domenica 24 febbraio 2019

Djomeh, Hassan Yektapanah (2000)


Il ventenne Djomeh racconta al datore di lavoro, l'allevatore Mahmoud, il motivo per cui ha lasciato il suo paese, l'Afganistan: non per soldi, non per la guerra, ma perché era innamorato di una donna di dodici anni più grande e le famiglie si sono opposte alla relazione. Djomeh gira per la campagna e prende confidenza con le usanze dell'Iran. Si invaghisce della ragazza che lavora in un negozio di alimentari e altre merci, dove si reca di continuo sottraendo tempo al lavoro e sperperando denaro. Giunge a chiederle di sposarlo, nonostante le diffide del suo collega e connazionale Habib, più grande di lui, con cui divide la stanza. E i cui consigli, forse saggi per quanto espressi con durezza, cadono nel vuoto.

Esordio dell'allievo di Abbas Kiarostami Hassan Yektapanah, che firma regia, sceneggiatura e montaggio e recupera gli stilemi più neorealisti del maestro senza farne maniera: suoni ambientali in risalto, a partire dai versi degli animali; lunghi dialoghi in auto (con Mahmoud) molto piacevoli; una fotografia naturalista e un'ambientazione che ricordano la trilogia di Koker. Quella descritta è una realtà umile e periferica in cui  'chi ha qualche mucca' è un 'manager di campagna', così diverso da 'chi scrive e porta gli occhiali', che è un 'capo ufficio'.

Memorabile il protagonista, ragazzo mite, ingenuo e sentimentale. Nell'incipit viene sgridato per essere stato da un santone e per essersi lavato via l'odore di vacca, a testimoniarne la credulità e il candore. Alla fine il suo idealismo verrà deluso, in un mondo in cui le barriere nazionali contano e non sempre ci si può fidare delle persone.



"Djomeh" è uno dei film sui quasi tre milioni di rifugiati afgani in Iran; segue "Il ciclista" di Mohsen Makhmalbaf (1988) e precede il quasi contemporaneo "Baran" di Majid Majidi (2001).
Ha vinto la Caméra d'or per la migliore opera prima al festival di Cannes. Quando poi a Jalil Nazari, l'attore non professionista protagonista del film - egli stesso un richiedente asilo -, è stato negato il visto di rientro in Iran da un festival in Germania, la vicenda ha ispirato un altro film, il documentario "Heaven's Path", diretto da uno degli attori di "Djomeh", Mahmoud Behraznia.


Sottotitoli in italiano scaricabili cliccando qui.





martedì 19 febbraio 2019

Farhadi: Oggi nel mondo non c'è comunicazione tra culture e tra persone

Il sito c7nema ha pubblicato in questi giorni un’intervista ad Asghar Farhadi, raccolta la scorsa estate a margine di una masterclass all’interno del FEST di Espinho (Portogallo). Ho tradotto, e riporto, ampi estratti in cui il regista parla di cinema - in Iran e più in generale. A questo link, invece, l’integrale in portoghese.
Alla masterclass di FEST. Foto: Cecilia Melo


Ha girato “Tutti lo sanno” in Spagna, tuttavia è una storia che potrebbe accadere in Iran.

Se volessi filmare questa storia in Iran, sarebbe leggermente diversa. Ma sì, potrebbe succedere anche là. Tuttavia, questo film è stato una sfida perché mi confrontavo con una cultura che non è la mia.


Ci sono delle somiglianze tra la cultura spagnola e quella iraniana?
Quando immaginiamo altre culture, l’idealizzazione è davvero molto diversa dalla realtà. È solo quando siamo in contatto con queste culture che percepiamo le differenze, specialmente a livello emotivo.

Tuttavia, l'amore ha sempre la stessa faccia, a prescindere dalla cultura, così come l'odio. Il rapporto di coppia, o tra una madre e un bambino, hanno la stessa corrispondenza in luoghi diversi. Ma è nell'espressione e nell'esibizione di questi sentimenti che troviamo le differenze culturali.

Nel mio paese, ad esempio, genitori e figli sono costantemente in discussione prima di mostrare qualsiasi sentimento. Forse, in Giappone non si toccano nemmeno.

Il modo in cui si esprimono è diverso.


Quello che ha affermato nella masterclass FEST è che il cinema iraniano è molto vasto, ma noi [occidentali] ne conosciamo una piccola parte. Quello che ci viene in mente è principalmente un cinema politico, ma il suo cinema è fuori da questo territorio, perché lei è un cineasta legato alla morale piuttosto che alla politica.

Penso che se il tuo oggetto filmico riguarda le persone e le società in cui si muovono - dietro l'aspetto politico – devi approcciarti alla moralità. Non voglio essere un regista politico, perché non parlo direttamente con la politica, perché, in qualità di regista, non è il mio lavoro. Per quanto riguarda la moralità, il mio ambito è quello.

Cerco qualcosa che dica ciò che è giusto o che è moralmente sbagliato. Ma siccome non sappiamo valutarlo, i miei film parlano di dilemmi.

Tuttavia non mi avventuro, nei film, a creare situazioni morali: descrivo, e accompagno lo spettatore attraverso un territorio morale.


Ma il cinema può essere politico?

Sì, nel senso buono e cattivo. Ad esempio, ci sono molti film provenienti dagli Stati Uniti che servono come armi di distruzione. Distruggono culture e altre società. Questo non lo chiamo cinema, si tratta di altri affari.

Il cinema popola immensi territori: culturale, morale e psicologico. Nel caso in cui lo spettatore sia interessato alla politica, può vedere tutti i film in quell’ottica.


Come afferma, la politica è soprattutto una prospettiva. Ricordo che all'epoca di “Una separazione” diversi gruppi sostenevano che si trattava di un film che incitava all’emigrazione dall’Iran.

Non tutte le persone nel mio paese, ma coloro che hanno rapporti con agenzie governative o che si identificano con tali dottrine trovano e cercano nei film qualche tipo di messaggio.


Una separazione

 

Ma è d'accordo sul fatto che ci sia una sorta di pressione per i registi in Medio Oriente per fare cinema politico?


