sabato 4 dicembre 2021
The Deportees 2 (Masoud Dehnamaki, 2009)
giovedì 2 settembre 2021
Figli del sole (Majid Majidi, 2020)
Dopo vent'anni ritorna nelle sale italiane un lavoro di Majid Majidi, importante regista di film sull'infanzia, autore degli apprezzati "I bambini del cielo" e "Baran" che tuttora vengono trasmessi dalla rete TV2000. Con "Figli del sole" (Khorshid) il regista, l'anno scorso, ha partecipato per la prima volta al concorso principale della Mostra di Venezia, aggiungendo un brillante capitolo alla sua luminosa carriera.
La storia è quella di Ali Zamani (intepretato da Rouhollah Zamani, premio Mastroianni per il miglior giovane attore emergente), un ragazzino dedito alla delinquenza per conto del boss del narcotraffico del quartiere (impersonato da Ali Nassirian, uno dei più grandi attori iraniani di sempre, visto tempo fa in Italia ne "L'isola di ferro"). Ali, insieme ai suoi amici Abolfazl, Mamad e Reza, dopo essere stato scoperto armeggiare in un parcheggio sotterraneo, viene redarguito dal boss per aver rubato una colomba dal suo allevamento (di copertura dell'attività criminale). L'uomo lo perdona, ma in cambio Ali dovrà scavare un tunnel che dai sotterranei della scuola "Sole", porti a un tesoro nascosto sotto il limitrofo cimitero.
Per riuscirci, con i suoi amici deve iscriversi all'istituto, che però è in difficoltà economiche, senza più fondi pubblici, retto solo da donazioni private e dalla buona volontà del direttore e del maestro Rafi, che, grazie alla gratuità dell'iscrizione, strappano alla strada decine di fanciulli provenienti da contesti complicati. I quali li ricambieranno "occupando" la scuola sotto sfratto (un insegnamento del film è che le regole ingiuste non vanno rispettate) e partecipando a una gioiosa ma sfortunata festa di finanziamento. Intanto, la ricerca del tesoro, armata di piccone e trapano, prosegue di nascosto. Avrà un esito deludente, ma per fortuna non tragico.
Questo film è dedicato ai 152 milioni di bambini vittime di sfruttamento minorile e a tutti coloro che lottano per i loro diritti; così recita la didascalia iniziale. Il lavoro dei protagonisti, operai presso un gommista, è però soprattutto la piccola criminalità, mentre "Figli del sole" è il racconto di un quartiere difficile e di chi lo popola, osservato col consueto punto di vista di un autore (anche sceneggiatore insieme al regista di "Melbourne" Nima Javidi) fortemente religioso. Indicativa di tale ispirazione, nonché elemento ricorrente nei film di approccio analogo, è la rappresentazione di un ambiente piagato dalla miseria, in cui assenti, per i protagonisti - già fragili in quanto bambini - sono casa e famiglia, e in particolare la figura paterna. I padri di questi "figli del sole" sono dediti alla tossicodipendenza o alloggiano in galera. Ali, il suo, lo fa passare addirittura per morto, mentendo. Sua madre è ricoverata (il boss promette di farla dimettere). Gli amici scontano condizioni simili. La sorella di Abolfazl, Zahra, vende piccoli oggetti in metrò; la loro famiglia rischia di finire in un campo profughi afgano. (Ahinoi il tema del destino di questo popolo è tornato prepotentemente d'attualità). La loro infanzia è soffocata nella sua essenza giocosa, fatica a riaffiorare.
Per il regista la politica non è una soluzione. Infatti, il generoso e disinteressato Rafi viene contrapposto al severo burocratico direttore; a quest'ultimo è demagogicamente riservata l'"onta" di volersi candidare al consiglio cittadino, salvo poi redimersi e strappare i manifesti elettorali. Ma ancor minore è la fiducia nell'ingiusto sistema carcerario, che umilia Zahra in alcune delle sequenze più toccanti, girate con ricorso a fuori campo, ombre e penombra, in quelli che sono piccoli saggi di etica di uno sguardo che rifiuta l'esibizione della violenza.
