martedì 3 gennaio 2017

Oro rosso, Jafar Panahi (2003)

Il numero uno della nostra classifica alternativa. Fonte: Ondacinema, 05/06/2008
 


Dopo il trionfo veneziano de "Il cerchio", Panahi sorprende tutti con un film decisamente diverso, ma altrettanto riuscito, di cui al solito è anche produttore e montatore. Alla sceneggiatura, ispirata a un fatto di cronaca, il regista di Mianeh ritrova invece il suo maestro Kiarostami, che già aveva realizzato lo script per il suo debutto nel lungometraggio, "Il palloncino bianco".

Giunto al suo quarto film, Panahi insiste con l'ambientazione urbana, quasi a voler penetrare nel cuore della società iraniana, mentre molti suoi colleghi connazionali preferiscono descrivere realtà rurali. Se nei primi due film aveva scelto di farci vedere il mondo attraverso gli occhi di due bambine, se ne "Il cerchio" aveva abbandonato queste mediazioni sbattendoci in faccia la drammatica condizione della donna iraniana, con "Oro rosso" per la prima volta Panahi sceglie gli uomini come personaggi principali, suggerendoci che anche loro non se la passano tanto meglio. I censori non possono far finta di niente e anche quest'opera viene messa al bando in patria.

Il piano-sequenza iniziale è indimenticabile per implacabilità e asciuttezza, nonostante l'azione sia concitata e drammatica. La telecamera fissa riprende un uomo, Hossein Aghà, intento a rapinare una gioielleria minacciando con la pistola il principale, che però riesce a divincolarsi e ad azionare un sistema d'allarme che imprigiona il rapinatore portandolo all'omicidio e al suicidio, mentre un lento carrello in avanti ci mostra le reazioni del complice Alì e dei passanti, escludendo dal campo gran parte dell'avvenimento principale.



La struttura circolare del film ricorda quella de "Il cerchio" e di molti film iraniani, ma qui è accompagnata da un'analessi. Subito dopo il prologo uno stacco, all'unisono col colpo di pistola fatale per il protagonista, ci riporta a quando Hossein era ancora in vita, con Alì che lo raggiunge al tavolo di un locale per discutere della loro nuova attività microcriminale. Tale scelta narrativa non è solo un vezzo, poiché costringe lo spettatore a rimettere in discussione il suo frettoloso giudizio sul ladro assassino della prima scena. 


Nel corso del film, il crimine appare infatti come il prodotto di un Iran di cui "Oro rosso" fornisce uno spaccato assolutamente straordinario. La società è fortemente suddivisa in classi e tali differenze sono facilmente percepibili attraverso il linguaggio, gli atteggiamenti, i comportamenti, il modo di vestire delle persone. Come in molte parti del mondo, la classe media è scomparsa e le risorse disponibili sono appannaggio di una ristretta élite, mentre al polo opposto la classe subalterna sopravvive a stento, fino a compiere scelte estreme, come il crimine e l'accattonaggio, ma senza abbandonare il sogno consumista di matrice occidentale, diffusissimo nei paesi esportatori di petrolio, né il moralismo tipico del Paese della rivoluzione islamica.



Come sempre di fronte a un'opera nuova e originale, la critica spiazzata ha fatto di tutto per ricondurre "Oro rosso" a modelli preesistenti, ovviamente in Occidente.

Sarà per la drammaticità della vicenda, sarà per l'ambientazione prevalentemente notturna, sarà per la colonna sonora jazz dell'ultima parte, fatto sta che in molti lo hanno definito un noir. Qualcuno ha visto analogie con "Taxi Driver", anche perché i protagonisti di entrambi i film sono reduci di guerra. Si potrebbe aggiungere che la coppia Hossein-Ali, basata sui contrasti (grosso, impacciato, taciturno, ritardato il primo; piccolo, agile, chiacchierone, sveglio il secondo) ricorda le coppie tipiche delle commedie e dei film comici americani. Ma si tratta senza dubbio di forzature, che rischiano sminuire la portata innovatrice di questo grande film e di un talento, quello di Jafar Panahi, di cui troppo pochi si sono accorti.







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