Sì. Forse non nel suo paese o in Spagna, ma in Francia, in Scandinavia, negli Stati Uniti, vedono il regista del Medio Oriente come qualcuno che sta trasmettendo informazioni al pubblico su ciò che accade in quell’area. Ma questo non è il nostro lavoro. Molti non riescono a capire che tanti cineasti vogliono fare film solo perché amano davvero il cinema, non per riferire o segnalare.

Ovviamente questo non vuol dire che non si faccia cinema politico: quello che succede è che spesso chi vede i film non ha la conoscenza di ciò che sta accadendo nel nostro paese e si aspetta una conferma di ciò che i Media trasmettono costantemente.


Ed è per questo che hai deciso di fare questo film, che non ha relazioni con l'Iran? Mentre “Il passato” aveva mantenuto le connessioni.

Sì, uno dei motivi per cui ho voluto fare “Tutti lo sanno” in Spagna, è stato vedere la reazione del pubblico verso un film senza alcun collegamento con l'Iran. Altrimenti ricevo sempre un sacco di domande politiche sul mio paese; è noioso perché voglio parlare di cinema e devo affrontare la politica.


Ma molti festival usano la "politica" nei film iraniani per promuoversi. Ricordiamo Jafar Panahi, un regista a cui è vietato fare film, ma che allo stesso tempo li gira, e che probabilmente realizza più film di molti registi in libertà. La verità è che quando uno dei suoi film viene selezionato, è tutta pubblicità per il film , 'il regista che resiste' e il festival.

Non tutti i festival, ma sì, alcuni lo fanno. Ciò che conta per questi eventi non è la questione politica intorno ai film, ma il fatto di avere lo scoop e, con ciò, l'attenzione degli spettatori e della stampa.

Jafar è mio amico e cerca di avere amicizie, nonostante i divieti, anche perché ama il cinema.


Che dire della censura? Ne ha mai sofferto nel suo paese?
Ti riferisci a tagli o impedimenti?


Sì.


Non proprio. E attenzione, non li conosco [i membri del comitato di censura]. Ma chi vuole fare film, deve mandare alcune pagine della sceneggiatura al comitato.

L’aspetto positivo è che questo comitato è composto, oltre che da esponenti del governo, da persone che lavorano nell'industria cinematografica, tra cui registi, che cercano di semplificarci la vita. Nel caso del cinema commerciale, a loro non importa, a differenza che con alcuni film di registi che vogliono davvero trasmettere un messaggio.

Se sei nato e cresciuto lì, finisci sempre per trovare un modo per aggirare la censura. Non dico però che questo atteggiamento ci aiuti.


Ma questo atteggiamento ha mai influito su un suo film?

Sì, perché finiamo per creare dentro di noi un'autocensura, anche se non ce ne rendiamo conto.


I suoi film si riferiscono principalmente a equivoci, questo può essere visto come una metafora dello stato del mondo?

Sì, è un grosso problema di questi tempi, non solo nel mio paese ma in tutto il mondo. Oggi, con tutta la tecnologia che abbiamo a nostra disposizione e ovviamente mi sto riferendo al ruolo dei social network, non riusciamo a comprenderci. Parliamo molto, ma non ci capiamo.


Cioè, è un problema di comunicazione?

Sì, perché o non vogliamo comunicare, o la nostra lingua non ce lo permette. A volte vogliamo esprimerci emotivamente, ma non siamo in grado di descrivere le stesse cose a parole. Al giorno d'oggi, il nostro mondo ha questo grande problema: non comunichiamo, sia tra culture, sia tra persone sia anche nelle coppie.


Lei menziona costantemente Bergman e, in qualche modo, ha qualcosa in comune con il regista svedese. Entrambi oscillate tra pièce e film. Nel master, ha detto che il teatro si sta avvicinando al cinema e quindi perde la sua identità. Si può evitare questo contagio?

Amo il cinema e quando scrivevo testi per il palcoscenico, li scrivevo come fossero sceneggiature cinematografiche. E questo succede in molte pièce.

Nel mio caso, questo problema mi ha reso non più in grado di fare teatro. Non riesco a pensare teatralmente, solo cinematograficamente.


E il contrario? Funziona? Chiedo perché ne “Il cliente” ha lavorato in entrambi gli ambiti.

Sì, funziona. Anche perché il teatro e il cinema un legame ce l'hanno. Ne “Il cliente” mi sono avvicinato al testo di Arthur Miller per dimostrare questa connessione tra i due ambiti. Direi che è una relazione amichevole, ma nei miei film c'è soprattutto una separazione, perché ciò che mostriamo sullo schermo, passando attraverso i movimenti degli attori, è il cinema. Cerco di iniettare vita in loro, separarli dal teatro.


Il cliente
Tornando alla masterclass , ha detto che se almeno due spettatori escono da una commedia teatrale, questa è un fallimento. La stessa cosa per un film. Quindi, per lei, il cinema è soprattutto una questione di consenso?

Quello che ho detto è che il primo obiettivo di una commedia o di un film è mettere lo spettatore seduto al suo posto per guardarlo fino alla fine. Se lo spettatore diventa disinteressato o lascia lo spettacolo, perdiamo.

Ma ci sono due modi diversi. In teatro, per catturare lo spettatore non è necessario avere grandi enfasi drammatiche o accelerare il ritmo. Perché? Perché le persone che vanno a teatro sono pazienti, hanno più tempo a disposizione. Sono venuti a teatro per imparare. Nel cinema, la maggior parte degli spettatori vuole intrattenimento e non imparare. Sono due arti distinte.

Quando ero più giovane non ci pensavo, ma oggi rifletto su quanto posso fare al cinema per tenere lo spettatore seduto. La TV e le sue serie hanno alterato il gusto dello spettatore, che cerca nel cinema qualcosa di più frenetico, e questo è diventato un ostacolo. Lo notiamo nel tipo di produzione corrente. Se chiediamo agli spettatori odierni di guardare film del passato, di un regista giapponese, o di Ford, o di Truffaut, essi ne mettono in discussione il ritmo, li trovano non abbastanza ‘veloci’. E questo è da imputare all'universo della serie e alla modalità di visione.


