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domenica 30 ottobre 2016

Sotto le rovine del Buddha, Hana Makhmalbaf (2007)

Avevo già recensito alcuni film della classifica alternativa dei migliori film iraniani del nuovo secolo. Ad esempio il n.7:







Inedito in sala, transitato fugacemente per i festival italiani, vincitore della ventunesima edizione di quello milanese dedicato al cinema d'Africa, Asia e America Latina, già nel catalogo dvd "Cineclub" della Bim Distribuzione, dal maggio 2011 anche su Raitre nella programmazione di Fuori Orario, l'esordio nel lungometraggio della diciannovenne figlia e sorella d'arte Hana Makhmalbaf è un debutto senz'altro promettente per un talento grezzo che successivamente confermerà le proprie doti nel raffazzonato "Green Days", in attesa di ulteriori e più mature prove, si spera supportate da una produzione degna di questo nome. Aperto e chiuso dalle immagini di repertorio dei Buddha giganti di Bamiyan fatti esplodere dai talebani nel 2001, il film si concentra sulla vergogna (termine incluso nel titolo internazionale) quotidiana che si consuma sotto le loro rovine, in un Afghanistan contemporaneo senza legge, più che in balia di un'aggressione e della conseguente resistenza. In poche sequenze molto lunghe, la breve pellicola affronta in particolare due temi centrali, per quanto non nuovi, nel cinema di quelle latitudini: l'educazione repressiva in famiglia e a scuola, la cultura della guerra e della violenza che pervade la società.

Il primo è argomento persino abusato dagli autori iraniani, specie nella prospettiva dei bambini (che l'autrice sa dirigere benissimo), adottata da un film al cento per cento sull'infanzia. Se il piccolo Abbas viene addirittura legato per una caviglia (e i suoi coetanei fanno lo stesso coi neonati) per impedire che si perda negli spazi immensi a duemilacinquecento metri di altitudine tra le grotte adibite ad abitazioni di pietra, una scuola che si rivelerà altrettanto severa (affollate classi sovente all'aperto, divisione per sesso, punizioni umilianti) è ambita da Bakhtay, invidiosa delle capacità di lettura di Abbas e delle bambine a cui i genitori comprano la cancelleria. Nella sequenza più tipicamente iraniana del film Bakhtay cerca in tutti i modi l'attrezzatura per emularli, col baratto e con il mercato, muovendosi tra adulti indifferenti (per lo più fuori campo) se non dannosi (uno le fa cadere le uova che cerca di vendere), reiterando azioni e richieste, svelando un mondo primitivo (interi manzi macellati giacenti in terra in mezzo alla polvere), ma al contempo universale per come avvengono le relazioni tra gli uomini. Pare esplicita la citazione de "Il pane e il vicolo", ma altre opere di Kiarostami, come "Dov'èla casa del mio amico" "Il viaggiatore", nonché molti film recenti degli altri Makhmalbaf (non a caso produzione, sceneggiatura e scenografie sono a conduzione familiare), balzano alla memoria.

Il salto di qualità si produce però quando "Sotto le rovine del Buddha" si concentra sul secondo tema-chiave, sottolineando come espressioni agghiaccianti quali "quando cresco vi uccido" e "muori e sarai libera" appartengano al lessico ludico dei futuri adulti afgani. Le sequenze in cui bambini organizzati in squadre giocano alla guerra con i toni e i modi di chi la sta combattendo sul serio, o la finta lapidazione di cui i giovani boia assicurano la veridicità, sono peculiari di una durezza inaudita che rende il film sanamente controverso e non per tutti i gusti, nonostante una risaputa poetica degli oggetti (il rossetto è il più significativo) e qualche schematismo di troppo. I fogli strappati dai talebani in erba  (va però sottolineato che anche gli americani sono personificati dalle baby gang: più che la cultura talebana i bambini hanno introiettato il linguaggio del conflitto) e trasformati in aerei da guerra di carta, oppure Bakhtay (l'unica a mostrare segni di ribellione alla prassi della guerra per divertimento) che salta nei cerchi di gesso disegnati per confinarla sono quelle metafore - del diritto al gioco e all'istruzione frustrati dalla situazione bellica - normalmente odiate dalla critica. Qui però vengono trascese da un'insolita crudezza, che ha pochi precedenti nelle filmografie degli autori iraniani.









venerdì 28 ottobre 2016

I migliori film iraniani del XXI secolo (e una classifica alternativa)

Lo scorso febbraio, il sito Taste of Cinema ha pubblicato la classifica dei 10 migliori film iraniani del 21mo secolo. La lista è curata da Zara Knox, collaboratrice di Imvbox, preziosa piattaforma di film iraniani in streaming. Tenuta in conto la data di pubblicazione, non sorprende l’esclusione di un film come “Taxi Teheran, che la stessa Knox ha altrove indicato come miglior film del paese del 2015, ma che non aveva ancora ottenuto piena visibilità internazionale. Stesso discorso per altre, eventuali, opere recenti.


Questa la top 10:
Risultati immagini per under the skin of the city

1. Under The Skin of The City – Rakhshan Bani-Etemad
3. The Willow Tree – Majid Majidi
4. Santouri – Dariush Mehrjui
7. Una separazione – Asghar Farhadi
8. Fish and Cat – Shahram Mokri
10. Tales – Rakhshan Bani-Etemad


Nel complesso la classifica è valida. Condivisibile in pieno la scelta di valorizzare con due film il (giustamente) pluripremiato, anche con l'Oscar, Asghar Farhadi: anzi, sarebbero state meritevoli anche le due pellicole precedenti. Se un paio lungometraggi della Bani-Etemad sembrerebbero troppi, va detto che si premiano uno dei suoi esiti migliori (“Under the Skin of the City”) e un’opera presentata in concorso alla Mostra di Venezia, evento non comune. Majid Majidi è un artista sottovalutato, per cui ben venga il riuscito (quanto un po' già visto) “The Willow Tree”. Chissà se “Facing Mirror” compare solo per l’inusuale (nel contesto) tematica transgender; di sicuro “L'isola di ferro”, che uscì anche in Italia, è invece un piccolo gioiello al di là delle vicissitudini giudiziarie del regista, analoghe a quelle di Jafar Panahi. Completano la graduatoria due chicche come “Melbourne”, folgorante opera prima che assimila la lezione dell’ormai maestro Farhadi, l'originalissimo “Fish and Cat”, capace di coniugare in maniera inedita cinema di genere (anzi… di generi diversi) e tipica riflessione metacinematografica, e uno dei film migliori dell’ultra veterano Dariush Mehrjui.
Poco da discutere, dunque. Tuttavia mancano opere ed autori fondamentali. Il cinema delle minoranze etniche, innanzi tutto, e il suo massimo esponente, il curdo Bahman Ghobadi. Poi Panahi, che non ha mai sbagliato un film: potrebbero essere tutti in classifica. Qualcosa della famiglia Makhmalbaf, nonostante i tanti passi falsi, e nonostante l’abitudine a produrre in Iran ma girare all’estero. E qualche autore forse minore, ma comunque degno di maggiore visibilità.
Senza voler sostituire nulla, una classifica alternativa potrebbe essere:
 

4. Fireworks Wednesday – Asghar Farhadi
5. Story Undone – Hassan Yektapanah
10. Half Moon – Bahman Ghobadi

Questa graduatoria esclude i cortometraggi. E i film realizzati nell’anno 2000, considerato ultimo anno del secolo scorso. Da soli, questi ultimi, potrebbero costituire una validissima top 10 a sé stante. Del resto, eravamo ancora nell’età dell’oro.