domenica 5 febbraio 2017

Il cerchio, Jafar Panahi (2000)

Testo tratto da “Il velo sullo schermo”. Da cui il solito taglio didascalico.



                                       

                                                          La trama del film

Schermo nero. Dopo qualche istante partono i titoli di testa. Contemporaneamente si odono le urla strazianti di una donna che partorisce. Lo schermo si fa di colpo completamente bianco, lo sportello di una finestrella, collocato nel mezzo una parete (di un semplice ospedale o di una prigione?) viene aperto da una delle levatrici, che chiama la madre della donna, avvisandola che sua figlia ha dato alla luce una femmina.

L'anziana madre è incredula: l'ultima ecografia aveva dato esito opposto e la giovane madre verrà ripudiata dal marito. Chiede allora a una seconda ostetrica che conferma il sesso del neonato. La donna è sconvolta; dopo un'iniziale riluttanza trova il coraggio di dare, a un'altra sua figlia, la “triste” notizia. 

La telecamera abbandona l'anziana donna, per seguire, senza stacchi di montaggio,prima brevemente la figlia che ha appreso il sesso del neonato poi, sempre senza stacchi, la vicenda di tre donne che ha inizio in prossimità di una cabina telefonica.

In brevissimo tempo avvengono tre eventi: una delle signore, Arezoo, non riesce a telefonare; la seconda, Narghess, viene interpellata da un passante che le chiede chi stia aspettando, mentre la prima crede che sia stata importunata e insegue l'uomo per ottenere spiegazioni; la terza si allontana e viene fermata da un Guardiano della Rivoluzione, con le prime due che, nascondendosi dietro un'automobile, osservano la scena e si chiedono se la loro compagna abbia con sé un non meglio precisato permesso.

Perché le due non vogliono farsi vedere? Perché sono così nervose? Scopriremo che si tratta di detenute che stanno approfittando del citato permesso per tentare di evadere e di raggiungere il paese della seconda donna.

Quest'ultima va alla ricerca di un'altra cabina telefonica, di un negozio gestito da un uomo che potrebbe aiutarle e di un posto per accendersi una sigaretta senza che sia tacciata di immoralità.

Le due si separano; Arezoo, fuori campo, è riuscita a rimediare un po' di soldi. Raggiunto il parcheggio dei pullman, però, si rifiuta di seguire Narghess al suo paese.

Narghess, col denaro che le ha procurato Arezoo, tenta di comprare il biglietto per il viaggio, riuscendoci grazie alla disponibilità del bigliettaio che le consente di superare un inghippo burocratico. Mancano dieci minuti alla partenza e Narghess ne approfitta per acquistare una camicia e per rintracciare Arezoo, che l'aveva abbandonata frettolosamente.

Reperitone l'indirizzo, si reca a casa sua, ricevendo una pessima accoglienza: il padre le dà della svergognata, mentre in un secondo tempo sopraggiungono i fratelli che hanno in mente di dare ad Arezoo una lezione. Mentre Narghess si allontana, i tre uomini discutono animosamente, mentre la telecamera, immobile all'esterno, registra solo i dialoghi, mentre Narghess è già altrove e la vista di ciò che accade nell'appartamento ci è preclusa dalla porta, che oscilla tra il chiuso e il socchiuso.

E' il turno di un nuovo personaggio, Parì: un'altra donna evasa che, faticando a trattenere conati di vomito, si reca da una sua amica bigliettaia. La camera le inquadra attraverso le grate della postazione dell'amica, che assomigliano alle sbarre di un carcere, mentre alcuni clienti intenti a comprare biglietti ci oscurano completamente la visuale. 

Parì si fa accompagnare in macchina dalla sua amica Elhan, un'altra ex detenuta che ora lavora in pronto soccorso. Durante il tragitto, racconta che suo marito è stato fucilato.

All'ospedale, Parì confessa Elhan di essere incinta e di voler, con il suo aiuto, abortire, possibilità fino ad ora preclusale per la sua condizione di carcerata e di vedova. Elhan inizialmente prende tempo e torna al lavoro. Parì fatica ad attenderla ed è sempre più impaziente, anche perché nel frattempo ode il pianto di una donna che ha perso suo figlio e il racconto di un suicidio.

Alla fine Elhan dice dice di non potere aiutare l'amica, che in preda alla delusione vorrebbe accendersi una sigaretta, ma non può farlo. Se ne va accusando Elhan di essere diventata un'insensibile.

All'esterno, prova nuovamente, invano, a telefonare, mentre aiuta due soldati a fare la stessa cosa. I conati non le danno tregua.

Girovagando, si imbatte una bambina appena abbandonata, che si nasconde. Parì riesce a scorgere la madre e la raggiunge. Quest'ultima, che scopriremo chiamarsi Nirè, appare disperata e confida che sua figlia trovi qualcuno che sia in grado di prendersi cura di lei. Nel frattempo è un venditore di palloncini a prendere la piccola per mano e a consegnarla alla polizia.

