venerdì 22 dicembre 2017

Parla Rasoulof

Il quotidiano Arab News riporta un’intervista rilasciata via Skype da Mohammad Rasoulof all’agenzia francese AFP. Il regista interviene dalla sua casa di Teheran, essendo confinato in Iran in seguito al ritiro del passaporto comminatogli dalle autorità del paese. Elemento del presunto crimine il film “A Man of Integrity” (Lerd), vincitore della sezione Un Certain Regard al festival di Cannes dello scorso maggio, per i cui contenuti Rasoulof è accusato di propaganda antigovernativa e attività contro la sicurezza nazionale. Il fermo è avvenuto il 16 settembre mentre Rasoulof rientrava dal Telluride Film Festival, negli Stati Uniti.



Queste le parole del cineasta quarantacinquenne.

La corruzione è penetrata in ogni strato della società, va dal fondo della scala sociale fino alla cima della piramide del potere. Gli iraniani vorrebbero lasciarsela alle spalle ma non ci riescono, perché la corruzione è diventata un sistema. Persino i miei amici, che ne sono disgustati, non riescono a liberarsene. Si diventa oppressi e oppressori allo stesso tempo.
Personalmente non so cosa mi succederà, sono completamente all’oscuro del mio destino, ma non mi lascio abbattere da tutto ciò.

Il mio film non può essere proiettato in Iran, mentre io sto aspettando di essere processato. Gli intellettuali del mio paese o si sono arresi, o sono in prigione, o ridotti al silenzio.

Se le persone non mi sostenessero fuori dall'Iran... la mia situazione sarebbe molto peggiore. Quello che mi fa andare avanti è che la gente non mi dimentica. E che il mio film sarà visto.

La società di produzione francese ARP ha lanciato una petizione su Change.org per permettergli di lavorare, viaggiare liberamente e raggiungere la sua famiglia, che vive in Germania da qualche anno.

Di Rasoulof è stato distribuito in Italia un solo film: “L’isola di ferro” (Jazireh ahani). Nel 2010 il regista era stato arrestato insieme a Jafar Panahi e condannato a sei anni di reclusione. Pena ridotta in appello a 12 mesi di con la condizionale.

domenica 10 dicembre 2017

Il voto è segreto, Babak Payami (2001)



Nell'isola di Kish, Golfo Persico, luogo scarsamente popolato, un'urna elettorale viene paracadutata da un aereo. La metafora con cui inizia il secondo lungometraggio di Babak Payami è evidente: per un paese retto da un governo illiberale, la possibilità di cambiare lo status quo con il voto pare una grazia del cielo, un'opportunità che arriva da un altro mondo. Il regista sceglie come responsabile del seggio una donna, opzione altrettanto simbolica e non infondata, se è vero che parliamo della parte più istruita della società. Un soldato, giovane, ignorante, dedito alla repressione del contrabbando, la scorta in mezzo al deserto per raggiungere le persone e farle votare. Supererà i pregiudizi di genere e acquisirà senso civico, pur non capendo benissimo le regole del suffragio.

La questione femminile è centrale nella pellicola, tra donne che pensano che per votare debbano ottenere il permesso del marito e ragazze che si chiedono perché bastino dodici anni per sposarsi però ne servano sedici per partecipare alle elezioni.
"Come si fa a votare con un fucile puntato?", chiede inoltre un elettore riferendosi al militare, ma con un'eloquenza che travalica la specifica scena. Lo zelo con cui una parte della società ci crede, malgrado le tante restrizioni, riflette tuttavia il clima politico di apertura che si respira durante la presidenza di Mohammad Khatami (1997-2005), prima del giro di vite intervenuto con Mahmoud Ahmadinejad (2005-2013).





Essendo il risultato di un'ampia coproduzione internazionale, "Il voto è segreto" (Raye makhfi), nato da un'idea di Mohsen Makhmalbaf (onnipresente come il prezzemolo nel cinema iraniano di inizio millennio) è stato accusato di essere un film ad uso è consumo dei festival (tra l'altro Payami vive in Canada dalla metà degli anni 80). Eppure la coppia di protagonisti, così diversi tra loro, e i piani-sequenza del regista, che diverranno estenuanti nel successivo "Il silenzio tra due pensieri", qui funzionano a meraviglia, e il Leone d'argento per la miglior regia alla mostra di Venezia nonché la messe di premi collaterali sono tutt'altro che immeritati, se è vero che il presidente della giuria Nanni Moretti avrebbe voluto assegnargli il primo premio.

La presenza di tanti italiani, nella troupe coinvolta nella lavorazione, non ha salvato l'edizione nostrana da un doppiaggio scadente.





Di recente il film "Newton" di Amit V Masurkar è stato sospettato di plagio nei confronti della pellicola di Payami. Quest'ultimo e il produttore, Marco Müller, lo hanno però completamente scagionato.