E cosa ne pensa di questo boom televisivo a cui stiamo assistendo?

So che Netflix e Amazon stanno producendo sempre più contenuti TV, e a volte mi piace guardarli, ma so anche che questo sta uccidendo il cinema, o almeno il modo in cui lo guardiamo. Perché quando vediamo una serie, non abbiamo il tempo di riflettere su di essa, sui personaggi e le situazioni. Nel cinema, abbiamo accesso a questo spazio e questo tempo. Anche perché quando il film finisce, lo spettatore lo porta con sé.


Che mi dice di Netflix? Le è mai stato offerto un progetto?

Sì, lo hanno fatto in Spagna. Volevano produrre “Tutti lo sanno”, ma io dissi di no. Questo è cinema, se qualcuno vuole fare una serie o della televisione, vada da loro. Con Netflix non avrei avuto problemi di budget, ma mi sono fidato dei miei produttori. Volevo che il mio film fosse visto sul grande schermo.


lunedì 18 febbraio 2019

Muhammad, The Messenger Of God, Majid Majidi (2014)

Non è semplice, per un occidentale ignaro di teologia islamica, riassumere e commentare un’opera come questa. Ci provo ugualmente.




A sette anni dall’inizio della predicazione, Abu Talib, zio e tutore di Maometto, racconta e annota in un diario le difficoltà incontrate dalla famiglia, costretta a lasciare La Mecca. Quindi, in un flashback che include la maggior parte del film, vengono ripercorse la gestazione, la nascita, e l’infanzia del Profeta, a partire dall’assedio dell’esercito abissino alla Caaba, la pietra già sacra in tempi preislamici sita al centro della Mecca. L’attacco viene respinto grazie a uno stormo immenso: gli uccelli (detti Ababil) sganciano pietre ardenti e distruggono l’esercito nemico. Una grande luce che illumina il cielo preannuncia l'arrivo del Messaggero, che dunque nasce. Maometto viene allattato anche da una schiava, che da grande farà liberare (come altri schiavi legati sugli scogli in riva al mare in tempesta e destinati al sacrificio umano). Concluso il flashback, la storia  racconta le difficoltà dei musulmani assediati e messi al bando. Infine, un monaco cristiano conferma ad Abu Talib che è arrivato l'ultimo Profeta.

Un kolossal di quasi tre ore, il più costoso della storia del cinema iraniano. “Muhammad, the Messenger of  God” (Mohammad Rasoolollah), che pur guarda ai classici film europei e americani sulla Bibbia e si avvale di un guru della fotografia cinematografica come Vittorio Storaro,  è considerato soprattutto la risposta sciita al vecchio film di Moustapha Akkad “Il messaggio”, finanziato da Gheddafi nel 1976. Le differenze risiedono anzitutto nell’interpretazione del divieto di raffigurare il Profeta. Se nel film di Akkad non veniva per nulla mostrato, Majid Majidi ne inquadra il corpo di spalle o da lontano, senza mai riprendere il viso, e ne fa sentire la voce: le urla da neonato, le preghiere da adulto, alcuni dei rivoluzionari apporti, molto concreti, del suo pensiero: oltre alla liberazione degli schiavi, risalta una sequenza in cui convince un uomo ad accettare la figlia femmina appena nata come una benedizione.
Ovviamente la modalità di rappresentarlo non è stata indolore e ha sollevato polemiche.

Uno degli aspetti maggiormente affrontati è proprio il rapporto del giovane Maometto con le donne della sua famiglia (sviene alla morte della madre Amina…) e con lo zio tutore, mentre altri, anche all’interno della famiglia stessa, sono incapaci di raccoglierne il Messaggio.
La scelta  di concentrarsi su questi anni della vita del Profeta si adatta bene alla poetica del regista, da sempre cantore dell’infanzia, ed è funzionale a evidenziatore il lato umanista e non violento dell'Islam; un biglietto da visita da consegnare a quel pubblico internazionale che ne ha una visione negativa.

Ma Majidi dimostra padronanza anche nell'orchestrare le scene di massa e di battaglia: di grande potenza quella della con ‘L’Esercito degli Elefanti’, gli abissini. Per quanto sia ormai allineato su posizioni istituzionali, l'autore mantiene una sensibilità che gli  consente  di smorzare l’inevitabile magniloquenza, trovando momenti toccanti. Gli si perdonano qualche rallenty di troppo e le musiche pompose. 




Peccato che il film, nonostante la partecipazione di Storaro e del montatore Roberto Perpignani, non sia circolato in occidente, perché avrebbe potuto suscitare interesse.

Io nel mio piccolo ho tradotto in italiano i sottotitoli, molto artigianalmente e senza pretesa precisione. Li potete scaricare cliccando qua:













giovedì 7 febbraio 2019

Che, Ebrahim Hatamikia (2014)






