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sabato 4 dicembre 2021

The Deportees 2 (Masoud Dehnamaki, 2009)

IL PIÙ GRANDE SUCCESSO




Il film iraniano che ha ottenuto gli incassi maggiori di sempre - corretti per l'inflazione - è "The Deportees 2" (Ekhrajiha 2, 2009).

Interpretato da un gruppo di popolari attori, per lo più comici, il film è il secondo capitolo di una trilogia ambientata sul campo della "Guerra Imposta" con L'Iraq (1980-1988). Una serie di film che, alternando scene divertenti a sequenze belliche dalla morale patriottica, racconta di un gruppo di scapestrati che si arruolano volontari per riabilitarsi agli occhi delle donne che vorrebbero sposare.

Nel secondo capitolo, la battuta migliore la pronuncia Akbar Abdi, che interpreta un soldato soprannominato "fava". Catturato dalle truppe di Saddam e intervistato dalla tv irachena sulle ragioni per cui è al fronte, il fante si richiama alla comune fede sciita e afferma: "Siamo solo venuti a vedere la tomba di Hussein a Kerbala. Quando voi venite a vedere la tomba dell'imam Reza, vi trattiamo forse così?"





Il regista dei film è Masoud Dehnamaki, una figura che definire controversa è dir poco: agitatore culturale reazionario, si è macchiato anche di azioni squadriste contro riformisti e studenti.

Il trionfo dei Deportees è limitato al pubblico locale; all'estero sono pressoché sconosciuti, come gli altri film iraniani campioni di incassi. Fanno eccezione alcune opere firmate Dariush Mehrjui, Tahmineh Milani, Majid Majidi, Asghar Farhadi.



giovedì 2 settembre 2021

Figli del sole (Majid Majidi, 2020)




Dopo vent'anni ritorna nelle sale italiane un lavoro di Majid Majidi, importante regista di film sull'infanzia, autore degli apprezzati "I bambini del cielo" e "Baran" che tuttora vengono trasmessi dalla rete TV2000. Con "Figli del sole" (Khorshid) il regista, l'anno scorso, ha partecipato per la prima volta al concorso principale della Mostra di Venezia, aggiungendo un brillante capitolo alla sua luminosa carriera.

La storia è quella di Ali Zamani (intepretato da Rouhollah Zamani, premio Mastroianni per il miglior giovane attore emergente), un ragazzino dedito alla delinquenza per conto del boss del narcotraffico del quartiere (impersonato da Ali Nassirian, uno dei più grandi attori iraniani di sempre, visto tempo fa in Italia ne "L'isola di ferro"). Ali, insieme ai suoi amici Abolfazl, Mamad e Reza, dopo essere stato scoperto armeggiare in un parcheggio sotterraneo, viene redarguito dal boss per aver rubato una colomba dal suo allevamento (di copertura dell'attività criminale). L'uomo lo perdona, ma in cambio Ali dovrà scavare un tunnel che dai sotterranei della scuola "Sole", porti a un tesoro nascosto sotto il limitrofo cimitero.

Per riuscirci, con i suoi amici deve iscriversi all'istituto, che però è in difficoltà economiche, senza più fondi pubblici, retto solo da donazioni private e dalla buona volontà del direttore e del maestro Rafi, che, grazie alla gratuità dell'iscrizione, strappano alla strada decine di fanciulli provenienti da contesti complicati. I quali li ricambieranno "occupando" la scuola sotto sfratto (un insegnamento del film è che le regole ingiuste non vanno rispettate) e partecipando a una gioiosa ma sfortunata festa di finanziamento. Intanto, la ricerca del tesoro, armata di piccone e trapano, prosegue di nascosto. Avrà un esito deludente, ma per fortuna non tragico.





Questo film è dedicato ai 152 milioni di bambini vittime di sfruttamento minorile e a tutti coloro che lottano per i loro diritti; così recita la didascalia iniziale. Il lavoro dei protagonisti, operai presso un gommista, è però soprattutto la piccola criminalità, mentre "Figli del sole" è il racconto di un quartiere difficile e di chi lo popola, osservato col consueto punto di vista di un autore (anche sceneggiatore insieme al regista di "Melbourne" Nima Javidi) fortemente religioso. Indicativa di tale ispirazione, nonché elemento ricorrente nei film di approccio analogo, è la rappresentazione di un ambiente piagato dalla miseria, in cui assenti, per i protagonisti - già fragili in quanto bambini - sono casa e famiglia, e in particolare la figura paterna. I padri di questi "figli del sole" sono dediti alla tossicodipendenza o alloggiano in galera. Ali, il suo, lo fa passare addirittura per morto, mentendo. Sua madre è ricoverata (il boss promette di farla dimettere). Gli amici scontano condizioni simili. La sorella di Abolfazl, Zahra, vende piccoli oggetti in metrò; la loro famiglia rischia di finire in un campo profughi afgano. (Ahinoi il tema del destino di questo popolo è tornato prepotentemente d'attualità). La loro infanzia è soffocata nella sua essenza giocosa, fatica a riaffiorare.

