Visualizzazione post con etichetta Acqua vento e sabbia. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Acqua vento e sabbia. Mostra tutti i post

lunedì 10 luglio 2017

Il silenzio, Mohsen Makhmalbaf (1998)


"Mia nonna era molto religiosa. Da piccolo mi diceva: 'Se ascolti la musica, vai all'inferno'. Quando andavamo in strada, mi faceva ficcare le dita nelle orecchie per non sentirla. La prima musica occidentale che ho ascoltato è stata la "Quinta" di Beethoven. Fui molto colpito dalla forza e dallo splendore di quel brano. Da allora, le quattro note dell'attacco mi ronzano in testa". 

Quando Mohsen Makhmalbaf realizza "Il silenzio" (Sokout), ha da poco iniziato la sua ascesa internazionale (anche questo film ottiene premi a Venezia). I suoi film degli anni 90 incorporano i temi salienti della rampante cinematografia iraniana, tanto da farne il portavoce ideale. Abbondano le riflessioni metacinematografiche, come in "Salaam cinema"; troviamo tanti adolescenti tra i personaggi principali, come in "Pane e fiore", nonostante Makhmalbaf, a differenza di quasi tutti i maggiori autori del Paese, non si sia mai riparato sotto l'egida dell'istituto pedagogico Kanun. Sta inoltre promuovendo la carriera registica della moglie e delle figlie. Ma "Il silenzio" divide pubblico e critica, tra chi lo considera ispirato e riuscito, e chi estetizzante e di maniera. È in questo senso un punto di svolta: nei  film successivi l'ispirazione sarà calante e i formalismi prenderanno il sopravvento. Il cinema iraniano acclamato nei festival (ha da poco sbancato Cannes) è, a quest'epoca, anch'esso giunto allo stesso snodo. 




Realizzato con fondi francesi (di Marin Karmitz), girato e ambientato in Tagikistan, il film racconta con grande ricchezza audiovisiva una storia elementare. Khorshid è un ragazzino cieco che vive con la madre in una palafitta. Il padrone di casa ha imposto un ultimatum per l'affitto e quotidianamente bussa alla porta, facendo il conto alla rovescia dei giorni. Per scongiurare lo sfratto Khorshid, che ha una spiccata sensibilità acustica, lavora come apprendista accordatore di dotar - strumenti tradizionali persiani simili al liuto e al sitar - nella bottega di un anziano liutaio, che è anche il tutore della giovane Nadareh, amica che accompagna Khorshid tutti i giorni in autobus. L'attrazione irresistibile (letteralmente, come le sirene per Ulisse) per la bella musica costa il licenziamento al ragazzo, che fa tardi al lavoro per inseguire i suonatori. Ma è anche occasione di appagamento spirituale: con l'aiuto dei mendicanti del paese e di oggetti di fortuna, gli è possibile riprodurre la "Quinta" di Beethoven e esorcizzare il suono inquietante delle nocche del padrone di casa, così simile nella sua percezione alle prime note della sinfonia.

Tra immagini riflesse negli specchi, giochi di luce, immersioni nella natura, oltre all'elegia della musica, la sfida del regista è consacrare la bellezza (e una qualche religiosità mistica) ad appiglio per i suoi giovani protagonisti contro una realtà di miseria (le ragazze vendono il pane e la frutta in strada, i bambini si sostituiscono ai cavalli per trainare le carrozze) e di severità dei maschi adulti. Ne è un ottimo, poiché contraddittorio, compendio la sequenza in cui un brano magistrale di dotar è eseguito da un fondamentalista che minaccia Nadareh e le altre donne senza velo: il male da cui fuggire convive con il bello verso cui tendiamo, noi con Khorshid.




