lunedì 30 luglio 2018

Hajji Washington, Ali Hatami (1982)



Nel 1889, l'epilettico Hajji Hossein-Gholi Noori parte in pompa magna dalla Persia per Washington come primo ambasciatore iraniano negli Stati Uniti. A destinazione però, confinato nella vuota e inoperosa ambasciata, soffre di solitudine e nostalgia, è vittima di tanti piccoli equivoci, ha difficoltà relazionali con gli americani. Quando, grazie alla bontà dei pistacchi che offre sempre a chiunque, conquista la simpatia del Presidente Grover Cleveland ("imperatore senza corona"), questi però ha concluso il proprio mandato. Inoltre, l'aver poi offerto asilo politico a un capo pellerossa non aiuta i rapporti diplomatici...

Con stile antinaturalistico, Ali Hatami, nome di punta della prima Nuovelle Vague iraniana nel decennio precedente, si affida sopratutto ai lunghi monologhi del grande attore Ezzatolah Entezami (che abbiamo già incontrato in "The Cow") per far metafora comica e grottesca da un lato delle tensioni tra Iran e Usa ("Hajji Washington"  è di poco successivo alla crisi degli ostaggi dell'ambasciata Usa a Teheran, e viene bloccato per tanto tempo dalla censura), dall'altro lato di una monarchia persiana già in piena decadenza novant'anni prima della sua fine. Un tentativo non del tutto convincente, ma senz'altro degno di nota.

Girato in Italia, conta diversi italiani tra cast e maestranze; in testa lo scenografo, futuro premio Oscar, Gianni Quaranta.

venerdì 20 luglio 2018

The White Meadows, Mohammad Rasoulof (2009)

L'atipico funzionario Rahmat naviga di isola in isola, in uno scenario caratterizzato da distese di sale, per raccogliere e custodire le lacrime delle persone. Che cosa ne faccia, è un mistero. Le trasforma in perle? Al primo approdo, sulla barca a remi sale di nascosto un ragazzo, in fuga alla ricerca di suo padre.


La forza di "The White Meadows" (Keshtzar haye sepid) risiede in due elementi: lo splendore dell'ambientazione, fotografata da un maestro come Ebrahim Ghafori, abituale collaboratore dei Makhmalbaf da "La mela" e "Il silenzio" in poi; la valenza di metafora sociopolitica, insistentemente cercata, non sempre di immediata interpretazione.

Raffigurando un mondo surreale, in preda alla tristezza diffusa e succube di riti superstiziosi ancestrali, che portano al sacrificio dei diversi - tra cui le donne troppo belle - e dei più deboli, il film ha l'ambizione di denunciare i crimini del fanatismo religioso, specie se assurto al potere politico, e di riflettere su repressione, espatrio, libertà dell'artista (in una sequenza, un pittore è costretto sotto tortura ad ammettere che il mare è blu, non rosso come lui lo vede e lo dipinge). Lo fa però con una struttura narrativa piuttosto fragile, il cui sviluppo non è favorito dall'uso parsimonioso dei dialoghi. Che ruolo ha la vicenda del ragazzo e che ne è di suo padre, per esempio, non è affatto chiaro.

Il film esce in concomitanza delle proteste contro la rielezione del Presidente Ahmadinejad. Il regista Mohammad Rasoulof, al terzo lungometraggio, lo accompagna nei festival agitando i vessilli dell'Onda verde. Di lì a poco cominceranno i guai giudiziari per lui e per il montatore di "The White Meadows": Jafar Panahi.

Rasoulof al Festival di San Sebastian