Per il regista la politica non è una soluzione. Infatti, il generoso e disinteressato Rafi viene contrapposto al severo burocratico direttore; a quest'ultimo è demagogicamente riservata l'"onta" di volersi candidare al consiglio cittadino, salvo poi redimersi e strappare i manifesti elettorali. Ma ancor minore è la fiducia nell'ingiusto sistema carcerario, che umilia Zahra in alcune delle sequenze più toccanti, girate con ricorso a fuori campo, ombre e penombra, in quelli che sono piccoli saggi di etica di uno sguardo che rifiuta l'esibizione della violenza.

La salvezza sembra invece venire dall'esperienza, anche nell'interscambio con gli adulti, e da una qualche benevolenza divina. Si può osservare come l'ambientazione del film denoti una sorta di "verticalità" su tre livelli. I sotterranei della scuola sono gli inferi in cui il protagonista si sporca le mani alla ricerca di un'illusoria ricchezza haram, proibita dalla fede, situata per altro sotto un luogo di morte per eccellenza come un cimitero. Illusione condivisa da un anziano bidello, che si aggrega all'impresa una volta scoperto il segreto. La tortuosa ricerca si conclude con la purificazione di Ali tramite immersione nelle acque, momento classico per questo genere di film iraniani. È anche da notare che Ali (come il protagonista de "I bambini del cielo") porta il nome del primo imam dell'Islam sciita.






Gli ambienti sulla superficie terrena sono invece i luoghi della vera crescita spirituale dei giovani personaggi, con le loro modeste aspirazioni per il futuro (aprire un autolavaggio, un centro scommesse, un negozio di falafel). È qui, soprattutto, che opera l'istituzione scolastica. Il fatto che piccoli delinquenti siano costretti a iscriversi per portare a termine il loro piano è di per sé eloquente: l'istruzione non è solo un diritto, è un imprescindibile strumento di emancipazione. Come simbolica è l'ultima sequenza (che non sveliamo), in cui Ali mette la sua esperienza manuale e la sua maturazione umana al servizio dell'istituto e della continuità dell'istituzione. 

È però il cielo, dove splende anche il sole del titolo, un'ulteriore, supremo livello. Assistiamo a tante inquadrature a piombo e controcampi dal basso, e sono tra le sequenze più poetiche del film. Le colombe vengono liberate verso il cielo. Gli alunni lanciano gli zaini in aria, oltre i cancelli della scuola. Nella sequenza conclusiva, mentre Ali sta riprendendo coscienza al termine dei suoi scavi, dopo momenti di schermo nero è dapprima inquadrato dall'alto, poi, dal basso, vede la luce. Inoltre, il percorso del fanciullo è agevolato dall'arresto, che potremmo definire provvidenziale, dei narcotrafficanti. Siamo certi che Majidi, che è l'artefice di un film su Maometto, che di recente ha chiesto al clero di appoggiare maggiormente un cinema autenticamente islamico, non ha effettuato a caso tali scelte di scrittura e regia.

Consigliato soprattutto ai nostalgici del vecchio cinema iraniano sull'infanzia, ma che non disdegnino ritmo e avventura, "I figli del sole" sta intanto avendo un grande successo in patria. Vedremo presto se lo replicherà nel difficile mercato italiano.

Qui il pressbook del film, con un'intervista molto interessante all'autore.

Qui per trovare l'elenco delle sale che lo proiettano.



 





















sabato 21 agosto 2021

Quando i registi iraniani osservano l'Afghanistan

Breve guida ai film dei registi iraniani che trattano il tema dell'Afghanistan, tornato drammaticamente in auge. Quali sono e dove vederli in edizione italiana.




La famiglia Makhmalbaf ha dedicato un periodo rilevante della sua attività alle macerie lasciate dai talebani e dalla guerra, nel paese confinante con l'Iran.

Il celebre "Viaggio a Kandahar" (Mohsen Makhmalbaf, 2001) racconta di una giornalista canadese di origine afgana che va alla ricerca di sua sorella, lungo un territorio piagato dalle mine anti uomo. Stesso anno e stesso regista per l'ottimo "Alfabeto afgano", sul tema dell'educazione religiosa dei bambini. I due lavori sono racchiusi in un unico dvd in edizione italiana.

Gli alunni in un campo profughi sono i protagonisti anche del primo episodio del film collettivo "11 settembre 2001" (2002), disponibile in dvd. Nel bel capitolo diretto da Samira Makhmalbaf, una maestra cerca di spiegare cosa è successo a New York.