Recensione di Nicola Pezzella

Che  (persiano : چ, prima lettera del cognome di Chamran) è un film di guerra biografico iraniano del 2014 diretto da Ebrahim Hatamikia, che descrive 48 ore della vita di Mostafa Chamran, che fu il primo ministro della difesa post- islamico della rivoluzione iraniana. Il 16 e 17 agosto 1979 fu inviato dall'Ayatollah Khomeini per comandare diverse operazioni militari nella guerra civile nella regione del Kordestan che fu assediata dalle forze anti-rivoluzionarie. Il film è stato presentato al 32° Fajr International Film Festival, e ha vinto due Crystal Simorgh nei campi del miglior editing e dei migliori effetti speciali. Oltre a Chamran, il film parla anche di Asghar Vesali che è stato ucciso durante la guerra e degli abitanti di Paveh nella provincia di Kermanshah.
Hatamikia è un noto regista su temi legati alla guerra Iran-Iraq.
Il film ritrae la figura pacifista-spirituale di Chamran nel contesto dell'assedio della città di Paveh da parte della milizia separatista curda. È riluttante ad uccidere, preferisce negoziare piuttosto che combattere. Questo approccio è in contrasto con il radicale Asghar Vesali (comandante Pasdaran) o leader separatista o dott. Enayati, leader separatista. Stranamente, sebbene si voglia fare un film di esaltazione di un personaggio che come viene spiegato nel film era addestrato alla guerra per aver combattuto in Libano, l'attore Fariborz Arabnias interpreta un "dottore" che non è un buon leader né un buon combattente. Il suo tono di voce è molto pacato, e la sua interpretazione non convince.
Anche il ruolo di Chamran negli eventi del Kordestan non è ritratto bene, quasi il nostro eroe sia solamente spettatore di eventi che sono molto più grandi di lui. Da quello che ho letto, l'insoddisfazione per l'esito del film è stata palese nel pubblico iraniano. Da contraltare allo sviluppo della vicenda, l'aspetto tecnico del film, che è girato benissimo, con effetti speciali, e in qualche caso con uso della computer grafica, non eccessivi, una colonna sonora di qualità. Un prodotto che viene confezionato bene, ma che non funziona molto nella comunicazione, rispetto a molto cinema iraniano prodotto in questi tempi.

sabato 2 febbraio 2019

O Iran, Naser Taghvai (1989)




Mentre si rincorrono le voci su moti rivoluzionari in corso nel paese, un manipolo di soldati della gendarmeria dello scià, in un villaggio di montagna, accoglie il nuovo comandante: il sergente Makvandi, un uomo goffo, baffuto e dalla voce stridula. Tra arresti arbitrari, l'installazione di una nuova fortezza in mezzo alle case, e altre azioni arroganti, il sottufficiale si aliena immediatamente la simpatia degli abitanti del posto, dai commercianti a cui non paga i debiti contratti dalla moglie, a un insegnante di musica malmenato in strada, ai suoi alunni. Quando i malumori dilagano, attribuisce la colpa ai 'traditori' e ai tudeh (comunisti) e annuncia la legge marziale. Un messaggio confidenziale gli intima di revocare il coprifuoco. Un altro gli annuncia che sarà promosso generale, in una giornata di 'celebrazione e... inno'.

Stimato documentarista etnografico, Naser Taghvai, reduce dal classico "Captain Khorshid",  realizza una satira sulla fine del regime monarchico, ottuso e incapace di entrare in sintonia con l'abituale semplicità della vita quotidiana delle persone, ma anche male equipaggiato per condurre una violenza sistematica. Abile metteur en scene, il regista, pure sceneggiatore, si affida alla commedia dagli immediati effetti buffi, partendo da un cast capitanato dal celebre comico Akbar Abdi (e in cui compaiono un soldato nano e un commilitone altissimo...). Ma, oltre alle gag slapstick, il film trova momenti intensi nella vivacità anticonformista dei bambini e in sequenze come quella dell'assolo di violino cui tutta la scuola presta ascolto, approdando a un finale solenne: quando l'insegnante di musica deve intonare l'inno imperiale "O Iran" (Ey Iran), di cui aveva modificato il testo per abbellirlo formalmente, il coro accompagna una sommossa; ne esce un canto della Rivoluzione.
Sarà un caso che il film è realizzato nel decennale degli eventi del 1979?

Inedito in Italia, meno noto di altri lavori di Taghvai.






sabato 26 gennaio 2019

20 Fingers, Mania Akbari (2004)



Dondolando sull'altalena, Mania (Mania Akbari), adulta, ricorda di quando sua madre le chiedeva di smettere di giocare. Seguono sei episodi in cui è in coppia con Bijan (Bijan Daneshmand, anche produttore del film). In auto, su una strada innevata, raccontano dei rispettivi primi giochi erotici da bambini; l'uomo ha in serbo una sorpresa, che si concretizza quando spegne il motore e lo schermo si fa completamente nero per molti secondi. A bordo di una funivia, è la gelosia il tema di dibattito. In moto, con in braccio la figlia Zahra, discutono se abortire il nuovo bambino in arrivo, anche sulla base delle condizioni lavorative di entrambi; dopo un litigio, Mania afferma di non voler più vivere con Bijan. Di nuovo in auto, si confrontano su fedeltà, monogamia, divorzio. Al ristorante, ragionano su come si comporterebbero se fossero nati di genere opposto. Su un treno, Bijan rimprovera alla moglie di aver invitato, in sua assenza, un'amica accompagnata dal suo ragazzo, a lui sconosciuto; Mania rivela di avere avuto un rapporto omosessuale con l'amica. Su una moto d'acqua, Mania racconta quanto è appagante fare l'attrice.

Girato in piani-sequenza della durata di circa dieci minuti l'uno - eccetto il primo e l'ultimo, più brevi - separati da dissolvenze in nero, "20 Fingers" è una riflessione molto teorica, e non troppo appassionante, sulla condizione della donna iraniana, a partire dal microcosmo del rapporto di coppia. La sceneggiatura, a cura della regista, opta per il confronto tra un uomo tradizionalista e una donna liberale, mostrati sia prima del matrimonio sia da coniugati, in una struttura che non segue la consequenzialità temporale. Sin dal primo episodio a due, il migliore e più scioccante del film, si mette però in chiaro la dinamica di sopruso dell'uomo sulla donna: la 'sorpresa' di Bijan è il controllo e la violazione della verginità di Mania, mentre il buio completo non chiarisce le modalità in cui la violenza si è consumata. 
I protagonisti sono sempre a bordo di mezzi di trasporto, tranne nella sequenza del ristorante, in cui tuttavia sullo sfondo c'è il traffico della città. La scelta sta a simboleggiare una società in movimento, che però non si lascia alle spalle una certa mentalità retriva.





Per affrontare temi così espliciti, l'autrice ha modificato completamente lo script che aveva ottenuto il visto censura; il digitale impiegato per le riprese ha consentito di girare al riparo da eccessivi controlli; infine, "20 Fingers" è stato post-prodotto a Londra, con la consapevolezza che sarebbe stato messo al bando in patria.