Comincia a tuonare, Nirè si incammina, lo sguardo perso, come a fissare il nulla. Fuori campo, un uomo accosta con la propria auto e le offre un passaggio, senza ottenere alcuna reazione dalla donna. Un secondo autista si ferma, senza proferir parola. Questa volta Nirè raccoglie il tacito invito e sale sull'auto. A un posto di blocco, un soldato si rivolge all'autista, di nome Hajaghà, come a un suo capo. Nirè si spaventa e implora l'uomo affinché non la denunci, giurando di non fare il mestiere. Questi la rimprovera severamente per aver accettato un passaggio da uno sconosciuto e le dice di attenderlo, mentre scende e si allontana, raggiungendo i suoi colleghi che hanno appena fermato una prostituta con un cliente. La prima sostiene di farlo per necessità economica, il secondo supplica Hajaghà di soprassedere per non rovinargli la reputazione. Nirè ne approfitta per fuggire di soppiatto, mentre a un gruppo di persone che stanno realizzando un filmino di nozze viene impedito di riprendere.

La prostituta viene fatta salire su un pullman militare, dove due soldati armati chiacchierano e canticchiano, mentre a lei è impedito di accendersi una sigaretta. Successivamente, però tutti iniziano a fumare e lei si accoda.

Uno stacco brusco ci conduce in prigione, dove viene portata la prostituta. Una panoramica ci lascia intravvedere le altre donne presenti nella cella. Nella penombra, è possibile riconoscere almeno una protagonista del film, Narghess. Squilla il telefono e un soldato risponde: qualcuno chiede di Solmaze Gholami; il carceriere crede che si tratti della nuova arrivata, ma gli spettatori più attenti avranno riconosciuto il nome della donna che aveva partorito all'inizio del film. Comunque, nessuna delle detenute sostiene di essere Solmaze, anche se (o proprio perché) ciò avrebbe probabilmente comportato la scarcerazione. 




                                                               Un'analisi

“Il cerchio” è l’opera numero tre di Jafar Panahi, nonché l’unico film iraniano, finora, ad aver ottenuto il Leone d’Oro a Venezia. Il regista ne ha curato anche il montaggio e, per la prima volta, la produzione.

Rispetto alle convenzioni del Nuovo Cinema Iraniano, questo lungometraggio si pone da un alto in continuità, ma dall’altro compie una netta rottura.

Andiamo per ordine. Il tema del cerchio è alquanto diffuso nella cinematografia persiana. Sia per quanto concerne la struttura dei film, sia per quanto riguarda metafore e immagini che spesso ritroviamo. Un esempio per tutti è “Il ciclista” (1986) di Mohsen Makhmalbaf, che narra la storia di un immigrato afgano che, per pagare le cure a sua moglie malata, scommette di riuscire a pedalare per sette giorni consecutivi lungo un percorso circolare.

Il film di Panahi fa largo uso di allegorie, dimostrandosi anche in questo conforme alla tradizione. Quella del cerchio è la metafora dell’impossibilità di uscire dalla propria condizione da parte delle donne oppresse della società iraniana. Il lungometraggio ha inizio in un ospedale (a cui si accede percorrendo una scala a chiocciola, non l’unico percorso circolare del film) che sembra una prigione e si conclude in un carcere vero e proprio. Altri luoghi attraversati dal film rimandano alla medesima sensazione di claustrofobia, se non di prigionia vera e propria, prodotta dalle due metafore complementari del cerchio e del carcere e dallo stile del registra, che segue nervosamente le attrici (non professioniste, come si può notare dai frequenti sguardi in macchina) da vicino, staccando col montaggio il più tardi possibile.

All’interno di tale cornice emergono i desideri frustrati delle otto protagoniste. Nessuno risponde mai alle loro telefonate e la possibilità di partire è preclusa (altre due metafore dello stesso tenore). Persino un piccolo gesto trasgressivo, l’accendersi una sigaretta, incontra ostacoli di ogni sorta. Per due volte le donne del film parlano di un luogo terreno situato altrove come di un paradiso, sintetizzando così la speranza creata dalla fede con le problematiche reali della loro esistenza quotidiana.

La rottura praticata da Panahi risiede proprio nella denuncia sociale esplicita. Spesso i registi iraniani, specie della generazione precedente, hanno tentato di fare in modo che i loro film potessero essere visti anche in patria, aggirando la censura. Per non rinunciare a descrivere i problemi della loro società, hanno cercato di alludervi solamente, mostrandoli tra le righe, limitandosi a qualche accenno, magari narrando le vicende attraverso gli occhi di un bambino, ingenuo e innocente per definizione. Lo stesso Panahi era ricorso ai medesimi artifici.

Con “Il cerchio” Panahi svolta verso un cinema apertamente critico, politico (per quanto questa definizione non gli piaccia), duro e diretto. Anche la scelta di ambientare il film in città, in continuità con i film precedenti, non è così frequente in Iran e testimonia la volontà di operare nel cuore delle contraddizioni del Paese.

Ovviamente un’opzione simile non può passare inosservata, sotto gli occhi dei censori. Lo stesso regista se ne rende conto e inserisce una scena breve ma indicativa, sul finire del film, cui la critica non ha, colpevolmente, fatto caso: al posto di blocco dove vengono fermate le donne accusate di meretricio, si avvicina una coppia in una condizione diametralmente opposta: è nel giorno del suo matrimonio. Al seguito, gli invitati che stanno realizzando un filmino. Purtroppo per loro giunge perentorio l’ordine di uno dei soldati: ‘Qui non si può filmare!’ 

Con un espediente metacinematografico, tipicamente iraniano, Panahi ci dice che certe cose nel suo Paese si possono raccontare. Altre proprio no.

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