La stessa Samira viene premiata a Cannes per "Alle 5 della sera" (2003), su una donna che si illude del nuovo corso democratico e prova a candidarsi alla presidenza del paese. Sul set del film è ambientato il documentario "Joy of Madness" della quindicenne esordiente Hana Makhmalbaf, inedito in Italia.

La Makhmalbaf Film House produce inoltre il primo film afgano post-talebani, l'intenso "Osama"  (in dvd), diretto dal regista locale Siddiq Barmak.





Marzieh Meshkini, seconda moglie di Mohsen, dirige "Piccoli ladri"(2004), in cui fratello e sorella di Kabul, la cui madre è in prigione, cercano di salvare la vita a un cane. Si può reperire in dvd.

Nel lungometraggio di Hana "Sotto le rovine del Buddha" (2006), bambini assuefatti alla guerra giocano a fare i soldati. Si può vedere su Chili o in dvd.

L'esperienza afghana dei Makhmalbaf si chiude nel 2008 quando, durante la lavorazione di "Two-Legged Horse" (inedito in Italia), Samira subisce un attentato: una bomba a mano uccide un cavallo e ferisce diverse persone. I Makhmalbaf, già in esilio dall'Iran, accusano però gli emissari del regime persiano.


Esiste poi la questione dei quasi 3 milioni di afgani emigrati in Iran. Tre film in particolare la affrontano.



"Il ciclista" (1987) del solito Mohsen Makhmalbaf è il potente racconto di un uomo che pedala ininterrottamente per scommessa, per pagare le cure della moglie. È stato trasmesso qualche volta da "Fuori orario" su Raitre.

"Djomeh" (2000), diretto da Hassan Yektapanah, premiato per la migliore opera prima a Cannes, narra di un ingenuo lavoratore ventenne che ha lasciato l'Iran per amore. Uscito anche al cinema in Italia, è però ormai disperso.

"Baran" (2001) di Majid Majidi è la commovente storia di una ragazza che si traveste da uomo per poter lavorare in un cantiere di Teheran. Da recuperare, eventualmente in dvd


Tenete d'occhio la programmazione di TV2000, che ogni tanto trasmette alcuni di questi film.
Infine, consultate le biblioteche: conservano copie dei dvd fuori catalogo.

sabato 27 febbraio 2021

Baran (Majid Majidi, 2001)




A fine 2019, per il sondaggio sui migliori film del decennio ho contattato, tra gli altri, la professoressa Natalia Tornesello, autrice del volume "Il cinema persiano". La docente, dopo avermi fornito la lista, mi ha scritto di sua iniziativa: Tra i film visti negli anni precedenti mi sono rimasti nel cuore e nella mente due veri capolavori. Si tratta di "Bashu, il piccolo straniero" (1989) diretto da Bahram BeizaiBaran (2001) diretto da Majid Majidi

A uno dei capisaldi indiscussi della cinematografia nazionale, la professoressa affianca dunque l'opera di un regista popolare - più all'estero che in Italia - e pluripremiato, ma non così vezzeggiato dalla critica.

Majid Majidi nasce a Teheran nel 1959. Dopo un apprendistato presso il Circolo artistico per l'organizzazione della propaganda islamica, dove fa anche l'attore e ha modo di collaborare ai film giovanili di Mohsen Makhmalbaf,  passa alla storia per essere stato il primo regista iraniano a raggiungere la shortlist degli Oscar per il miglior film straniero con "I bambini del cielo" (1997), ultimo successo internazionale del mitico istituto pedagogico Kanun. Manterrà sempre, anche nel recente "Sun Children", di nuovo in corsa per gli Oscar, una chiara etica religiosa, caratterizzata dall'attenzione per i drammi degli umili, spesso bambini o adolescenti. Assumerà inoltre posizioni alquanto istituzionali, tanto da essere chiamato a dirigere un kolossal su Maometto.

Con "Baran" (2001), Majidi affronta i temi del caporalato e dell'immigrazione. Una didascalia in apertura annuncia in particolare il dramma dell'Afghanistan, che dice essere cominciato con l'invasione sovietica del 1979, proseguito con il duro regime dei talebani e con la siccità. Attualmente - conclude la didascalia - l'Iran ospita 1,5 milioni di profughi. Il tema non è insolito nel cinema iraniano, essendo affrontato più volte dalla famiglia Makhmalbaf e, l'anno prima del film di Majidi, da "Djomeh" di Hassan Yektapanah


Il cantiere multietnico di Teheran in cui è ambientato il film è diretto dal caporale Memar con piglio paternalistico. L'uomo ha toni burberi, paga discrezionalmente e in ritardo le maestranze, ma è capace anche di slanci di generosità. Il protagonista Latif è invece un ragazzo azero iraniano diciassettenne, sveglio e furbo, che svolge lavori scarsamente impegnativi, come fare la spesa o preparare il tè per gli operai. Gli piace scherzare, facendo anche arrabbiare i colleghi, e lo fa perfino quando l'afgano Najaf ha un incidente che gli costa la frattura a un piede e l'impossibilità di continuare a lavorare. Al posto dell'infortunato arriva quello che viene presentato come suo figlio, di nome Rahmat. Sembra un ragazzo gracile; non parla, il suo accompagnatore Soltan risponde alle domande per lui. Giunge anche un'ispezione, con l'intento di capire quanti afgani irregolari lavorino nel cantiere.

