L’asfissia quotidiana del vivere in un Paese dove il potere ha preso il posto dell’aria. Diretto da Alireza Khatami e Ali Asgari, "Kafka a Teheran" (Ayeh haye zamini) è costruito come una suite di nove episodi – o meglio, “versi”, secondo l’analogia poetica che ispira la struttura dell’opera ("Terrestrial Verses" è il titolo internazionale) – in cui uomini, donne e bambini iraniani si trovano di fronte a un’autorità invisibile ma pervasiva. L’uso della camera fissa, il montaggio proibito, l’assenza di controcampo: tutto converge nel creare un’estetica della costrizione, un teatro filmico dove l’individuo è sempre di fronte a un potere che lo guarda, lo giudica e lo piega. Khatami e Asgari hanno spiegato qual è la fonte di ispirazione per questa forma: il ghazal, la poesia persiana in strofe autonome ma legate tematicamente. Il film diventa così una raccolta di poesie civili e tragiche, dove l’umorismo affiora come una reazione nervosa all’assurdità del sistema.
Il titolo originale del film è tratto da una poesia di Forugh Farrokhzad, la più grande poeta iraniana del Novecento, anche documentarista. Gli ultimi versi della poesia recitano: “E dopo la terra / Non accolse più i morti.” È un’immagine che cristallizza la negazione del futuro, ma anche la condanna di un presente inospitale. “Kafka a Teheran” è un’opera di resistenza che si regge sulla parola, sul corpo in ascolto, sulla performance degli attori che affrontano lunghissimi piani-sequenza con una notevole tensione drammatica. Non improvvisa nulla: tutto era già scritto, ogni dettaglio calibrato. Eppure ogni scena vibra di vita vissuta. Perché questa non è fiction, è iperrealtà: per l’iraniano medio, questi dialoghi sono pane quotidiano. Non per niente uno dei due registi, Ali Asgari, già noto al pubblico italiano dei festival in particolare per i suoi corti (oltre che per aver studiato a Roma Tre) a causa di questo film ha subito il sequestro del passaporto per alcuni mesi.
Il primo episodio, tra i più emblematici e mordaci, presenta un giovane uomo che desidera chiamare suo figlio appena nato "David". L’impiegato fuori campo – di cui non vediamo il volto, ma solo sentiamo la voce inquisitoria – obietta: è un nome occidentale, non iraniano. Il giovane propone Gholam Hossein, come Saedi, scrittore iconico della sinistra iraniana, oppositore dello scià, simbolo di un’altra idea di cultura. La scelta scatena una spirale grottesca di incomprensione e censura.
Il secondo episodio, unico con una bambina protagonista, è un piccolo capolavoro di sintesi sulla repressione dell’identità femminile. Selena, otto anni, balla ascoltando pop occidentale mentre indossa una felpa di Topolino (figura che ritorna, poi, in un altro degli episodi migliori). Ma deve provarsi il “completo” per la scuola: un processo che la spoglia progressivamente della sua individualità per rivestirla di anonimato e ortodossia. Appena finita la vestizione, si libera da tutto e ricomincia a ballare. È un gesto che vale quanto mille discorsi: l’identità resiste, anche se continuamente negata.
“Kafka a Teheran” è un atto di cinema che si fa testimonianza, nonostante tutto. Non un film “su” l’Iran, ma “dentro” l’Iran. Non c’è violenza esplicita, né riferimenti diretti alla guida suprema o ai Guardiani della Rivoluzione. Eppure ogni sequenza è un urlo sommesso contro l’autoritarismo, una denuncia che passa attraverso l’ordinario. Un aspirante regista si vede censurare ogni pagina della sua sceneggiatura, una donna subisce molestie a un colloquio di lavoro, le patenti di guida diventano un problema e così via, una situazione kafkiana dopo l’altra, fino a un finale apocalittico. Episodi in apparenza scollegati, ma uniti dal filo di un assurdo che ricorda Beckett o Ionesco, ma che è del tutto iraniano.
Un film sulla burocrazia che diventa teologia, sulla religione che diventa norma, sul potere che si annida nei dettagli, nelle carte da firmare, nei nomi da scegliere. E anche un film sulla dignità di chi non si piega. Girato in soli sette giorni, autofinanziato, senza permessi ufficiali, è un capitolo importante del nuovo cinema iraniano post-”Donna Vita Libertà”. Khatami e Asgari dicono: C’era un tempo per raccontare storie attorno al fuoco. Ora è tempo di raccontarle dentro il fuoco. Ecco cos’è "Kafka a Teheran": un film dentro il fuoco, che brucia e illumina.
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