Con un notevole approccio sinestetico, Makhmalbaf inquadra spesso solo gli occhi chiusi del ragazzino cieco per lasciare fuori campo i rumori che sente e che sentiamo, mettendoci così nella condizione del protagonista; analogamente, le parti del corpo altrui che Khorshid tocca, e che gli sono sufficienti per riconoscere una persona, sono riprese da vicino in modo da circoscriverle e accostarci, per quanto è possibile restituire col cinema, ai suoi limiti.
L'ossessione del protagonista e il lavoro sulla modulazione dei suoni rimandano all'opera di Amir Naderi, che tra l'altro aveva impiegato la "Quinta" in "Acqua, vento e sabbia". Ma Makhmalbaf amplia lo spettro delle possibilità dell'ascolto. Khorshid da un lato è ipersensibile ai rumori e attratto dalla bella musica, dall'altro si tappa le orecchie col cotone e con le dita per isolarsi dal caos e rifugiarsi nel proprio mondo. Per l'autore è un modo di rievocare le prigioni affollate dello scià (in cui fu detenuto per lungo tempo negli anni 70) e come aveva imparato a isolarsi mentalmente.

Forse poco evidente per lo spettatore occidentale, ma chiarissimo per i censori iraniani, è il lato sensuale della pellicola, in particolare nella sequenza in cui Nadareh danza. La peccaminosa sinuosità dei suoi movimenti è aggravata dalla giovanissima età, che porta lo sguardo dello spettatore ai confini della pedofilia. Il rapporto così stretto tra i due protagonisti ha inoltre un risvolto omosessuale, se pensiamo che Khorshid è interpretato da una ragazzina. Il risultato è che "Il silenzio" è tuttora vietato in Iran - cosa prevedibile, dato che vengono mostrate bambine un po' troppo grandi senza velo - e segna di fatto l'inizio dell'esilio artistico e umano di un cineasta che tanto ha dato alla cultura del suo Paese.




 








giovedì 1 dicembre 2016

Acqua, vento e sabbia, Amir Naderi (1989)

Nel 1989, all'ultimo film nella terra natia – ultimo per ora e per sempre, visto che sostiene non si debba mai tornare indietro, nella vita – il quarantatreenne Amir Naderi prosegue il percorso cominciato quattro anni prima con il film 'gemello' "Il corridore" (1985) verso un cinema fortemente improntato su rumori e luoghi e pochissimo sui dialoghi, che mette l'uomo, più spesso l'adolescente, di fronte agli elementi della natura e alle proprie necessità primarie, collocandolo in realtà estreme per esasperarne gli sforzi di adattamento. Con evidenti echi autobiografici. Un linguaggio avanzatissimo (ancora oggi), che sarà proprio di tutto il suo cinema a venire, compreso il recente "Monte", girato in Italia e uscito da poco nelle nostre sale.





La personale nouvelle vague di un autore già affermato


Prima di addentrarci in "Acqua, vento e sabbia" facciamo un passo indietro. Amir Naderi cresce, orfano, con la zia nella città industriale di Abadan, nel sud dell'Iran. Abbandona prestissimo gli studi ed è costretto in tenera età a lavorare. La sua formazione intellettuale è costituita quasi esclusivamente dalla visione famelica di una miriade di film.

Quando debutta come regista, ottiene presto un vasto successo con film di genere e di taglio politico ambientati nella capitale Teheran. Con "Tangsir" scrittura Behrouz Vossoughi, massima celebrità a queste latitudini. Sono gli anni 70 e il giovane Naderi è già, con Masoud Kimiai, il più importante regista del paese, almeno in questa fase. Gli sconvolgimenti portati dalla fine del decennio e dall'incedere di quello nuovo (rivoluzione teocratica, "guerra imposta" con l'Iraq), sono raccontati da Naderi in due documentari (“Search I”, 1980 e “Search II”, 1981) preceduti da un primo tentativo di emigrazione negli Usa (“Made in Iran, Made in America”, 1978).


(Tutto ciò, e tutto il resto della sua produzione giovanile è pressoché introvabile, anche con sottotitoli in inglese. Care cineteche e case di distribuzione, non vogliamo porre rimedio, data l'importanza dell'autore?)