Latif insegna al nuovo arrivato a portare sulla schiena i sacchi di calce, ma uno di questi è troppo pesante e il lavoratore  lo rovescia, "imbiancando" un collega. Ne segue un parapiglia, cui Memar mette fine affidando a Rahmat le mansioni di Latif, spostato a fare il manovale. Quest'ultimo si vendica in vari modi con Soltan e Rahmat, che dal canto suo risistema e abbellisce il vano adibito a cucina - separato dal resto del cantiere da una tenda - mentre gli operai si godono l'ottima qualità del tè e del cibo.


Ad un tratto, mentre il separé è mosso dal vento, Latif intravede, specchiata, l'ombra di Rahmat che si pettina i lunghi capelli e capisce che si tratta di una ragazza. L'impossibilità, dovuta alle regole censorie, di mostrare il capo femminile scoperto produce così una delle sequenze più poetiche e memorabili del cinema iraniano tutto.

La prima svolta è giunta a un terzo del film. Latif inizia a essere gentile con la ragazza, si veste a festa, la spia felice, sorridente, con la testa tra le nuvole. Tuttavia, se prima tutti la trattavano bene, ora qualcuno le è ostile. Con questo schematismo ingiustificato di sceneggiatura, il regista porta a compimento la metamorfosi di Latif, che può ergersi a difensore dell'amata.

L'incanto però non dura molto: la ragazza viene catturata dagli ispettori fuori dal cantiere, nonostante i tentativi di Latif di impedirne l'arresto (la sua corsa al ralenti rimanda al finale de "I bambini del cielo"). Per evitare ulteriori problemi, il caporale riscatta i detenuti, ma decide di licenziare tutti gli afgani. Con la seconda svolta nel racconto, inizia l'andirivieni di Latif, che cerca in tutti i modi di portare soldi alla famiglia della ragazza, come pretesto per rivederla, rimediandoli in modi disparati e consegnandoli adducendo pretesti vari. Quando vende il proprio documento, l'acquirente strappa vistosamente la fototessera, a simboleggiare come il giovane sia disposto a rinunciare a tutto, anche alla sua identità.


Latif e la ragazza qualche volta si intravedono unilateralmente. Egli la scorge mentre lei serve cibo nel campo profughi e quando lavora raccogliendo massi dal fiume, dove cade e sbatte la schiena, mentre Latif non cede all'impulso di intervenire in soccorso. Origliando dietro alla porta di casa sua, scopre che si chiama Baran. Ed è proprio sulla soglia che finalmente i loro occhi si incrociano, mentre la giovane è avvolta nel chador e si schermisce chiudendo la porta. Tutto il film, a ben vedere, è un emozionante gioco voyeristico di sguardi, unidirezionali o incrociati, obliqui e attraverso gli usci.

L'inseguimento del povero Latif si conclude con la partenza di Baran per l'Afghanistan. Egli le dà una mano a caricare il camion con gli oggetti che le sono caduti; la ragazza gli concede finalmente un sorriso, perde una scarpa, Latif la aiuta a indossarla. Baran, che fino ad ora si è coperta solo il capo, cala sul volto il burqa, indumento tipico afgano, e si avvia. Latif sorride. Simbolicamente la pioggia - che in persiano si dice "baran" - cancella l'orma della ragazza e così si completa un finale splendido e indimenticabile.

La linda bellezza di una regia per altri versi ordinaria eleva una sceneggiatura che può apparire forzata nella prima, decisiva svolta. È sufficiente la presenza di una ragazza - che per altro non profferisce una sola parola per tutto il film (e questo sicuramente accresce il suo fascino misterioso) - perché il protagonista si innamori perdutamente, oltre a mettere la testa a posto e a scoprire il proprio lato romantico? Lo storico del cinema iraniano Hamid Naficy solleva il tema dell'ambiguità sessuale - che potrebbe essere la risposta a questa domanda retorica -, notando tra l'altro che "Latif" significa "delicato" o "bello". Il ragazzo sarebbe attratto irresistibilmente dall'aspetto androgino di Rahmat/Baran.

Wikipedia francese rileva inoltre diversi riferimenti alle tradizioni letterarie e mistiche persiane.
Ma, al di là dei vari livelli di lettura, "Baran" resta una delle opere più toccanti del regista, impreziosita dalle due sequenze da antologia di cui dicevamo.

