martedì 20 dicembre 2016

The Cow, Dariush Mehrjui (1969)


Sono morto come minerale,e come pianta sorto.
Sono morto come pianta
e ancora risorto come animale.
Sono morto come animale
e risorto come uomo.
Perché temere allora di divenire meno
morendo?
Ancora una volta morirò come uomo.
Per risorgere come un angelo perfetto
dalla testa alla punta dei piedi.
Ed ancora quando da angelo soffrirò la dissoluzione
Io muterò in ciò che supera l’umano concetto.”

Mevlana Jalaluddin Rumi




Metti alla sceneggiatura un importante e affermato scrittore come Gholam-Hossein Saedi, che adatta un suo racconto. Aggiungi un giovane e ambizioso regista (ancora oggi in attività) come Dariush Mehrjui. Poi un grande attore come Ezzatolah Entezami. D'accordo, tutti nomi sconosciuti in Occidente, come poco conosciuto è "The Cow" (circola anche il titolo originale, facile da memorizzare: "Gaav"). Ma stiamo parlando di uno dei due film iraniani più importanti - con il maggiormente noto "The House Is Black" di Forough Farrokhzad - dell'era prerivoluzionaria. E di un capolavoro assoluto della storia del cinema. Vedere per credere.


Cronaca di un amore malato

Se già colpiscono le immagini in negativo dei titoli di testa, lascia il segno ancor più l'incipit: un uomo cosparso di fango viene gettato in acqua e dileggiato da tutti, bambini compresi. Prima sorpresa: è solo lo scemo del villaggio, non è il protagonista.
Quest'ultimo, Mash Hasan, compare nella sequenza successiva assieme alla sua vacca (che è incinta), sulla via del ritorno a casa. Gioca con essa amorevolmente. Un montaggio sincopato, molto libero, e piani ravvicinati sottolineano il divertimento .







L'idillio è interrotto dalla visione, in lontananza, di tre figuri inquietanti in cima a una collina battuta da un forte vento. Sono boloori (dal paese limitrofo da cui provengono), ladri di bestiame, senza dio.





Al villaggio, il film evidenzia spesso la fede devota dei personaggi, che  pregano a voce alta e si abbandonano a nenie religiose. Una di queste ha un verso anticipatore del delirio incombente: "Musulmano il mio cuore stasera è matto". A intonarla è Mash Islam: nome non casuale assegnato al personaggio più saggio e intraprendente del film.

Nella stalla il gioco tra uomo e animale riprende e assume contorni patologici, se è vero che l'uomo si nutre con gioia dello stesso cibo del bovino.

E il dramma sopraggiunge. Mentre Mash Hasan è via, la moglie dà, disperata, la notizia della morte della vacca, piangendo la propria rovina.
Nessun abigeato, dunque: un decesso improvviso. Qualcuno sostiene che siano stati comunque i boloori, altri parlano di punizione divina per i peccati.
Comunque tutto il paese si stringe intorno alla donna. Ma presto sorge un altro problema: cosa dire al protagonista al suo ritorno, per risparmiargli lo shock? Che la vacca è scappata?
La sequenza - magistrale e memorabile - della sepoltura restituisce uno strazio che pare quello del funerale di un martire. "Sciagura", "disgrazia", "calamità" diventano vocaboli ricorrenti nel villaggio.





Lo scemo viene legato per evitare che riveli la verità. Hasan fa ritorno. Appresa la notizia (menzognera) della fuga, diventa letteralmente pazzo. Prima crede di vedere la mucca ancora nella stalla, poi si sostituisce ad essa. "Io non sono Mash Hasan, sono la sua vacca", dice ai paesani. Raggelante la sequenza in cui, in controluce, invoca il padrone affinché la protegga dai ladri.





Le ultime sequenze sono quelle del delirio di Hasan. I paesani sono costretti a legarlo ed arrivano, sotto una pioggia torrenziale, a frustarlo come una bestia. Mash Hasan infine muore. La vita del paese, invece, deve andare avanti, con i suoi rituali.


