Termeh un futuro diverso, ma il marito Nader si oppone perché si sente moralmente vincolato ad accudire il padre malato di Alzheimer. Da questa divergenza scaturisce una catena di eventi che coinvolge anche Razieh, una donna incinta e devota che accetta di lavorare per Nader, e che finirà per essere vittima e nodo centrale di un dramma giudiziario, e suo marito Hojjat, uomo facilmente irascibile e pieno di debiti. Ma "Una separazione" è molto più di una duplice vicenda familiare: è una frattura epistemologica, dove ciò che vediamo e ciò che ci viene detto divergono costantemente. La verità, se esiste, è sempre parziale, ritardata, distorta. I personaggi mentono o tacciono non per cattiveria, ma per necessità. Nessuno è interamente colpevole, nessuno è del tutto innocente. Ogni parola detta ha un peso specifico e ogni omissione produce conseguenze.




Il film costruisce un universo dove la verità è una costruzione discorsiva e le versioni dei fatti si rincorrono senza mai sovrapporsi perfettamente. Il sistema giudiziario rappresentato non è una garanzia di verità ma un luogo in cui i personaggi dosano ogni frase per evitare ripercussioni legali. Farhadi orchestra con minuzia questa tensione drammaturgica: ogni scena aggiunge un dettaglio, ma nessuna scioglie l’enigma. Nader ha davvero spinto Razieh, causandone l’aborto? E Razieh ha detto tutto ciò che sa? Le risposte non sono mai date: lo spettatore è chiamato a decidere, ma qualsiasi posizione sarà sempre provvisoria.

Questa dinamica è sostenuta da una messa in scena rigorosa, che unisce il realismo quotidiano a una tensione costante. La camera a mano, gli ambienti domestici, l’assenza di musica e le interpretazioni misurate di tutto il cast - a partire dai quattro protagonisti Leila Hatami, Peyman Moadi, Sareh Bayat e Shahab Hosseini - danno al film un tono sobrio e al contempo drammatico. L’estetica di Farhadi è deliberatamente sospensiva: più che coinvolgere emotivamente, sollecita il giudizio, costringe a pensare. Emblematica è la scena iniziale: Nader e Simin parlano direttamente alla macchina da presa, rivolgendosi a un giudice invisibile. È lo spettatore, dunque, a essere messo sul banco, in una posizione di responsabilità morale. Non può semplicemente osservare: deve interrogarsi, prendere posizione, sapere che ogni giudizio sarà parziale e forse ingiusto.

In questo processo, Termeh — la figlia undicenne — assume un ruolo fondamentale. Non è solo un personaggio secondario, ma una vera e propria figura osservativa, il cui punto di vista orienta l’intera struttura percettiva del film. Fin dalla prima apparizione la vediamo filtrata da un vetro, sfocata, mentre guarda la madre entrare in camera: un’immagine che anticipa il gioco di trasparenze e riflessi che attraversa tutto il film. L’appartamento familiare diventa una rete di sguardi incrociati, dove ogni superficie vetrata collega e separa i personaggi, creando una costellazione visiva in cui la distanza affettiva e la possibilità del legame convivono.




Termeh incarna anche un altro tipo di conflitto: quello tra due modelli educativi e sociali. Nader, pur affettuoso, la cresce nel culto dell’integrità assoluta; Simin, più pragmatica, la educa alla mediazione. Quando Termeh scopre che anche il padre mente, lo scarto etico che ne deriva è devastante: si incrina l’identificazione, si frantuma la coerenza morale. In quella rottura silenziosa si specchia il destino di una generazione e, simbolicamente, di un intero paese in bilico tra fedeltà e cambiamento.

La tensione tra visibile e invisibile è rafforzata da un uso sapiente delle ellissi. Farhadi taglia fuori dallo schermo i momenti decisivi: non vediamo la caduta di Razieh, né il momento esatto del furto. Lo spettatore, come i personaggi, è lasciato in sospeso, costretto a colmare le lacune con ipotesi, ricostruzioni, dubbi. L’importante non è il fatto in sé, ma la discussione che ne deriva. La verità non è ciò che accade, ma ciò che viene detto — o non detto — su ciò che è accaduto. Le ellissi non nascondono: rivelano, proprio in quanto omettono. Diventano luoghi di conflitto, generatori narrativi.





Il realismo del film si fonda su questa paradossale combinazione di precisione minuziosa e vuoti strategici. Farhadi riesce così a unire l’esattezza del dettaglio con la tensione drammatica; l’eccesso di costruzione non indebolisce il realismo, lo rafforza: la credibilità scaturisce non dalla semplicità, ma dalla complessità.