Lungometraggio d'esordio della regista, è dedicato ad Abbas Kiarostami, che aveva lanciato Mania Akbari come attrice protagonista di "Dieci", a cui "20 Fingers" è chiaramente ispirato.
In Italia, è stato trasmesso da Fuori Orario.

sabato 19 gennaio 2019

Libro: Lo sguardo discreto - Il cinema dell'interiorità da Virginia Woolf a Kiarostami, di Ilaria Gatti (2005)



L'autrice parte di un articolo di Virginia Woolf sul cinema pubblicato dalla rivista "Arts" nel 1926, in cui la scrittrice si lamenta degli stereotipi narrativi in cui cadono i pochi film che le capita di vedere, e brama pellicole capaci di far vedere il pensiero. Ilaria Gatti si muove da queste valutazioni in una direzione estremamente libera, che oltrepassa i rari adattamenti cinematografici dei libri della Woolf per approdare ad alcuni film della storia del cinema in cui è possibile ritrovare uno sguardo scevro da certe convenzioni, basato su stimoli visivi o anche sonori, e che magari la Woolf avrebbe amato.

Uno degli autori di riferimento per questa ricerca è, come da titolo, Abbas Kiarostami; ma ciò che colpisce è come, nell'anno di pubblicazione del volume, sia tutto il cinema iraniano a rappresentare una vera scuola, originale e innovativa.

Un intero capitolo del libro, intitolato "Égard-Regard" è dedicato quasi esclusivamente alla cinematografia persiana: la prima parte "Lo sguardo e il rispetto" affronta cinque film di Kiarostami. Nella trilogia costituita "Dov'è la casa del mio amico", "E la vita continua" e "Sotto gli ulivi", i campi lunghissimi e totali sottolineano la discrezione della mdp attraverso la distanza. Seguono riflessioni su "Il sapore della ciliegia" e "Il vento ci porterà via".

La seconda parte del capitolo, "Sguardi infantili" si concentra su "Il palloncino bianco" e "Lo specchio" (sono frequenti le sequenze in cui gli attori fingono di non voler rimanere tali o decidono di abbandonare il set o pretendono radicali cambiamenti alla loro parte) di Jafar Panahi, "Il silenzio" di Mohsen Makhmalbaf (mostra l'automatica ma consapevole autodifesa dell'interiorità infantile nei confronti del mondo adulto, non solo aggressivo e caotico, ma anche sgradevole e dissonante), "Piccoli ladri" di Marziyeh Meshkini. Il quinto film passato in rassegna è italiano, "Domenica" di Wilma Labate, ma presenta clacson, rumori, voci, richiami per i vicoli: proprio come la Teheran di tanto cinema iraniano.

Piccoli ladri

Tornerà mai, quest'ultimo, ad essere un punto di riferimento a livello mondiale?













domenica 13 gennaio 2019

Libro: Abbas Kiarostami - Immaginare la vita, Dario Cecchi (2013). Intervista all'autore

I libri sul cineasta iraniano più celebre a livello internazionale sono molteplici e dal taglio più disparato. "Abbas Kiarostami - Immaginare la vita", Edizioni Fondazione Ente dello Spettacolo, si differenzia dagli altri per un'impostazione volta innanzi tutto a collocare la biografia e il cinema del regista nel contesto della cultura del suo paese d'origine. Nella storia dell'Iran, e nell'essere persiano di Kiarostami, il volume individua le prime chiavi d'accesso a film che, nel corso del tempo, diventano più universali e di impronta profondamente filosofica. L'autore Dario Cecchi, docente all'Università La Sapienza di Roma, ha gentilmente concesso questa intervista al blog. 





Kiarostami non è considerato un regista 'politico', ma dalla tua analisi emerge un autore che, negli anni di carriera che precedono la grande ribalta internazionale, guarda con occhio critico a una società che cambia. Come è stato possibile in un ambiente produttivo come quello del Kanun, un istituto pedagogico statale che attraversa indenne la Rivoluzione e che fa da scudo protettivo, in qualche modo, ai registi che ci lavorano?

In confronto ad altri registi iraniani, Kiarostami ha sempre avuto un atteggiamento obliquo e distaccato verso la politica e le questioni sociali. In questo si differenzia da uno dei suoi principali allievi, Jafar Panahi. Eppure è molto politico un film diretto da Panahi e sceneggiato da Kiarostami come "Oro rosso". E nei cortometraggi di prima della Rivoluzione Kiarostami riesce ad affrontare questioni politiche, attraverso la chiave dell'adolescenza, facendole passare come questioni educative. Temi come l'esclusione sociale e la differenza tra ceti vengono affrontati in lavori come "Il viaggiatore", "Un abito da matrimonio", "La ricreazione".

Facendo un salto di 10-15 anni, in "Close-Up", il protagonista Sabzian, usurpatore di Mohsen Makhamalbaf , ha un incontro-scontro con due ragazzi della classe media; cinefili, che però non lo riconoscono. Gli antagonisti sono disoccupati, ma hanno comunque una situazione di privilegio rispetto al protagonista.
Quello che Kiarostami non ha mai fatto, se non forse in "Dieci", è cercare un'empatia con una certa intellighenzia iraniana che è anche, in parte, una borghesia più laica e più progressista.


Per i film della Trilogia di Koker ("Dov'è la casa del mio amico", "E la vita continua" e "Sotto gli ulivi") e per ogni film degli anni 90, parli di incontro tra il cinema e una vicenda umana, espressione che trovo molto bella. Come evolve il cinema di Kiarostami da 'diversamente politico', a etico e filosofico?

Kiarostami diventa veramente famoso a livello internazionale con film che funzionano secondo il paradigma delle storie singolari, esemplari, anche paradossali. Prendiamo "Dov'è la casa del mio amico". Un bambino deve raggiungere un altro villaggio, può farlo solo a piedi perché non ha altri mezzi, nessuno gli dà retta; e lo fa solo per restituire un quaderno a un suo amico, che altrimenti verrà punito. Sono storie che portano a sviluppare la vicenda più che verso la risoluzione, verso un approfondimento della realtà, attraverso l'espediente della vicenda narrativa. In questo modo, Kiarostami è riuscito a parlare a un pubblico internazionale nel senso più alto del termine, non perché ha creato semplicemente un'estetica visiva che fosse attraente. Anzi ha fatto vedere un Iran fatto di montagne, di paesaggi di campagna, come gli europei e gli americani non l'avrebbero immaginato. Non ha solleticato un immaginario, ha saputo lavorare su un nucleo narrativo originale, il cui significato più profondo ha a che fare con il cinema, con l'idea di cosa fa il cinema con il tempo dell'esperienza vissuta.