La svolta del 1985 è radicale: "Il corridore" segna l'approdo al nuovo linguaggio. "Acqua, vento e sabbia" ne prosegue il discorso stilistico e tematico. Il giovane attore protagonista  è lo stesso impiegato nel film precedente (non ne farà altri): Majid Nirumand. Il personaggio non ha nome. La sua voice over ci dice che, lasciato il lavoro, sta tornando al paese natale, in mezzo al deserto, per aiutare la famiglia, che però si è spostata a causa del prosciugamento del lago, mentre il borgo è pressoché sparito. Affidata ad abitanti locali la capra che aveva portato come omaggio, il Nostro parte alla ricerca dei suoi cari.

Il vento non smette di spirare neanche per un istante, la sabbia del deserto ostacola incessantemente il protagonista. Lo spettatore è immerso in un costante sottofondo sensoriale, per cui la visione e l'ascolto sono disturbati senza soluzione di continuità, dall'inizio alla fine. All'interno di una apparente compattezza stilistica, Naderi sfoggia un ampio repertorio tecnico: scala dei piani sfruttata in tutte le potenzialità, raccordi sull'asse e falsi raccordi, movimenti di macchina, ralenti, addirittura replay, per cui un film apparentemente statico cela innumerevoli modalità differenti di racconto; allo stesso modo l'esile trama principale nasconde capitoli autoconclusivi.

Ciò che emerge è un'umanità provata. Che però spesso solidarizza, come chi offre indicazioni, cibo, rifugio sotto le tende al nostro eroe; come quest'ultimo che, approdato a una delle rare fonti, condivide l'acqua con un motociclista. Ma c'è anche chi spreca la risorsa più preziosa lavando l'automobile, c'è il momento in cui il Nostro spera che di un bebè abbandonato si occupi qualcun altro (mentre al contrario dà da mangiare alle vacche, o corre disperato per portare alla sorgente due pesci fuoriusciti da una boccia rotta: gesto enfatizzarto da ralenti e commento musicale). Niente manicheismi né banalizzazioni, solo la complessa realtà di un mondo sfaccettato, in cui uomini e animali condividono la stessa sorte.


Agonia e miracoli in un mondo allo stremo


Alla ricerca di aiuto per un uomo quasi sepolto dalla sabbia, il protagonista si perde in una regione impervia e totalmente arida. Comincia a scavare con foga - immortalato da memorabili contre-plongée - ma con sempre meno forze, alla disperata ricerca di acqua. È l'ultima parte, magistrale e definitiva; l'archetipo dell'uomo solitario innanzi allo spettro della morte; alternato, in un montaggio alla Ejzenstejn, a sequenze in cui cani si contendono una carogna, e a immagini di teschi, ossi e carcasse. Finché il protagonista, sfinito, trova chissà dove le energie per scavare con violenza: segnale che anticipa il miracolo vero e proprio: un'inondazione, accompagnata dalla Quinta Sinfonia di Beethoven.



Quanto c'è di allegorico, in un racconto che ha un qualcosa di biblico? Di sicuro non possiamo parlare di realismo tout-court, visto il finale. La riflessione sulle sorti del pianeta pare evidente, tra scarsità di risorse, lotta per accaparrarsele, sprechi, cooperazione, ma in ultima istanza fiducia in Dio.

Tuttavia l'aspetto autobiografico è senz'altro preponderante, dato che stiamo parlando di un cineasta che sceglie di chiudere con questo film l'attività in patria, e di proseguire in giro per il mondo (con base negli Stati Uniti) l'indagine sui limiti dell'uomo. Sappiamo dalle sue dichiarazioni che non è una scelta causata da fattori politici, per cui possiamo scartare l'ipotesi di lettura di questo film come di una metafora dell'Iran, ridotto allo stremo dalla guerra e dagli ayatollah.

Acqua, vento e sabbia” rappresenta invece, senza ombra di dubbio, la ricerca dell'essere umano, ma soprattutto dell'uomo Amir Naderi, di un senso della propria esistenza; un percorso che parte dalla necessità materiale di sopravvivere (tema ricorrente in altri suoi film è il bisogno di denaro). In un mondo arido, la fatica dell'emigrante che, lontano dagli affetti, può contare quasi soltanto sulle proprie forze. Miracoli a parte.