Nel 1989, all'ultimo film
nella terra natia – ultimo per ora e per sempre, visto che sostiene
non si debba mai tornare indietro, nella vita – il quarantatreenne
Amir Naderi prosegue il percorso cominciato quattro anni prima
con il film 'gemello' "Il corridore" (1985)
verso un cinema
fortemente improntato su rumori e luoghi e
pochissimo sui dialoghi, che mette l'uomo, più spesso l'adolescente, di fronte agli elementi
della natura e alle proprie necessità primarie, collocandolo in
realtà estreme per esasperarne gli sforzi di adattamento. Con evidenti echi autobiografici. Un linguaggio
avanzatissimo (ancora oggi), che sarà proprio di tutto il suo cinema a venire,
compreso il recente "Monte", girato in Italia e uscito da
poco nelle nostre sale.
La personale nouvelle
vague di un autore già affermato
Prima di addentrarci in "Acqua, vento e sabbia"
facciamo un passo indietro.
Amir Naderi cresce, orfano, con la zia nella città industriale di
Abadan, nel sud dell'Iran. Abbandona prestissimo gli studi ed è
costretto in tenera età a lavorare. La sua formazione intellettuale
è costituita quasi esclusivamente dalla visione famelica di una
miriade di film.
Quando
debutta come regista, ottiene presto un vasto successo con film di
genere e di taglio politico ambientati nella capitale Teheran. Con "Tangsir" scrittura Behrouz Vossoughi, massima celebrità a queste latitudini. Sono
gli anni 70 e il giovane Naderi è già, con Masoud Kimiai,
il più importante regista del paese, almeno in questa fase. Gli
sconvolgimenti portati dalla fine del decennio e dall'incedere di
quello nuovo (rivoluzione teocratica, "guerra imposta" con
l'Iraq), sono raccontati da Naderi in due documentari (“Search I”,
1980 e
“Search II”, 1981)
preceduti da un primo tentativo di emigrazione negli Usa (“Made
in Iran, Made in America”,
1978).
(Tutto ciò, e tutto il
resto della sua produzione giovanile è pressoché introvabile, anche
con sottotitoli in inglese. Care cineteche e case di distribuzione,
non vogliamo porre rimedio, data l'importanza dell'autore?)
La
svolta del 1985 è radicale: "Il corridore" segna
l'approdo al nuovo linguaggio. "Acqua, vento e sabbia"
ne prosegue il discorso
stilistico e tematico. Il giovane attore protagonista è lo stesso
impiegato nel film precedente (non ne farà altri): Majid
Nirumand. Il personaggio non ha
nome. La sua voice over
ci dice che, lasciato il lavoro, sta tornando al paese natale, in mezzo al deserto, per
aiutare la famiglia, che però si è spostata a causa del prosciugamento
del lago, mentre il borgo è pressoché sparito. Affidata ad abitanti locali la capra che aveva portato come
omaggio, il Nostro parte alla ricerca dei suoi cari.
Il
vento non smette di spirare neanche per un istante, la sabbia del
deserto ostacola incessantemente il protagonista. Lo spettatore è
immerso in un costante sottofondo sensoriale, per cui la visione e
l'ascolto sono disturbati senza soluzione di continuità, dall'inizio
alla fine. All'interno di una apparente compattezza stilistica,
Naderi sfoggia un ampio repertorio tecnico: scala dei piani sfruttata in tutte le potenzialità, raccordi
sull'asse e falsi raccordi, movimenti di macchina, ralenti,
addirittura replay, per cui un film apparentemente statico cela
innumerevoli modalità differenti di racconto; allo stesso modo
l'esile trama principale nasconde capitoli autoconclusivi.
Ciò
che emerge è un'umanità provata. Che però spesso solidarizza, come chi
offre indicazioni, cibo, rifugio sotto le tende al nostro eroe; come
quest'ultimo che, approdato a una delle rare fonti, condivide l'acqua
con un motociclista. Ma c'è anche chi spreca la risorsa più
preziosa lavando l'automobile, c'è il momento in cui il Nostro spera
che di un bebè abbandonato si occupi qualcun altro (mentre al
contrario dà da mangiare alle vacche, o corre disperato per portare
alla sorgente due pesci fuoriusciti da una boccia rotta: gesto enfatizzarto da ralenti
e commento musicale). Niente manicheismi né banalizzazioni, solo
la complessa realtà di un mondo sfaccettato, in cui uomini e animali
condividono la stessa sorte.
Agonia e miracoli in un
mondo allo stremo
Alla
ricerca di aiuto per un uomo quasi sepolto dalla sabbia, il
protagonista si perde in una regione impervia e totalmente arida.
Comincia a scavare con foga - immortalato da memorabili contre-plongée - ma con sempre meno forze, alla disperata
ricerca di acqua. È l'ultima parte, magistrale e definitiva;
l'archetipo dell'uomo solitario innanzi allo spettro della morte;
alternato, in un montaggio alla Ejzenstejn, a sequenze in cui cani
si contendono una carogna, e a immagini di teschi, ossi e carcasse.
Finché il protagonista, sfinito, trova chissà dove le energie per
scavare con violenza: segnale che anticipa il miracolo vero e proprio:
un'inondazione, accompagnata dalla Quinta Sinfonia di Beethoven.
Quanto
c'è di allegorico, in un racconto che ha un qualcosa di biblico? Di
sicuro non possiamo parlare di realismo tout-court,
visto il finale. La riflessione sulle sorti del pianeta pare
evidente, tra scarsità di risorse, lotta per accaparrarsele,
sprechi, cooperazione, ma in ultima istanza fiducia in Dio.
Tuttavia
l'aspetto autobiografico è senz'altro preponderante, dato che stiamo
parlando di un cineasta che sceglie di chiudere con questo film
l'attività in patria, e di proseguire in giro per il mondo (con base
negli Stati Uniti) l'indagine sui limiti dell'uomo. Sappiamo dalle
sue dichiarazioni che non è una scelta causata da fattori politici,
per cui possiamo scartare l'ipotesi di lettura di questo film come di
una metafora dell'Iran, ridotto allo stremo dalla guerra e dagli
ayatollah.
“Acqua,
vento e sabbia” rappresenta invece, senza ombra di dubbio, la
ricerca dell'essere umano, ma soprattutto dell'uomo Amir Naderi, di
un senso della propria esistenza; un percorso che parte dalla necessità
materiale di sopravvivere (tema ricorrente in altri suoi film è il
bisogno di denaro). In un mondo arido, la fatica dell'emigrante che,
lontano dagli affetti, può contare quasi soltanto sulle proprie forze.
Miracoli a parte.
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