Dov'è la casa del mio amico


C'è una sequenza molto bella di "Sotto gli ulivi", che è tutto costruito su un gioco di specchi, con Kiarostami che mette in scena Kiarostami che va a Koker a girare "E la vita continua". Sul set di "E la vita continua" nasce una contrastata storia d'amore tra un ragazzo e una ragazza del paese che collaborano alla lavorazione, come comparse o in vari modi. C'è una scena nel cimitero del paesino dove a un certo punto, rincorrendo la ragazza, il ragazzo va a 'intruppare' nella troupe che sta girando una scena di "E la vita continua", e lì compare Kiarostami vero, non l'attore che fa il regista nel film. Kiarostami esibisce il fatto che la finzione sta lavorando non su una storia ben fatta, chiusa in se stessa, dove tutti i meccanismi tornano, ma sta invece comunicando che tipo di esperienza ha vissuto il regista. In questo modo Kiarostami ragiona sulla forma-cinema e sul modo in cui il cinema afferra il tempo dell'esperienza umana e lo trasforma in qualcosa di ricco di senso.


Secondo te è stato influenzato dalle scuole europee, o era esclusivamente, profondamente persiano?

Sulle influenze è stato sempre evasivo, si è presentato come uno che ha fatto l'Accademia di pittura, che andava poco al cinema, che poi ha lavorato come pubblicitario. Quasi una specie di buon selvaggio del cinema.
Io penso che, se ci sono dei registi che possono averlo influenzato, siano alcuni giapponesi, in particolare certo Kurosawa e Ozu. Penso che abbia condiviso una cosa detta da  quest'ultimo. Nei suoi scritti sul cinema, tradotti in italiano e pubblicati da Donzelli, Ozu dice che i critici hanno creduto che lui fosse un regista sperimentale, per il modo con cui riprendeva i volti e soprattutto i dialoghi tra due persone, che contraddiceva le regole del montaggio hollywoodiano per cui bisogna creare dei raccordi che diano l'impressione che due persone si stiano guardando in faccia. Ozu dice: 'In realtà io sto ragionando sul modo reale con cui due giapponesi dialogano: nel piccolo spazio di una stanza tradizionale giapponese, in ginocchio, sul tatami'. Ozu smonta la tesi di uno sperimentalismo fine a se stesso, e lo riporta all'idea che la macchina da presa debba essere al servizio della rielaborazione di un'esperienza vissuta, così come essa si dà. Se infrange le regole del montaggio hollywoodiano è perché sta affrontando una situazione che quel tipo di montaggio non ha preso in considerazione. Kiarostami si è mosso in modo simile; è un regista profondamente iraniano senza bisogno di dover mimare i luoghi comuni della cultura alta iraniana. Ad esempio, non ha subito necessariamente l'influenza della la miniatura nella costruzione dell'inquadratura, ma il suo cinema ha a che fare col modo con cui gli iraniani, in particolare della capitale Teheran e di alcune regioni del nord, verso il Mar Caspio, vivono la quotidianità.

Kiarostami con Akira Kurosawa



A proposito di montaggio, Kiarostami afferma di non voler montare troppo i film per non esagerare il senso di veridicità delle immagini, per non sbattere la realtà in faccia allo spettatore. Da profano, mi pare una sorta di rovesciamento della teoria di Bazin sul montaggio proibito. Cosa ne pensi?

Kiarostami è stato un beniamino dei Cahiers e in generale della critica francese, ed è per certi versi un baziniano di seconda generazione. Per lui, se da una parte si deve evitare il senso di costruzione di una realtà troppo facile che l'automatismo del montaggio potrebbe portare, al tempo stesso non si deve cadere nell'idea che il montaggio sia proibito sempre e comunque. Per Kiarostami il montaggio è significativo, e uno dei 'compiti' di un grande regista è provare a esibire più forme possibili in cui il cinema può elaborare grammatiche del montaggio. Ora, non ci sarà mai una grammatica universale; quella è un'illusione, però possiamo immaginare il lavoro dei grandi registi come una specie di 'fallire meglio', per dirla alla Beckett, che va verso un ideale, irraggiungibile ma che è necessario porsi, di una grammatica del montaggio. Chi ha capito molto bene questo approccio è Pietro Montani che, tornandoci in diversi libri, lo definisce 'etica della testimonianza': con l'immagine cinematografica ci puoi fare molte cose, dalla fantasmagoria all'illusione della realtà perfetta, oppure ti puoi fare carico del fatto che testimonia qualcosa e chiederti a che condizioni di montaggio ti puoi occupare di quella testimonianza.


Ho notato che ti soffermi su un film normalmente considerato minore: "Abc Africa". Qual è l'importanza di questo documentario?

Per me è molto importante proprio perché ragiona su come il cinema può testimoniare la realtà; perché è un raro caso di documentario vero e proprio - diciamo così - in cui Kiarostami recepisce il compito tematizzando la sua funzione di testimone. Inoltre è uno dei film in cui ha sperimentato l'uso del digitale e quindi anche di dispositivi molto leggeri; in cui egli stesso si fa riprendere mentre riprende, recuperando l'idea vertoviana del 'cineocchio' che è capace anche di guardare se stesso. Questo è importante perché strappa Kiarostami dall'immagine del cantastorie, un cliché in cui è facile cadere per un regista iraniano, e lo restituisce a quella di un regista capace di riflettere sul potere dell'immagine. Ci sono varie sequenze interessanti da questo punto di vista; è tutto tranne che un film realistico. In una di queste, girando per una specie di suk della località ugandese dove sta filmando, si imbatte in una donna che gli parla, e lui ha sovrapposto un audio in persiano, totalmente irrealistico. Questo perché Kiarostami sta lavorando sull'immagine, non sulla composizione di una storia credibile.