Fare finta di essere sani

"Professore, questa storia è vera?" Chiedono gli allievi ne "Il cliente" di Asghar Farhadi. L'insegnante risponde: "No, ma in un certo senso sì, le atmosfere e le tipologie di personaggi e le relazioni sono molto, molto vere". "Come si fa a diventare una bestia?" "Con il tempo".
"The Cow" si muove su questo crinale tra realtà e surrealtà. L
a rottura di un equilibrio precario, su cui si basa una comunità che vive ai limiti della sussistenza, produce conseguenze iperboliche.
Quanto può reggere la spiritualità, sottoposta a così dure prove?
Se Hasan, già bizzarro di suo, ha paradossalmente qualche ragione materiale per impazzire
, sono forse sani di mente coloro che vivono seriosamente la quotidiana miseria, senza porsi problemi, ma essendo in preda a paure poco fondate? E che trattano Hasan come una bestia vera nel momento in cui la nuova, immutabile realpostula la sua immedesimazione nella vacca? Allo spettatore, che vorrà immergersi nel capolavoro, la sentenza.


Curiosità

- La metempsicosi è un tema ampiamente diffuso nella filosofia islamica medievale. Nel racconto di Saedi avviene anche un caso di metamorfosi, espunto nella sceneggiatura del film.

- "The Cow" ottiene il premio FIPRESCI alla Mostra di Venezia del 1971.

- Negli anni 80 la Guida Suprema Ruhollah Khomeini indica "The Cow" come esempio da seguire per chi vuol fare un cinema di qualità. Tradotto: non censurato. Insomma, non tutto il cinema è peccato, nella Repubblica Islamica. Una dichiarazione che dà il la a una nuova generazione di autori, capaci di andare da un lato oltre la propaganda, dall'altro oltre i confini nazionali.




giovedì 15 dicembre 2016

Lavagne, Samira Makhmalbaf (2000)

   
LA CULTURA CI SALVERÀ: SAMIRA MAKHMALBAF IN LAVAGNE (2000).

di Alessandro Arpa

Vi sono luoghi in cui vivere è un diritto riservato a pochi, dove si migra perennemente alla ricerca della propria casa con la speranza che non ci siano ospiti indesiderati o una raffica di colpi ad attentare la propria esistenza. Ambientato durante la “Guerra imposta” (La guerra Iran-Iraq), “Lavagne”, con un immancabile approccio etnografico, traccia, indirettamente, i resoconti di una guerra ingiusta indugiando su ciò che era ed ora è rovina e, fornendo, un limpido ritratto dell’ostica situazione del confine tra Iran e Iraq. Il secondo lungometraggio di Samira Makhmalbaf, vincitore del premio della giuria al 53° Festival di Cannes, proprio come l’inizio di La mela (1998), differisce dal resto del film e trasuda realtà grazie ai movimenti di macchina a mano che introducono i veri protagonisti dell’opera: una milizia di insegnanti. Tra questi vi è Reeboir che, con una lavagna in spalla, erra tra le nude colline iraniane alla ricerca di studenti a cui insegnare a leggere e a scrivere. Eppure, si sa, l’insegnamento si riduce ad un sogno tramortito perché dove gli schioppi parlano, la cultura tace. E le scene iniziali testimoniano le numerose difficoltà: un aereo sorvola l’area percorsa dagli insegnanti che, utilizzando le lavagne come scudo, creano una sorta di bunker culturale alle minacce dei minus habens. Seppure banale, l’associazione dello stormo che gracchia come anticipazione all’imminente grandinata di proiettili è adeguata e riuscita [Figura 1/2]. Per evitare di essere intercettati dagli aerei di guerra, i maestri decidono di mimetizzarsi con la monocromia dei clivi spargendo della terra sull’ardesia [Figura 3]. Anche la cultura si militarizza.



Separatosi dal gruppo degli insegnanti, Reeboir continua la sua disperata peregrinazione. Ma il vagabondaggio sconsolato è rincuorato dall’incontro di una carovana. Ed ecco che nella narrazione s’intromette prepotentemente il racconto della diaspora umana. Un gruppo di civili è stato costretto ad abbandonare il proprio villaggio, distrutto dai bombardamenti. Il loro sogno è ritornare lì dove, ora, regna la pace perché, si sa, le macerie non stuzzicano l’appetito della Distruzione. Essa avanza, furtivamente, senza mai voltare le spalle. A guidare la fiumana alla sua sorgente è Reeboir, l’unico a conoscere il sentiero per arrivarci. Durante il periglioso viaggio, il maestro tenterà di insegnare le basi ai bambini ma la sopravvivenza renderà il tutto più complesso. L’educazione diventa quasi superflua ed un inutile peso. Infatti, un bambino cade fratturandosi la gamba e l’unico rimedio veloce per lenire il dolore consiste nel rompere la lavagna e usarla come sostegno [Figura 4/5]. 