"Una separazione" è quindi un film che non denuncia, ma interroga; non prende posizione, ma costringe a prenderla. Parla del presente senza essere didascalico, perché pone domande universali: sul senso della giustizia, sulla responsabilità individuale, sull’etica della parola. È un cinema della responsabilità, dove il vero protagonista non è un personaggio, ma lo spettatore. Farhadi non offre risposte: crea condizioni affinché ciascuno si senta obbligato a porsi delle domande. In questo senso, "Una separazione" è uno dei più grandi film del XXI secolo, capace di restituire la complessità dell’umano in una forma tanto limpida quanto inquietante.


martedì 13 maggio 2025

Dietro il parabrezza: come il cinema iraniano trasforma l’auto in spazio politico

Nel cinema iraniano, l’automobile non è solo un mezzo, ma una vera e propria arena narrativa. Nasim Naghavi, studiosa di cultura visiva, lo dimostra in un saggio che analizza come l’interno di un’auto diventi uno spazio intimo e altamente simbolico in film come Dieci di Abbas Kiarostami e Taxi Teheran di Jafar Panahi.

Per molti registi iraniani, girare scene all’interno di un’auto non è solo una scelta estetica o logistica, ma una precisa strategia narrativa. Nell’Iran contemporaneo, dove lo spazio pubblico è fortemente regolamentato, l’abitacolo diventa il teatro di una “mobilità sociale” che riflette tensioni di classe, genere e identità. È dentro un’auto che i personaggi si confessano, litigano, si mettono a nudo, spesso protetti – o intrappolati – da una lamiera sottile.

Interessante è la riflessione di Naghavi sul ruolo delle donne in questi microcosmi mobili. In una società in cui la libertà femminile è sorvegliata, l’auto offre – seppur temporaneamente – un angolo di autonomia: un luogo in cui togliere il velo, parlare liberamente, o semplicemente guidare, può assumere un significato profondamente politico.

Quello che emerge è una visione stratificata e critica dello spazio urbano iraniano: non solo strade, palazzi o piazze, ma anche le auto che lo attraversano diventano luoghi vivi e carichi di senso. 

Articolo completo: Navigating Class, Gender, and Urban Mobile Spaces – Nasim Naghavi (MDPI)

lunedì 12 maggio 2025

La lotta delle donne nei film di Roustayi

La tesi di Narges Azami, intitolata The Marginality of Women in Narratives: Reflections on Iranian Women's Struggles Through Saeed Roustayi's Films (2025), analizza la marginalizzazione delle donne in tre film iraniani post-rivoluzionari diretti da Saeed Roustayi: Life and a Day (2016), Just 6.5 (2019) e Leila e i suoi fratelli (2022). Utilizzando il concetto di intersezionalità, lo studio esamina come diverse forme di oppressione—come genere e classe—si intersechino nella vita delle donne. 

L'analisi identifica quattro temi principali: 

1. Lavoro emotivo: le donne sono spesso caricate di responsabilità emotive non riconosciute. 


2. Cancellazione simbolica: le loro esperienze e contributi vengono frequentemente ignorati o minimizzati. 


3. Visibilità limitata: le donne sono spesso assenti o marginali negli spazi pubblici e istituzionali. 


4. Oppressione intersezionale: le discriminazioni basate su genere, classe e tradizione si combinano, limitando le scelte e la libertà delle donne. 



La tesi sostiene che i film di Roustayi criticano il sistema patriarcale iraniano, mostrando come l'oppressione femminile non derivi sempre da atti violenti, ma spesso da dinamiche silenziose come pressioni emotive, silenzio forzato e esclusione sociale. In particolare, Leila’s Brothers illustra come una donna, nonostante i suoi sforzi per migliorare la situazione familiare, venga ostacolata da norme tradizionali e dinamiche patriarcali. 

In conclusione, la tesi evidenzia come l'oppressione delle donne in Iran sia perpetuata non solo attraverso la violenza, ma anche tramite meccanismi sottili e sistemici che limitano la loro autonomia e visibilità. 





giovedì 24 aprile 2025

Roustayi a Cannes

Annunciato in concorso a Cannes anche il nuovo film di Saeed Roustayi, il regista di "Leila e i suoi fratelli". Titolo: "Woman and Child"









Aggiornameni sul secondo film francese di Farhadi

Aggiornamenti sull'undicesimo film di Asghar Farhadi, il secondo girato in Francia.

Titolo: "Parallel Tales". Cast: Isabelle Huppert, Virginie Efira, Vincent Cassel, Pierre Niney, Adam Bessa, Catherine Deneuve. Sarà prodotto da Alexandre Mallet-Guy insieme ad Asghar Farhadi e David Levine e sarà lanciato al Marchè di Cannes a maggio.
Si tratterà di una coproduzione ufficiale franco-italiana-belga tra la Memento Production di Mallet-Guy in Francia, la Lucky Red di Andrea Occhipinti in Italia e la Panache Productions di André Logie e La Compagnie Cinématographique di Gaëtan David in Belgio. Anche la Anonymous Content negli Stati Uniti coprodurrà il film. Budget: 12 milioni di euro. Inizio riprese in autunno a Parigi. Uscita nelle sale previste per la primavera del 2026