Qual è il film di Kiarostami che preferisci e per quale motivo?

Per ragioni sentimentali, e anche un po' irrazionali, "Il sapore della ciliegia". Può sembrare anche macabro, ma l'aspirante suicida è il personaggio di Kiarostami con cui empatizzo di più. Poi in realtà è un suicida strano, uno che si dà delle regole folli per uccidersi, forse non vuole farlo veramente, ma si interroga sul senso della vita.
C'è un aspetto autobiografico: l'interlocutore anziano, che fa di tutto per convincerlo a desistere, ma che poi accetta l'eventuale compito di becchino, infarcisce  il loro dialogo di racconti e di apologhi. Questo mi ha fatto pensare al rapporto che io avevo col mio nonno iraniano, che aveva un po' questo approccio, che deriva profondamente da una cultura mediorientale, della trasmissione di un certo sapere in parte popolare, in parte oggetto di una trasmissione orale, in parte no. Questo aspetto del film è riuscito a catturarmi.
Poi, la cosa che trovo straordinaria, è che il film finisca con le immagini della lavorazione. Tu non sai come finisce la parte narrativa, se il protagonista nella buca, illuminato dalla luce incerta di un lampo, è morto o no. Poi uno stacco, ed ecco lui redivivo. Al di là di qualsiasi spiegazione - forse un significato razionale non lo deve neanche avere - trovo questo di una potenza straordinaria, e non finisce di affascinarmi.




Tu sei stato tra i pochi fortunati ad assistere al Tazieh, spettacolo di teatro tradizionale persiano, messo in scena da Kiarostami in Italia e non replicato. Che ricordo hai di quella esperienza irripetibile?


Lo vidi all'India [teatro di Roma], dove venne messo in scena in prima internazionale, poi credo che abbiano fatto una sorta di video installazione al Centre Pompidou a Parigi perché ne parla Marie-José Mondzain in un suo saggio. A me è piaciuto molto.
A posteriori mi sono un pochino documentato sul tazieh; è una cosa strana. Primo perché nel mondo islamico non ci sono forme tradizionali di teatro - valga il racconto di Borges su Averroè che non sa come tradurre 'commedia' e 'tragedia' nella "Poetica" di Aristotele -, invece c'è una forma di teatro che pare apparire in Iran intorno alla fine del XVIII secolo, che è un teatro popolare di tradizione religiosa, che racconta le storie degli imam, dei martiri, eccetera. 'Tazieh' in persiano vuol dire 'cordoglio' ed è proprio l'espressione di quel sentimento, tant'è che le persone si mettono a piangere, hanno reazioni di dolore plateali.
La cosa interessante è che Kiarostami ha fatto un'operazione molto semplice: in un'arena, quindi in uno spazio che ha la forma più di un circo che di un teatro, ha messo degli schermi dove, nel momento culminante, si vede una piccola folla di persone in Iran che, assistendo a quella scena, si mette a piangere. Un tentativo di farti sentire parte di quella comunità. Un'operazione se vuoi banale, ma che andava fatta. Andava sperimentato il fatto che le immagini non solo risvegliano dei sentimenti, delle passioni, ma, facendo questo, creano comunità.
La Mondzain sostiene che questo è un motivo per cui le immagini possono svolgere una funzione politica, creando un legame di partecipazione a una comunità, reale o immaginaria. Kiarostami ha fatto dunque un'operazione interessante. Peccato ne abbia fatta una sola. Tornando al discorso iniziale, se avesse voluto fare un cinema dichiaratamente politico, avrebbe dovuto probabilmente, per indole, proseguire su quella traccia. E allora sarebbe stato scomodo, perché aveva un certa sensibilità per un sentire comune diffuso degli iraniani al di là delle ideologie, o delle appartenenze sociali, o delle scuole culturali di provenienza.


Per concludere. Nel libro, che è del 2013, definisci Kiarostami come un regista cinematografico che si è cimentato anche in altre arti che, tutto sommato, sono attività collaterali. Nel frattempo stava uscendo "Qualcuno da amare", poi tanta video arte, infine uscirà postumo "24 Frames". Anche alla luce del fatto che valuti gli ultimi lavori per il cinema ("Shirin", "Copia conforme") come un po' autoreferenziali, sei ancora convinto di quella definizione? E vale anche per l'ultima fase della carriera di Kiarostami?

Il rischio dell'autoreferenzialità c'è, e tra l'altro "Shirin" non l'ho neanche particolarmente amato. Però ho visto "24 Frames" in un festival a Roma e, per quanto contenga quasi degli haiku, dei piccoli frammenti in sé conclusi, ho avuto la conferma che l'ispirazione di fondo di Kiarostami è quella del regista di cinema. Per quanto quei 24 frames sembrino quasi delle video installazioni, sono a loro modo un'interrogazione sulla questione del fuori campo, di quante cose possono accadere - cinematograficamente parlando -  anche con un'inquadratura fissa, solo mettendosi in ascolto del fuori campo dell'immagine, o interrogando la soglia tra campo e fuori campo.

Dunque Kiarostami resta un regista di cinema. Poi, ovviamente, la corruzione della fama (lo dico esagerando) lo ha portato anche a fare cose più commerciali ("Copia conforme" l'ho trovato un tentativo di rifare se stesso in un altro contesto ma con meno convinzione), oppure esperimenti che a prima vista possono apparire più da arte contemporanea. Però in "24 Frames" ho ritrovato il pensiero di un regista di cinema.









sabato 5 gennaio 2019

Libro: Abbas Kiarostami - L'evidenza del film, Jean-Luc Nancy (2004)


Probabilmente dico troppo in una volta e troppo velocemente. Ma è così che funziona con un film. 
È la simultaneità di una successione: il paradosso del continuo. Jean-Luc Nancy




Un libro sul cinema scritto da un illustre filosofo non può che essere un evento. E così fu per "Abbas Kiarostami - L'evidenza del film" di Jean-Luc Nancy, studioso di questioni politico-sociali e dichiaratamente inesperto (o quasi) di cinema, che nel 2001, epoca in cui i libri su Abbas Kiarostami si moltiplicavano, si aggiunse ai tanti commentatori del più celebre regista persiano, per altro suo coetaneo. Uscito in Italia nel 2004, il testo si era già aggiudicato il Premio Filmcritica 'Umberto Barbaro', e da allora figura in quasi tutte le bibliografie sull'argomento.