Uscito al cinema doppiato in italiano, poi in dvd, per anni è sparito dai radar. Ora, ogni tanto, viene trasmesso da TV2000.

Curiosità: ho trovato una foto recente di Zahra Bahrami, la donna che interpreta Baran (gli attori del film sono tutti non professionisti).






















domenica 6 dicembre 2020

Golnar (Kambuzia Partovi, 1988)

Post in memoria di Kambuzia Partovi, personalità versatile e amata del cinema iraniano, che ci ha lasciati prematuramente lo scorso 24 novembre. Era ricoverato per problemi cardiaci ed ha contratto il COVID-19.
Attivo anche nel teatro, Partovi ha diretto importanti film come "Border Cafè" (2005) e documentari televisivi. Da sceneggiatore, ha firmato tra gli altri il "Maometto" di Majidi, il celebre "I'm Taraneh, 15" di Rasul Sadrameli e "Come pietra paziente" di Atiq Rahimi.


Come autore di film per l'infanzia, realizzati a inizio carriera, Partovi è stato uno dei più influenti. Tra questi figura "Golnar", sua opera prima; una delicata fiaba con attori in carne ossa e pupazzi zoomorfi.
Il titolo è il nome di battesimo della protagonista, una fanciulla di campagna che vive coi nonni. Un giorno il vento le porta via il fazzoletto azzurro che era di sua madre. La giovane si perde nella foresta, finché non trova riparo in un casolare di legno abitato da una coppia di orsi. Mentre Signor Orso la costringe a lavorare, con Signora Orsa nasce un certo affetto. Intanto una simpatica rana ficcanaso dispensa consigli e aiuta Golnar a fuggire. Dopo aver cucinato, tagliato i tronchi degli alberi, essersi ammalata, ricordato con nostalgia momenti di vita del villaggio, la bambina infatti si nasconde in una cesta portata in spalla da Signor Orso. Intanto il fazzoletto, trasportato da un ruscello, viene ritrovato dai nonni, che stavano perdendo la speranza di rivederla. È il preludio al ritorno a casa.

Con canzoni dalle melodie gradevoli e una fattura tecnica di lampante semplicità - dovuta forse a una certa povertà di mezzi - che però ispira simpatia, "Golnar" è un'opera che, a differenza di altri lavori della cinematografia nazionale di diversa produzione, non usa i pargoli per parlare agli adulti dei problemi sociali, ma si rivolge esclusivamente ai più piccoli, incantandoli.




Dal backstage del film, Jafar Panahi  ha realizzato la propria tesi di laurea in cinema. Sono così iniziate una lunga amicizia e una collaborazione culminata con "Closed Curtain" (2013, diretto e interpretato da entrambi), transitata per "The Fish" (1988-1991, regia di Kambuzia con l'assistenza di Jafar) e per il successo internazionale de "Il cerchio" (2000, regia di Panahi, sceneggiatura di Partovi da un soggetto dell'amico).


"Golnar" è disponibile su IMVBOX con sottotitoli.


domenica 24 febbraio 2019

Djomeh, Hassan Yektapanah (2000)


Il ventenne Djomeh racconta al datore di lavoro, l'allevatore Mahmoud, il motivo per cui ha lasciato il suo paese, l'Afganistan: non per soldi, non per la guerra, ma perché era innamorato di una donna di dodici anni più grande e le famiglie si sono opposte alla relazione. Djomeh gira per la campagna e prende confidenza con le usanze dell'Iran. Si invaghisce della ragazza che lavora in un negozio di alimentari e altre merci, dove si reca di continuo sottraendo tempo al lavoro e sperperando denaro. Giunge a chiederle di sposarlo, nonostante le diffide del suo collega e connazionale Habib, più grande di lui, con cui divide la stanza. E i cui consigli, forse saggi per quanto espressi con durezza, cadono nel vuoto.

Esordio dell'allievo di Abbas Kiarostami Hassan Yektapanah, che firma regia, sceneggiatura e montaggio e recupera gli stilemi più neorealisti del maestro senza farne maniera: suoni ambientali in risalto, a partire dai versi degli animali; lunghi dialoghi in auto (con Mahmoud) molto piacevoli; una fotografia naturalista e un'ambientazione che ricordano la trilogia di Koker. Quella descritta è una realtà umile e periferica in cui  'chi ha qualche mucca' è un 'manager di campagna', così diverso da 'chi scrive e porta gli occhiali', che è un 'capo ufficio'.

Memorabile il protagonista, ragazzo mite, ingenuo e sentimentale. Nell'incipit viene sgridato per essere stato da un santone e per essersi lavato via l'odore di vacca, a testimoniarne la credulità e il candore. Alla fine il suo idealismo verrà deluso, in un mondo in cui le barriere nazionali contano e non sempre ci si può fidare delle persone.