 
Il gruppo, dopo aver affrontato le desertiche alture, giunge finalmente al confine dove lo attende il pericolo più grande: l’uomo. Dei soldati sorvegliano il territorio e sparano a vista. Superare il valico sembrerebbe impossibile. Un imprevisto passaggio di un gregge accende l’arguzia umana. Inginocchiati come delle pecore, i disperati tentano di eludere le guardie in un commovente inno alla vita.
Samira Makhmalbaf predilige, anche nel suo secondo lungometraggio, uno stampo documentaristico. La cinepresa segue la fatica dei corpi, scruta la sofferenza dei volti e, attraverso i campi lunghi, dipinge splendidamente il rapporto uomo-natura. L’occhio della macchina segue gli impervi fianchi della collina e la traversata degli uomini che, in alcune scene, ricordano l’inizio di “Aguirre, furore di Dio” (1972) di Herzog [Figura 6/7/8].








La drammaticità del racconto è smorzato dalla liaison amorosa tra Reeboir e Halaleh, una vedova con un bambino. La freschezza del piccolo concorre ad alleggerire la tragedia raccontata. Ma il tema principale su cui si fonda l’intero film è la speranza che risiede nella cultura. Istruirsi è una funzione sociale perché è l’unica via per migliorarsi e risollevare le sorti di un Paese sconfitto.
Anche in “11 Settembre 2001”, nel segmento –IRAN-, Samira Makhmalbaf ritorna su questo tema. Mentre la popolazione si adopera per costruire rifugi contro i bombardamenti, una maestra richiama a sé tutti i bambini. Rivolgendosi alla classe improvvisata, racconta l’attentato alle torri gemelle e come il mondo sia scosso dall’episodio. Per spiegare ai bambini, vissuti da sempre in una realtà rurale come quella del confine con l’Iraq, cosa fossero le torri, la maestra crea un paragone con un’alta ciminiera [Figura 9]. La ripresa dal basso della ciminiera e il ponte dall’indubbia stabilità, su cui vi sono la maestra e l’intera scolaresca, sono scelte registiche chiare che rimandano al pericolo imminente della guerra. La giovane insegnante, quindi, invita i bambini a rispettare un minuto di silenzio per tutte le vittime dell’attentato ma, non sapendo come portare il tempo, s’inventa un orologio stilizzato disegnato sulla lavagna [Figura 10]. A commentare l’atto terroristico sono i bambini, rappresentanti di due dottrine contrastanti. Da una parte c’è chi crede che il tragico episodio sia un castigo divino mentre, dall’altra parte, vi è una ragazza, che nella sua totale innocenza ritiene che non possa essere stato Dio a distruggere le torri proprio perché non possiede aerei. Il colpevole, quindi, è l’uomo, naufragato, l’ennesima volta, sulle sponde della crudeltà. 




 
 


domenica 11 dicembre 2016

Facing Mirrors, Negar Azarbayjani (2011)

Opera prima della regista, classe '79 (la seconda è in post-produzione), e primo film iraniano di fiction a tematica transgender. Per qualcuno è uno dei migliori film iraniani degli ultimi 15 anni.




Una vicenda con due protagonisti: Eddie, nato Adineh (specifichiamo che è un nome femminile) e Rana. Due persone di estrazione sociale diversa e con problemi diversi. Il primo ha una condizione economica agiata; ha iniziato la cura ormonale per diventare uomo ma, orfano di madre, si scontra con la transfobia del padre ("tutti hanno figli, io ho problemi"), che gli vuole imporre il matrimonio con il cugino. Attende così il passaporto per espatriare di nascosto e operarsi. La seconda è alle prese con problemi economici. Il marito Sadegh è in carcere, ci sono piccolo Ali da mantenere e le rate dell'automobile. Per farvi fronte, all'insaputa di Sadegh fa la taxista come secondo lavoro, accettando a bordo solo donne. Si imbatte così in Eddie, costretto ancora a girare con fattezze femminili. Rana pensa che la misteriosa ospite sia coivolta in traffici loschi. Quando le viene rivelata la verità lo shock è tale da farle causare un incidente. Ma è l'inizio di una relazione dapprima difficoltosa, che sfocerà in complice e affettuosa amicizia.