È però il cielo, dove splende anche il sole del titolo, un'ulteriore, supremo livello. Assistiamo a tante inquadrature a piombo e controcampi dal basso, e sono tra le sequenze più poetiche del film. Le colombe vengono liberate verso il cielo. Gli alunni lanciano gli zaini in aria, oltre i cancelli della scuola. Nella sequenza conclusiva, mentre Ali sta riprendendo coscienza al termine dei suoi scavi, dopo momenti di schermo nero è dapprima inquadrato dall'alto, poi, dal basso, vede la luce. Inoltre, il percorso del fanciullo è agevolato dall'arresto, che potremmo definire provvidenziale, dei narcotrafficanti. Siamo certi che Majidi, che è l'artefice di un film su Maometto, che di recente ha chiesto al clero di appoggiare maggiormente un cinema autenticamente islamico, non ha effettuato a caso tali scelte di scrittura e regia.
Consigliato soprattutto ai nostalgici del vecchio cinema iraniano sull'infanzia, ma che non disdegnino ritmo e avventura, "I figli del sole" sta intanto avendo un grande successo in patria. Vedremo presto se lo replicherà nel difficile mercato italiano.
Qui il pressbook del film, con un'intervista molto interessante all'autore.
Qui per trovare l'elenco delle sale che lo proiettano.
sabato 21 agosto 2021
Quando i registi iraniani osservano l'Afghanistan
Breve guida ai film dei registi iraniani che trattano il tema dell'Afghanistan, tornato drammaticamente in auge. Quali sono e dove vederli in edizione italiana.
La famiglia Makhmalbaf ha dedicato un periodo rilevante della sua attività alle macerie lasciate dai talebani e dalla guerra, nel paese confinante con l'Iran.
Il celebre "Viaggio a Kandahar" (Mohsen Makhmalbaf, 2001) racconta di una giornalista canadese di origine afgana che va alla ricerca di sua sorella, lungo un territorio piagato dalle mine anti uomo. Stesso anno e stesso regista per l'ottimo "Alfabeto afgano", sul tema dell'educazione religiosa dei bambini. I due lavori sono racchiusi in un unico dvd in edizione italiana.
Esiste poi la questione dei quasi 3 milioni di afgani emigrati in Iran. Tre film in particolare la affrontano.
"Il ciclista" (1987) del solito Mohsen Makhmalbaf è il potente racconto di un uomo che pedala ininterrottamente per scommessa, per pagare le cure della moglie. È stato trasmesso qualche volta da "Fuori orario" su Raitre.
"Djomeh" (2000), diretto da Hassan Yektapanah, premiato per la migliore opera prima a Cannes, narra di un ingenuo lavoratore ventenne che ha lasciato l'Iran per amore. Uscito anche al cinema in Italia, è però ormai disperso.
"Baran" (2001) di Majid Majidi è la commovente storia di una ragazza che si traveste da uomo per poter lavorare in un cantiere di Teheran. Da recuperare, eventualmente in dvd
Tenete d'occhio la programmazione di TV2000, che ogni tanto trasmette alcuni di questi film.
Infine, consultate le biblioteche: conservano copie dei dvd fuori catalogo.
sabato 27 febbraio 2021
Baran (Majid Majidi, 2001)
Majid Majidi nasce a Teheran nel 1959. Dopo un apprendistato presso il Circolo artistico per l'organizzazione della propaganda islamica, dove fa anche l'attore e ha modo di collaborare ai film giovanili di Mohsen Makhmalbaf, passa alla storia per essere stato il primo regista iraniano a raggiungere la shortlist degli Oscar per il miglior film straniero con "I bambini del cielo" (1997), ultimo successo internazionale del mitico istituto pedagogico Kanun. Manterrà sempre, anche nel recente "Sun Children", di nuovo in corsa per gli Oscar, una chiara etica religiosa, caratterizzata dall'attenzione per i drammi degli umili, spesso bambini o adolescenti. Assumerà inoltre posizioni alquanto istituzionali, tanto da essere chiamato a dirigere un kolossal su Maometto.