"Djomeh" è uno dei film sui quasi tre milioni di rifugiati afgani in Iran; segue "Il ciclista" di Mohsen Makhmalbaf (1988) e precede il quasi contemporaneo "Baran" di Majid Majidi (2001).
Ha vinto la Caméra d'or per la migliore opera prima al festival di Cannes. Quando poi a Jalil Nazari, l'attore non professionista protagonista del film - egli stesso un richiedente asilo -, è stato negato il visto di rientro in Iran da un festival in Germania, la vicenda ha ispirato un altro film, il documentario "Heaven's Path", diretto da uno degli attori di "Djomeh", Mahmoud Behraznia.


Sottotitoli in italiano scaricabili cliccando qui.





lunedì 18 febbraio 2019

Muhammad, The Messenger Of God, Majid Majidi (2014)

Non è semplice, per un occidentale ignaro di teologia islamica, riassumere e commentare un’opera come questa. Ci provo ugualmente.




A sette anni dall’inizio della predicazione, Abu Talib, zio e tutore di Maometto, racconta e annota in un diario le difficoltà incontrate dalla famiglia, costretta a lasciare La Mecca. Quindi, in un flashback che include la maggior parte del film, vengono ripercorse la gestazione, la nascita, e l’infanzia del Profeta, a partire dall’assedio dell’esercito abissino alla Caaba, la pietra già sacra in tempi preislamici sita al centro della Mecca. L’attacco viene respinto grazie a uno stormo immenso: gli uccelli (detti Ababil) sganciano pietre ardenti e distruggono l’esercito nemico. Una grande luce che illumina il cielo preannuncia l'arrivo del Messaggero, che dunque nasce. Maometto viene allattato anche da una schiava, che da grande farà liberare (come altri schiavi legati sugli scogli in riva al mare in tempesta e destinati al sacrificio umano). Concluso il flashback, la storia  racconta le difficoltà dei musulmani assediati e messi al bando. Infine, un monaco cristiano conferma ad Abu Talib che è arrivato l'ultimo Profeta.

Un kolossal di quasi tre ore, il più costoso della storia del cinema iraniano. “Muhammad, the Messenger of  God” (Mohammad Rasoolollah), che pur guarda ai classici film europei e americani sulla Bibbia e si avvale di un guru della fotografia cinematografica come Vittorio Storaro,  è considerato soprattutto la risposta sciita al vecchio film di Moustapha Akkad “Il messaggio”, finanziato da Gheddafi nel 1976. Le differenze risiedono anzitutto nell’interpretazione del divieto di raffigurare il Profeta. Se nel film di Akkad non veniva per nulla mostrato, Majid Majidi ne inquadra il corpo di spalle o da lontano, senza mai riprendere il viso, e ne fa sentire la voce: le urla da neonato, le preghiere da adulto, alcuni dei rivoluzionari apporti, molto concreti, del suo pensiero: oltre alla liberazione degli schiavi, risalta una sequenza in cui convince un uomo ad accettare la figlia femmina appena nata come una benedizione.
Ovviamente la modalità di rappresentarlo non è stata indolore e ha sollevato polemiche.

Uno degli aspetti maggiormente affrontati è proprio il rapporto del giovane Maometto con le donne della sua famiglia (sviene alla morte della madre Amina…) e con lo zio tutore, mentre altri, anche all’interno della famiglia stessa, sono incapaci di raccoglierne il Messaggio.
La scelta  di concentrarsi su questi anni della vita del Profeta si adatta bene alla poetica del regista, da sempre cantore dell’infanzia, ed è funzionale a evidenziatore il lato umanista e non violento dell'Islam; un biglietto da visita da consegnare a quel pubblico internazionale che ne ha una visione negativa.

Ma Majidi dimostra padronanza anche nell'orchestrare le scene di massa e di battaglia: di grande potenza quella della con ‘L’Esercito degli Elefanti’, gli abissini. Per quanto sia ormai allineato su posizioni istituzionali, l'autore mantiene una sensibilità che gli  consente  di smorzare l’inevitabile magniloquenza, trovando momenti toccanti. Gli si perdonano qualche rallenty di troppo e le musiche pompose. 




Peccato che il film, nonostante la partecipazione di Storaro e del montatore Roberto Perpignani, non sia circolato in occidente, perché avrebbe potuto suscitare interesse.

Io nel mio piccolo ho tradotto in italiano i sottotitoli, molto artigianalmente e senza pretesa precisione. Li potete scaricare cliccando qua:













domenica 2 aprile 2017

I film iraniani più visti

Se per caso vi siete chiesti quali film iraniani siano stati maggiormente visti, sappiate che è praticamente impossibile pervenire a una risposta che non sia parziale. Per quanto concerne gli incassi in sala, escluse altre modalità di visione come dvd o blu-ray, tv, download e streaming più o meno legali - una fonte dunque decisamente limitata, ma comunque un punto di partenza -, per il botteghino, dicevamo, ci aiuta il database LUMIERE dell’European Audiovisual Observatory. Cliccando sul titolo del film è anche possibile sapere dove è stato distribuito e quanto ha incassato nel singolo paese.