Se il tema motore del racconto è uno ed è chiaro, l'autrice lo svolge non solo con parteciprazione, ma anche con la capacità di evitare le trappole retoriche intrinseche e gli schematismi (salvo in una sequenza parecchio forzata: Rana che rimprovera Ali per aver indossato un hijab). Innanzi tutto sa bilanciare l'attenzione sui due personaggi principali, sottolineando più volte, grazie alla struttura dello script, come il focus non sia esclusivamente sul transessuale: anzi il percorso interiore è più marcato in Rana, di cui il film svela il passato, ma costruisce anche la maturazione: l'incontro con Eddie produce dapprima repulsione violenta, poi capacità relativa di comprensione - senza superamento di alcuni pregiudizi culturali e religiosi - fino alla propositività nell'aiutare concretamente la persona cara. Lo sguardo su Eddie è invece principalmente retrospettivo e proiettato più sull'azione (l'espatrio) che sulla crescita psicologica, presumibilmente già avvenuta.

La compenetrazione delle due vicende è esplicitata, oltre che nel titolo, nelle due sequenze d'apertura, dedicate una a ciascuno, con l'audio della seconda che però si insinua nella prima. Ma anche, in seguito, nel momento più poetico della pellicola: dopo l'incidente e la dimissione di Rana dall'ospedale, i due si raccontano le proprie miserie in dialoghi fuori campo perfettamente alternati, mentre la macchina da presa sorvola i dintorni innevati di Teheran.
Negar Azarbayjani ha poi la capacità indubbia - non è un luogo comune! - di rendere la storia universale, potenzialmente ambientata ovunque, al netto delle peculiarità normative locali.
     
Il padre di Eddie è interpretato da Homayoun Ershadi. Tutti lo ricordiamo come indimenticato protagonista de "Il sapore della ciliegia". Fu il suio debutto: Abbas Kiarostami cercava un non professionista e scelse lui, che in seguito ha intrapreso una regolare carriera d'attore. Lo incroceremo nuovamente. 




martedì 6 dicembre 2016

Breve viaggio nel documentario iraniano: la modernità spara alla tradizione

Del vecchio ciò che resta è il piacente profumo di una cultura secolare. Gli abbagli del passato, lievemente smorzati dagli sguardi dei posteri, sono i principali temi trattati dai documentaristi iraniani. Nel 1960, Fereydoun Rahnema realizza “Persepolis”, basato sull’opera epica Il libro dei re (Shāh-Nāmeh) di Ferdowsi. Le silenti rovine di Persepoli narrano la storia del principe Siyâvash costretto a fuggire dalla sua patria per evitare il disonore. Siyâvash sposa la figlia di Afrasiab, re di un piccolo villaggio, ma, viene tradito, è assassinato. Come una guida museale, la cinepresa s’insinua tra le colonne, evita le ombre e celebra le figure dei Medi sulla roccia. S’indugia ancora sul capitello a forma di grifone e, mentre ci si perde tra le bellezze del sito archeologico iraniano, una voce racconta la storia. Seppure realizzato con pochissimi mezzi, l’opera di Rahnema celebra meravigliosamente l’Iran e la sua Storia.

Anche in “Oh Guardian of Deer! (1970) di Parviz Kimiavi, si scava nella tradizione religiosa del Paese. Nella città di Mashhad, è collocato un santuario dedicato all’ottavo Imam Reza, chiamato il “guardiano dei cervi” perché, la leggenda vuole, salvò un cervo inseguito da un cacciatore. Ogni anno, un numero sconsiderato di pellegrini affluisce al luogo religioso. Il lavoro di Kimiavi non è una banale riproposizione del fanatismo religioso né un footage dell’arrivo dei fedeli al sacro reliquiario. Il regista persiano scruta il luogo, indaga il suo spazio, percorre le stanze del santuario tra scintillanti tesori e rare gemme. Le alte volte separano la sacralità al mondo profano dei fedeli. Trafitto, lo spazio si riempie della voce dei fedeli e del suono monocorde delle loro preghiere. Se la prima parte del film si sostanzia dei particolari delle mani e, successivamente, dei piedi dei fedeli; la seconda parte della pellicola è dominata da un suono derivante dall’atto purificatorio di schiaffeggiarsi il petto nudo.

Ma la tradizione deve scontrarsi con l’esasperato progresso del Paese. “A Fire” (1961) ne è la prova. Realizzato da Ebrahim Golestan, uno dei più celebri documentaristi iraniani, e montato da Forough Farrokzhad, “A Fire” mostra la trivellazione del territorio vicino la città di Ahwaz alla ricerca del petrolio. L’oro nero è la massima risorsa dell’Iran eppure è considerata da Golestan come un dono della morte. Infatti, il fuoco si sposa col paesaggio, lo ingloba a sé e ne divora la prole. L’umanità, sua figlia, è immersa dalle fiamme in un’immagine che ritornerà anni dopo in “Apocalisse nel deserto” (1992) di Herzog [Figura 1]. Il documentario, quindi, evidenzia le scelte nefaste dell’uomo e le tragiche conseguenze.