Con "Baran" (2001), Majidi affronta i temi del caporalato e dell'immigrazione. Una didascalia in apertura annuncia in particolare il dramma dell'Afghanistan, che dice essere cominciato con l'invasione sovietica del 1979, proseguito con il duro regime dei talebani e con la siccità. Attualmente - conclude la didascalia - l'Iran ospita 1,5 milioni di profughi. Il tema non è insolito nel cinema iraniano, essendo affrontato più volte dalla famiglia Makhmalbaf e, l'anno prima del film di Majidi, da "Djomeh" di Hassan Yektapanah.
Il cantiere multietnico di Teheran in cui è ambientato il film è diretto dal caporale Memar con piglio paternalistico. L'uomo ha toni burberi, paga discrezionalmente e in ritardo le maestranze, ma è capace anche di slanci di generosità. Il protagonista Latif è invece un ragazzo azero iraniano diciassettenne, sveglio e furbo, che svolge lavori scarsamente impegnativi, come fare la spesa o preparare il tè per gli operai. Gli piace scherzare, facendo anche arrabbiare i colleghi, e lo fa perfino quando l'afgano Najaf ha un incidente che gli costa la frattura a un piede e l'impossibilità di continuare a lavorare. Al posto dell'infortunato arriva quello che viene presentato come suo figlio, di nome Rahmat. Sembra un ragazzo gracile; non parla, il suo accompagnatore Soltan risponde alle domande per lui. Giunge anche un'ispezione, con l'intento di capire quanti afgani irregolari lavorino nel cantiere.
Latif insegna al nuovo arrivato a portare sulla schiena i sacchi di calce, ma uno di questi è troppo pesante e il lavoratore lo rovescia, "imbiancando" un collega. Ne segue un parapiglia, cui Memar mette fine affidando a Rahmat le mansioni di Latif, spostato a fare il manovale. Quest'ultimo si vendica in vari modi con Soltan e Rahmat, che dal canto suo risistema e abbellisce il vano adibito a cucina - separato dal resto del cantiere da una tenda - mentre gli operai si godono l'ottima qualità del tè e del cibo.
Ad un tratto, mentre il separé è mosso dal vento, Latif intravede, specchiata, l'ombra di Rahmat che si pettina i lunghi capelli e capisce che si tratta di una ragazza. L'impossibilità, dovuta alle regole censorie, di mostrare il capo femminile scoperto produce così una delle sequenze più poetiche e memorabili del cinema iraniano tutto.
La prima svolta è giunta a un terzo del film. Latif inizia a essere gentile con la ragazza, si veste a festa, la spia felice, sorridente, con la testa tra le nuvole. Tuttavia, se prima tutti la trattavano bene, ora qualcuno le è ostile. Con questo schematismo ingiustificato di sceneggiatura, il regista porta a compimento la metamorfosi di Latif, che può ergersi a difensore dell'amata.
L'incanto però non dura molto: la ragazza viene catturata dagli ispettori fuori dal cantiere, nonostante i tentativi di Latif di impedirne l'arresto (la sua corsa al ralenti rimanda al finale de "I bambini del cielo"). Per evitare ulteriori problemi, il caporale riscatta i detenuti, ma decide di licenziare tutti gli afgani. Con la seconda svolta nel racconto, inizia l'andirivieni di Latif, che cerca in tutti i modi di portare soldi alla famiglia della ragazza, come pretesto per rivederla, rimediandoli in modi disparati e consegnandoli adducendo pretesti vari. Quando vende il proprio documento, l'acquirente strappa vistosamente la fototessera, a simboleggiare come il giovane sia disposto a rinunciare a tutto, anche alla sua identità.