Due o tre cose ancora da aggiungere. La rilevazione riguarda principalmente il mercato europeo (per una visione più centrata sugli Usa c'è Mojo, in cui però va cercato un film alla volta) ed è escluso il premio Oscar "Il cliente", troppo recente perché siano disponibili dati consolidati. Infine i dati partono dal 1996, per cui qualche classico risulta penalizzato. Fatte queste precisazioni, dopo aver selezionato ‘Iran (Islamic Republic of)’ nel filtro ‘Paese produttore o coproduttore`, estrapoliamo la graduatoria e gli incassi annessi, e riportiamo la top-15 con i titoli italiani (laddove disponibili), senza aggiungere commenti.






1. Una separazione, Asghar Farhadi (2011) eur 1.538.000
2. Viaggio a Kandahar, Mohsen Makhmalbaf (2001) eur 1.420.203
3. Taxi Teheran, Jafar Panahi (2015) eur 1.110.438
4. Il cerchio, Jafar Panahi (2000) eur 572.049
6. I gatti persiani, Bahman Ghobadi (2009) eur 355.719
7. Il vento ci porterà via, Abbas Kiarostami (1999) eur 284.427
8. Lavagne, Samira Makhmalbaf (2000) eur 230.481
9. Alle cinque della sera, Samira Makhmalbaf (2003) eur 211.918
11. About Elly, Asghar Farhadi (2009) eur 180.585
13. Turtles Can Fly, Bahman Ghobadi (2004) eur 176.200
14. The Colour of Paradise, Majid Majidi (1999) eur 170.294
15. Dieci, Abbas Kiarostami (2002) eur 157.558

martedì 31 gennaio 2017

I bambini del cielo, Majid Majidi (1997)

LA FELICITÀ IN UN PAIO DI SCARPE



Enzo Staiola piange ancora per le vie della capitale. L’eco si propaga, valica i confini italiani sino a giungere in Iran dove Amir Farrokh Hashemian è in ascolto. Dopo circa cinquant’anni da "Ladri di biciclette" di Vittorio De Sica (1948), Majid Majidi realizza nel 1997 "I bambini del cielo". Paragonato da molti critici al capolavoro neorealista, il film di Majidi ritrae la classe meno agiata in punta di piedi, con ineguale raffinatezza. Nominato agli Oscar al miglior film straniero nel 1998, il lungometraggio di Majidi si compone di una trama semplice. Il piccolo Ali aiuta la mamma ammalata nelle faccende domestiche e la sostituisce nelle commissioni quotidiane. Porta da un calzolaio le scarpe rotte della sorellina Zahra per ripararle ma maldestramente le perde. Conscio della situazione economica difficile in cui versa la famiglia, Ali decide di non recare un’ulteriore preoccupazione ai genitori e non dice nulla. Zahra reclama le sue scarpette ricattando il fratello. È pronta a spifferarlo ai genitori se non fosse che, dopo un fitto scambio di messaggi in sordina, un tenero botta e risposta sul quaderno di scuola, si raggiunge il compromesso. Ali è disposto a scambiare quotidianamente le sue scarpe da ginnastica con la sorella. Ciò implica inevitabilmente lunghe corse mattutine per garantire che l’altro non vada a scuola scalzo. I bambini assorbono i problemi degli adulti, ne diventano la valvola di sfogo e nei loro pianti, catturati in magici primi piani che stritolano il cuore, è iscritta la sofferenza di un secolo. Le pressioni sociali ricadono sulla parte indifesa della società che, a differenza del maturo, acciuffa le piccole gioie che il giorno presenta. Gioie fatte, perlopiù, di piccole cose. Si manifesta quindi la felicità materialistica del bambino. Zahra si accontenta di avere le scarpe del fratello e sorride quando Ali le regala una penna tutta dorata. La gioia dell’adulto, invece, passa per le soddisfazioni arrecate dalla fatica e dal lavoro. Una gioia sudata ma degnamente guadagnata. Nella fantastica scena in cui padre e figlio decidono di scendere nell’erebo borghese se ne ha la prova. In bici, l’unica ricchezza della famiglia, i due cercano qualche lavoretto da giardiniere nelle ville delle classi agiate. Trovano un signore anziano disposto a pagarli. Mentre Ali si diverte giocando, il padre si rimbocca le maniche mentre una sofferta goccia di sudore solca il viso rugoso da mille battaglie e sogni infranti. Il volto, rigato dal dolore, accenna un timido sorriso mentre, tra le mani, stringe la sua paga.