Kianoush Ayari, invece, gira “The Newborns”, in cui dipinge il cambiamento culturale che contraddistinse la società di Teheran nei cinque mesi successivi alla rivoluzione del 1979. Per le strade, l’immagine popolare di Arafat è sostituita da nuovi miti come Bruce Lee o Che Guevara [Figura 2/3/4], i vicoli si riempiono di libri, di imbonitori e abili oratori (basti pensare a Miss Zahra, celebre fondamentalista religiosa conosciuta con il nome di Basijis). Se il progresso in “A Fire assume tinte fosche, nel lavoro di Ayari, invece, la nuova ondata culturale fa risorgere Teheran dalle sue ceneri e ciò che viene offerta è una rappresentazione felice e goliardica del Paese e dei suoi abitanti.






Merita un discorso a parte “The House Is Black” (1963) di Forough Farrokzhad. L’opera della regista è stata definita da Jonathan Rosenbaum come il miglior film iraniano mai realizzato perché dipinge, con poesia, la dura realtà di una comunità di lebbrosi. Scanditi dalle poesie dell’autrice, lette dalla sua solenne voce, i volti dei lebbrosi si esibiscono mostrando i sintomi della malattia che li affligge. Sfigurati dal morbo, essi abitano in una piccola colonia, non ancora accettati dalla società. Eppure si tenta una difficile integrazione. Il processo di normalizzazione passa, anche, attraverso i gesti comuni che, a differenza dei lebbrosi, chiunque farebbe senza enormi difficoltà. C’è, ad esempio, chi fuma nonostante non abbia più una cavità nasale o una donna che elude le complicazioni della malattia truccandosi, perché la ricerca della bellezza è un diritto di ciascun individuo [Figura 5/6]. 

 

"The House Is Black" è volutamente drammatico e le immagini proposte sono, a tratti, crudeli ma ritraggono fedelmente lo stato degli infermi. È un tentativo di svelamento di una condizione che esiste ma spesso è marginalizzata ed accantonata. Perché anche loro sono uomini e non meritano assolutamente di essere gettati nelle fauci edaci della Dimenticanza.


Alessandro Arpa



I film sono visibili qui

giovedì 1 dicembre 2016

Acqua, vento e sabbia, Amir Naderi (1989)

Nel 1989, all'ultimo film nella terra natia – ultimo per ora e per sempre, visto che sostiene non si debba mai tornare indietro, nella vita – il quarantatreenne Amir Naderi prosegue il percorso cominciato quattro anni prima con il film 'gemello' "Il corridore" (1985) verso un cinema fortemente improntato su rumori e luoghi e pochissimo sui dialoghi, che mette l'uomo, più spesso l'adolescente, di fronte agli elementi della natura e alle proprie necessità primarie, collocandolo in realtà estreme per esasperarne gli sforzi di adattamento. Con evidenti echi autobiografici. Un linguaggio avanzatissimo (ancora oggi), che sarà proprio di tutto il suo cinema a venire, compreso il recente "Monte", girato in Italia e uscito da poco nelle nostre sale.





La personale nouvelle vague di un autore già affermato


Prima di addentrarci in "Acqua, vento e sabbia" facciamo un passo indietro. Amir Naderi cresce, orfano, con la zia nella città industriale di Abadan, nel sud dell'Iran. Abbandona prestissimo gli studi ed è costretto in tenera età a lavorare. La sua formazione intellettuale è costituita quasi esclusivamente dalla visione famelica di una miriade di film.

Quando debutta come regista, ottiene presto un vasto successo con film di genere e di taglio politico ambientati nella capitale Teheran. Con "Tangsir" scrittura Behrouz Vossoughi, massima celebrità a queste latitudini. Sono gli anni 70 e il giovane Naderi è già, con Masoud Kimiai, il più importante regista del paese, almeno in questa fase. Gli sconvolgimenti portati dalla fine del decennio e dall'incedere di quello nuovo (rivoluzione teocratica, "guerra imposta" con l'Iraq), sono raccontati da Naderi in due documentari (“Search I”, 1980 e “Search II”, 1981) preceduti da un primo tentativo di emigrazione negli Usa (“Made in Iran, Made in America”, 1978).