Latif e la ragazza qualche volta si intravedono unilateralmente. Egli la scorge mentre lei serve cibo nel campo profughi e quando lavora raccogliendo massi dal fiume, dove cade e sbatte la schiena, mentre Latif non cede all'impulso di intervenire in soccorso. Origliando dietro alla porta di casa sua, scopre che si chiama Baran. Ed è proprio sulla soglia che finalmente i loro occhi si incrociano, mentre la giovane è avvolta nel chador e si schermisce chiudendo la porta. Tutto il film, a ben vedere, è un emozionante gioco voyeristico di sguardi, unidirezionali o incrociati, obliqui e attraverso gli usci.
L'inseguimento del povero Latif si conclude con la partenza di Baran per l'Afghanistan. Egli le dà una mano a caricare il camion con gli oggetti che le sono caduti; la ragazza gli concede finalmente un sorriso, perde una scarpa, Latif la aiuta a indossarla. Baran, che fino ad ora si è coperta solo il capo, cala sul volto il burqa, indumento tipico afgano, e si avvia. Latif sorride. Simbolicamente la pioggia - che in persiano si dice "baran" - cancella l'orma della ragazza e così si completa un finale splendido e indimenticabile.
La linda bellezza di una regia per altri versi ordinaria eleva una sceneggiatura che può apparire forzata nella prima, decisiva svolta. È sufficiente la presenza di una ragazza - che per altro non profferisce una sola parola per tutto il film (e questo sicuramente accresce il suo fascino misterioso) - perché il protagonista si innamori perdutamente, oltre a mettere la testa a posto e a scoprire il proprio lato romantico? Lo storico del cinema iraniano Hamid Naficy solleva il tema dell'ambiguità sessuale - che potrebbe essere la risposta a questa domanda retorica -, notando tra l'altro che "Latif" significa "delicato" o "bello". Il ragazzo sarebbe attratto irresistibilmente dall'aspetto androgino di Rahmat/Baran.
Uscito al cinema doppiato in italiano, poi in dvd, per anni è sparito dai radar. Ora, ogni tanto, viene trasmesso da TV2000.
Curiosità: ho trovato una foto recente di Zahra Bahrami, la donna che interpreta Baran (gli attori del film sono tutti non professionisti).
domenica 6 dicembre 2020
Golnar (Kambuzia Partovi, 1988)
Post in memoria di Kambuzia Partovi, personalità versatile e amata del cinema iraniano, che ci ha lasciati prematuramente lo scorso 24 novembre. Era ricoverato per problemi cardiaci ed ha contratto il COVID-19.
Attivo anche nel teatro, Partovi ha diretto importanti film come "Border Cafè" (2005) e documentari televisivi. Da sceneggiatore, ha firmato tra gli altri il "Maometto" di Majidi, il celebre "I'm Taraneh, 15" di Rasul Sadrameli e "Come pietra paziente" di Atiq Rahimi.
Come autore di film per l'infanzia, realizzati a inizio carriera, Partovi è stato uno dei più influenti. Tra questi figura "Golnar", sua opera prima; una delicata fiaba con attori in carne ossa e pupazzi zoomorfi.
Il titolo è il nome di battesimo della protagonista, una fanciulla di campagna che vive coi nonni. Un giorno il vento le porta via il fazzoletto azzurro che era di sua madre. La giovane si perde nella foresta, finché non trova riparo in un casolare di legno abitato da una coppia di orsi. Mentre Signor Orso la costringe a lavorare, con Signora Orsa nasce un certo affetto. Intanto una simpatica rana ficcanaso dispensa consigli e aiuta Golnar a fuggire. Dopo aver cucinato, tagliato i tronchi degli alberi, essersi ammalata, ricordato con nostalgia momenti di vita del villaggio, la bambina infatti si nasconde in una cesta portata in spalla da Signor Orso. Intanto il fazzoletto, trasportato da un ruscello, viene ritrovato dai nonni, che stavano perdendo la speranza di rivederla. È il preludio al ritorno a casa.
Con canzoni dalle melodie gradevoli e una fattura tecnica di lampante semplicità - dovuta forse a una certa povertà di mezzi - che però ispira simpatia, "Golnar" è un'opera che, a differenza di altri lavori della cinematografia nazionale di diversa produzione, non usa i pargoli per parlare agli adulti dei problemi sociali, ma si rivolge esclusivamente ai più piccoli, incantandoli.