In Majidi prende il sopravvento uno sguardo realista volto ad accentuare la miseria in cui vivono i protagonisti e, in generale, il popolo muto. Il regista s’insinua nelle mura domestiche, spia la povertà e ricalca il disagio “sciocco” vissuto da Zahra. Il non possedere un proprio paio di scarpe diventa un complesso d’inferiorità sottolineato efficacemente dalle numerose soggettive che indugiano sui piedi delle sue compagne di classe. Scarpe colorate, lucenti e nuove e, lei a morire d’invidia, e noi a provare un leggero sentimento di compassione misto a rabbia. Ma Ali sa che deve rimediare al suo errore e non può certo vedere la sorella andare a scuola con scarpe lacere ed inadatte al suo piccolo piede. Decide, quindi, di iscriversi ad una gara di corsa a premi dove, per il terzo classificato, sono previste delle scarpe nuove. Ma non tutto va come si vuole ed Ali arriva primo in una gara sofferta e palpitante. Tra fotografi entusiasti e un allenatore colmo di gioia, come se avesse vinto lui, il piccolo è un torrente di lacrime. Sconfitto dal senso di colpa e afflitto torna a casa portando con sé una triste notizia alla sorella. Il mondo lo ha voluto perdente, in una fantastica plongée che tira i resoconti di un fantastico racconto. Eppure non sa che il padre, tra i vicoli della città, ha comprato due nuove paia di scarpe. Una piccola vittoria che per Ali e Zahra vale tanto, così tanto da non poter essere mostrata al pubblico, onnivoro mostro che, perversamente, si ciba delle felicità altrui.


Alessandro Arpa 

venerdì 28 ottobre 2016

I migliori film iraniani del XXI secolo (e una classifica alternativa)

Lo scorso febbraio, il sito Taste of Cinema ha pubblicato la classifica dei 10 migliori film iraniani del 21mo secolo. La lista è curata da Zara Knox, collaboratrice di Imvbox, preziosa piattaforma di film iraniani in streaming. Tenuta in conto la data di pubblicazione, non sorprende l’esclusione di un film come “Taxi Teheran, che la stessa Knox ha altrove indicato come miglior film del paese del 2015, ma che non aveva ancora ottenuto piena visibilità internazionale. Stesso discorso per altre, eventuali, opere recenti.


Questa la top 10:
Risultati immagini per under the skin of the city

1. Under The Skin of The City – Rakhshan Bani-Etemad
3. The Willow Tree – Majid Majidi
4. Santouri – Dariush Mehrjui
7. Una separazione – Asghar Farhadi
8. Fish and Cat – Shahram Mokri
10. Tales – Rakhshan Bani-Etemad


Nel complesso la classifica è valida. Condivisibile in pieno la scelta di valorizzare con due film il (giustamente) pluripremiato, anche con l'Oscar, Asghar Farhadi: anzi, sarebbero state meritevoli anche le due pellicole precedenti. Se un paio lungometraggi della Bani-Etemad sembrerebbero troppi, va detto che si premiano uno dei suoi esiti migliori (“Under the Skin of the City”) e un’opera presentata in concorso alla Mostra di Venezia, evento non comune. Majid Majidi è un artista sottovalutato, per cui ben venga il riuscito (quanto un po' già visto) “The Willow Tree”. Chissà se “Facing Mirror” compare solo per l’inusuale (nel contesto) tematica transgender; di sicuro “L'isola di ferro”, che uscì anche in Italia, è invece un piccolo gioiello al di là delle vicissitudini giudiziarie del regista, analoghe a quelle di Jafar Panahi. Completano la graduatoria due chicche come “Melbourne”, folgorante opera prima che assimila la lezione dell’ormai maestro Farhadi, l'originalissimo “Fish and Cat”, capace di coniugare in maniera inedita cinema di genere (anzi… di generi diversi) e tipica riflessione metacinematografica, e uno dei film migliori dell’ultra veterano Dariush Mehrjui.
Poco da discutere, dunque. Tuttavia mancano opere ed autori fondamentali. Il cinema delle minoranze etniche, innanzi tutto, e il suo massimo esponente, il curdo Bahman Ghobadi. Poi Panahi, che non ha mai sbagliato un film: potrebbero essere tutti in classifica. Qualcosa della famiglia Makhmalbaf, nonostante i tanti passi falsi, e nonostante l’abitudine a produrre in Iran ma girare all’estero. E qualche autore forse minore, ma comunque degno di maggiore visibilità.
Senza voler sostituire nulla, una classifica alternativa potrebbe essere:
 

4. Fireworks Wednesday – Asghar Farhadi
5. Story Undone – Hassan Yektapanah
10. Half Moon – Bahman Ghobadi

Questa graduatoria esclude i cortometraggi. E i film realizzati nell’anno 2000, considerato ultimo anno del secolo scorso. Da soli, questi ultimi, potrebbero costituire una validissima top 10 a sé stante. Del resto, eravamo ancora nell’età dell’oro.