(Tutto ciò, e tutto il resto della sua produzione giovanile è pressoché introvabile, anche con sottotitoli in inglese. Care cineteche e case di distribuzione, non vogliamo porre rimedio, data l'importanza dell'autore?)





La svolta del 1985 è radicale: "Il corridore" segna l'approdo al nuovo linguaggio. "Acqua, vento e sabbia" ne prosegue il discorso stilistico e tematico. Il giovane attore protagonista  è lo stesso impiegato nel film precedente (non ne farà altri): Majid Nirumand. Il personaggio non ha nome. La sua voice over ci dice che, lasciato il lavoro, sta tornando al paese natale, in mezzo al deserto, per aiutare la famiglia, che però si è spostata a causa del prosciugamento del lago, mentre il borgo è pressoché sparito. Affidata ad abitanti locali la capra che aveva portato come omaggio, il Nostro parte alla ricerca dei suoi cari.

Il vento non smette di spirare neanche per un istante, la sabbia del deserto ostacola incessantemente il protagonista. Lo spettatore è immerso in un costante sottofondo sensoriale, per cui la visione e l'ascolto sono disturbati senza soluzione di continuità, dall'inizio alla fine. All'interno di una apparente compattezza stilistica, Naderi sfoggia un ampio repertorio tecnico: scala dei piani sfruttata in tutte le potenzialità, raccordi sull'asse e falsi raccordi, movimenti di macchina, ralenti, addirittura replay, per cui un film apparentemente statico cela innumerevoli modalità differenti di racconto; allo stesso modo l'esile trama principale nasconde capitoli autoconclusivi.

Ciò che emerge è un'umanità provata. Che però spesso solidarizza, come chi offre indicazioni, cibo, rifugio sotto le tende al nostro eroe; come quest'ultimo che, approdato a una delle rare fonti, condivide l'acqua con un motociclista. Ma c'è anche chi spreca la risorsa più preziosa lavando l'automobile, c'è il momento in cui il Nostro spera che di un bebè abbandonato si occupi qualcun altro (mentre al contrario dà da mangiare alle vacche, o corre disperato per portare alla sorgente due pesci fuoriusciti da una boccia rotta: gesto enfatizzarto da ralenti e commento musicale). Niente manicheismi né banalizzazioni, solo la complessa realtà di un mondo sfaccettato, in cui uomini e animali condividono la stessa sorte.


Agonia e miracoli in un mondo allo stremo


Alla ricerca di aiuto per un uomo quasi sepolto dalla sabbia, il protagonista si perde in una regione impervia e totalmente arida. Comincia a scavare con foga - immortalato da memorabili contre-plongée - ma con sempre meno forze, alla disperata ricerca di acqua. È l'ultima parte, magistrale e definitiva; l'archetipo dell'uomo solitario innanzi allo spettro della morte; alternato, in un montaggio alla Ejzenstejn, a sequenze in cui cani si contendono una carogna, e a immagini di teschi, ossi e carcasse. Finché il protagonista, sfinito, trova chissà dove le energie per scavare con violenza: segnale che anticipa il miracolo vero e proprio: un'inondazione, accompagnata dalla Quinta Sinfonia di Beethoven.



Quanto c'è di allegorico, in un racconto che ha un qualcosa di biblico? Di sicuro non possiamo parlare di realismo tout-court, visto il finale. La riflessione sulle sorti del pianeta pare evidente, tra scarsità di risorse, lotta per accaparrarsele, sprechi, cooperazione, ma in ultima istanza fiducia in Dio.

Tuttavia l'aspetto autobiografico è senz'altro preponderante, dato che stiamo parlando di un cineasta che sceglie di chiudere con questo film l'attività in patria, e di proseguire in giro per il mondo (con base negli Stati Uniti) l'indagine sui limiti dell'uomo. Sappiamo dalle sue dichiarazioni che non è una scelta causata da fattori politici, per cui possiamo scartare l'ipotesi di lettura di questo film come di una metafora dell'Iran, ridotto allo stremo dalla guerra e dagli ayatollah.

Acqua, vento e sabbia” rappresenta invece, senza ombra di dubbio, la ricerca dell'essere umano, ma soprattutto dell'uomo Amir Naderi, di un senso della propria esistenza; un percorso che parte dalla necessità materiale di sopravvivere (tema ricorrente in altri suoi film è il bisogno di denaro). In un mondo arido, la fatica dell'emigrante che, lontano dagli affetti, può contare quasi soltanto sulle proprie forze. Miracoli a parte.