Dal backstage del film, Jafar Panahi ha realizzato la propria tesi di laurea in cinema. Sono così iniziate una lunga amicizia e una collaborazione culminata con "Closed Curtain" (2013, diretto e interpretato da entrambi), transitata per "The Fish" (1988-1991, regia di Kambuzia con l'assistenza di Jafar) e per il successo internazionale de "Il cerchio" (2000, regia di Panahi, sceneggiatura di Partovi da un soggetto dell'amico).
"Golnar" è disponibile su IMVBOX con sottotitoli.
domenica 24 febbraio 2019
Djomeh, Hassan Yektapanah (2000)
Il ventenne Djomeh racconta al datore di lavoro, l'allevatore Mahmoud, il motivo per cui ha lasciato il suo paese, l'Afganistan: non per soldi, non per la guerra, ma perché era innamorato di una donna di dodici anni più grande e le famiglie si sono opposte alla relazione. Djomeh gira per la campagna e prende confidenza con le usanze dell'Iran. Si invaghisce della ragazza che lavora in un negozio di alimentari e altre merci, dove si reca di continuo sottraendo tempo al lavoro e sperperando denaro. Giunge a chiederle di sposarlo, nonostante le diffide del suo collega e connazionale Habib, più grande di lui, con cui divide la stanza. E i cui consigli, forse saggi per quanto espressi con durezza, cadono nel vuoto.
Esordio dell'allievo di Abbas Kiarostami Hassan Yektapanah, che firma regia, sceneggiatura e montaggio e recupera gli stilemi più neorealisti del maestro senza farne maniera: suoni ambientali in risalto, a partire dai versi degli animali; lunghi dialoghi in auto (con Mahmoud) molto piacevoli; una fotografia naturalista e un'ambientazione che ricordano la trilogia di Koker. Quella descritta è una realtà umile e periferica in cui 'chi ha qualche mucca' è un 'manager di campagna', così diverso da 'chi scrive e porta gli occhiali', che è un 'capo ufficio'.
Memorabile il protagonista, ragazzo mite, ingenuo e sentimentale. Nell'incipit viene sgridato per essere stato da un santone e per essersi lavato via l'odore di vacca, a testimoniarne la credulità e il candore. Alla fine il suo idealismo verrà deluso, in un mondo in cui le barriere nazionali contano e non sempre ci si può fidare delle persone.
"Djomeh" è uno dei film sui quasi tre milioni di rifugiati afgani in Iran; segue "Il ciclista" di Mohsen Makhmalbaf (1988) e precede il quasi contemporaneo "Baran" di Majid Majidi (2001).
Ha vinto la Caméra d'or per la migliore opera prima al festival di Cannes. Quando poi a Jalil Nazari, l'attore non professionista protagonista del film - egli stesso un richiedente asilo -, è stato negato il visto di rientro in Iran da un festival in Germania, la vicenda ha ispirato un altro film, il documentario "Heaven's Path", diretto da uno degli attori di "Djomeh", Mahmoud Behraznia.
Sottotitoli in italiano scaricabili cliccando qui.
lunedì 18 febbraio 2019
Muhammad, The Messenger Of God, Majid Majidi (2014)
Un kolossal di quasi tre ore, il più costoso della storia del cinema iraniano. “Muhammad, the Messenger of God” (Mohammad Rasoolollah), che pur guarda ai classici film europei e americani sulla Bibbia e si avvale di un guru della fotografia cinematografica come Vittorio Storaro, è considerato soprattutto la risposta sciita al vecchio film di Moustapha Akkad “Il messaggio”, finanziato da Gheddafi nel 1976. Le differenze risiedono anzitutto nell’interpretazione del divieto di raffigurare il Profeta. Se nel film di Akkad non veniva per nulla mostrato, Majid Majidi ne inquadra il corpo di spalle o da lontano, senza mai riprendere il viso, e ne fa sentire la voce: le urla da neonato, le preghiere da adulto, alcuni dei rivoluzionari apporti, molto concreti, del suo pensiero: oltre alla liberazione degli schiavi, risalta una sequenza in cui convince un uomo ad accettare la figlia femmina appena nata come una benedizione.
Ovviamente la modalità di rappresentarlo non è stata indolore e ha sollevato polemiche.
Uno degli aspetti maggiormente affrontati è proprio il rapporto del giovane Maometto con le donne della sua famiglia (sviene alla morte della madre Amina…) e con lo zio tutore, mentre altri, anche all’interno della famiglia stessa, sono incapaci di raccoglierne il Messaggio.
Peccato che il film, nonostante la partecipazione di Storaro e del montatore Roberto Perpignani, non sia circolato in occidente, perché avrebbe potuto suscitare interesse.
Io nel mio piccolo ho tradotto in italiano i sottotitoli, molto artigianalmente e senza pretesa precisione. Li potete scaricare cliccando qua:
domenica 2 aprile 2017
I film iraniani più visti
martedì 31 gennaio 2017
I bambini del cielo, Majid Majidi (1997)
Enzo Staiola piange ancora per le vie della capitale. L’eco si propaga, valica i confini italiani sino a giungere in Iran dove Amir Farrokh Hashemian è in ascolto. Dopo circa cinquant’anni da "Ladri di biciclette" di Vittorio De Sica (1948), Majid Majidi realizza nel 1997 "I bambini del cielo". Paragonato da molti critici al capolavoro neorealista, il film di Majidi ritrae la classe meno agiata in punta di piedi, con ineguale raffinatezza. Nominato agli Oscar al miglior film straniero nel 1998, il lungometraggio di Majidi si compone di una trama semplice. Il piccolo Ali aiuta la mamma ammalata nelle faccende domestiche e la sostituisce nelle commissioni quotidiane. Porta da un calzolaio le scarpe rotte della sorellina Zahra per ripararle ma maldestramente le perde. Conscio della situazione economica difficile in cui versa la famiglia, Ali decide di non recare un’ulteriore preoccupazione ai genitori e non dice nulla. Zahra reclama le sue scarpette ricattando il fratello. È pronta a spifferarlo ai genitori se non fosse che, dopo un fitto scambio di messaggi in sordina, un tenero botta e risposta sul quaderno di scuola, si raggiunge il compromesso. Ali è disposto a scambiare quotidianamente le sue scarpe da ginnastica con la sorella. Ciò implica inevitabilmente lunghe corse mattutine per garantire che l’altro non vada a scuola scalzo. I bambini assorbono i problemi degli adulti, ne diventano la valvola di sfogo e nei loro pianti, catturati in magici primi piani che stritolano il cuore, è iscritta la sofferenza di un secolo. Le pressioni sociali ricadono sulla parte indifesa della società che, a differenza del maturo, acciuffa le piccole gioie che il giorno presenta. Gioie fatte, perlopiù, di piccole cose. Si manifesta quindi la felicità materialistica del bambino. Zahra si accontenta di avere le scarpe del fratello e sorride quando Ali le regala una penna tutta dorata. La gioia dell’adulto, invece, passa per le soddisfazioni arrecate dalla fatica e dal lavoro. Una gioia sudata ma degnamente guadagnata. Nella fantastica scena in cui padre e figlio decidono di scendere nell’erebo borghese se ne ha la prova. In bici, l’unica ricchezza della famiglia, i due cercano qualche lavoretto da giardiniere nelle ville delle classi agiate. Trovano un signore anziano disposto a pagarli. Mentre Ali si diverte giocando, il padre si rimbocca le maniche mentre una sofferta goccia di sudore solca il viso rugoso da mille battaglie e sogni infranti. Il volto, rigato dal dolore, accenna un timido sorriso mentre, tra le mani, stringe la sua paga.
venerdì 28 ottobre 2016
I migliori film iraniani del XXI secolo (e una classifica alternativa)
Questa la top 10:

1. Under The Skin of The City – Rakhshan Bani-Etemad