Aperto da una nota di Edoardo Bruno e una prefazione di Alfonso Cariolato, il libro si struttura poi in quattro parti. Una riflessione su una dozzina di temi, che corrispondono ad altrettanti paragrafi, che il filosofo rileva nei film del cineasta, dal "Rispetto" a... "Che cosa rotola", dallo "Sguardo" al "Trasporto". Un mini saggio è dedicato a "E la vita continua", il film galeotto che ha suscitato l'interesse e l'entusiasmo di Nancy (come del resto dell'altro Jean-Luc: Godard). Segue una conversazione tra lo studioso e lo studiato, in cui si indagano ad esempio i rapporti di Kiarostami con l'arte tradizionale persiana. Chiudono il volume, in appendice, due interviste rispettivamente a Nancy e a Kiarostami, già comparse su Filmcritica.




Si tratta di un saggio così fondamentale? Probabilmente no, almeno per chi cerca analisi più aderenti al testo filmico, che si possono ritrovare in tanti libri su un cineasta studiatissimo. Lo sguardo eterodosso di un outsider di grande cultura extracinematografica, che sceglie Kiarostami come emblema di molto cinema contemporaneo, a cui ritiene di poter allargare la riflessione, produce alcune intuizioni argute, ma di rado illuminanti, alternate a lunghe elucubrazioni non tanto vacue, quanto piuttosto risapute (l'autore ne è consapevole e mette spesso le mani avanti). Se forse non ci eravamo accorti che, all'epoca, un regista così metacinematografico non aveva ambientato alcun film in una sala cinematografica, il fatto che nei dialoghi non impieghi il classico campo/controcampo non può certo suscitare la sorpresa del lettore. Figuriamoci di chi gli dedica un libro.

mercoledì 26 dicembre 2018

Viaggio a Kandahar, Mohsen Makhmalbaf (2001)




Nafas, giornalista e ricercatrice afgana emigrata da tempo in Canada, dal confine dell'Iran cerca di raggiungere la natia Kandahar. Sua sorella, l'unica della famiglia a non essersi traferita, tramite una lettera ha manifestato l'intenzione di suicidarsi (oggi, ormai, una sorta di leitmotiv del cinema iraniano) in corrispondenza dell'ultima (metaforica?) eclissi di sole del secolo. La missiva è passata attraverso vari campi profughi ed è giunta a destinazione a soli tre giorni dall'ultimatum. Un uomo la accompagna, facendola passare per una delle sue mogli. Derubati della vettura su cui viaggiavano, l'uomo e i suoi famigliari tornano indietro.
Nafas prosegue nel deserto, in compagnia di un bambino che si guadagna da vivere cantando. Questi, con immenso shock della donna, raccoglie un anello da uno scheletro. Probabilmente bevendo acqua dal pozzo, la giornalista si ammala e viene portata nella tenda di un medico, che in realtà è un ex soldato afroamericano, arruolatosi volontario contro i sovietici, e restato per cercare Dio aiutando il prossimo. L'uomo si offre di guidarla nel prosieguo del viaggio. Lungo la strada, caricano un uomo e lo conducono a un presidio della Croce Rossa. Qui operatrici a capo scoperto distribuiscono protesi,  rifornite da elicotteri che le paracadutano dall'alto (è la scena madre del film) a chi ha perso le gambe.
Giunti infine alle soglie di Kandahar, l'americano torna indietro a causa di precedenti guai con la giustizia locale. Nafas si aggrega a un corteo di donne avvolte in burqa variopinti, dirette a un matrimonio in città. In realtà qualcuno ne approfitta per raggiungere altre destinazioni o perseguire altri obiettivi. A un posto di blocco, una banda di fondamentalisti fermano uomini camuffati e donne che portano libri o strumenti musicali. Nafas, che si spaccia per la cugina della sposa, può proseguire.

Una delle prime e delle principali tappe di un vasto percorso che Mohsen Makhmalbaf, la sua famiglia e la Makhmalbaf Film House intraprendono, prima di trasferirsi in esilio in Europa, intorno alla questione afgana, a cavallo della svolta epocale dal regime talebano all'occupazione americana. L'attività comprende saggi, appelli politici, avviamento di istituzioni scolastiche, film documentari e di fiction, di produzione ancora persiana, ma rivolti anche al mercato internazionale. Il grande successo di "Viaggio a Kandahar" (Safar e Ghandehar), uno dei film iraniani più visti di sempre, che esce poco dopo gli attentati dell'11 settembre 2001 e per questo suscita enorme interesse, consente anche di finanziare il primo film di produzione prettamente afgana del nuovo corso politico: "Osama" (2003), diretto dal regista locale Siddiq Barmak. 





Ma torniamo a "Kandahar". Il punto di vista è quello dello straniero, in qualche modo occidentalizzato, ma che ha comunque un legame con questa realtà, molto più arretrata di quella da cui proviene. Vale anche per il regista iraniano, ma soprattutto per la protagonista e i suoi accompagnatori, che si 'proteggono' passandosi, come il testimone di una staffetta, bandierine dell'Onu da esporre in evidenza, e si districano nell'ambiente elargendo dollari americani a destra e a manca; vale per la troupe presente alla partenza del viaggio di Nafas, che scatta istantanee alle famiglie autoctone; vale per l'afroamericano e per le crocerossine.
Questo sguardo si concentra in particolare su due aspetti drammatici. In primis gli effetti devastanti delle mine antiuomo disseminate durante l'occupazione sovietica e le guerre tribali e interetniche. Le protesi distribuite gratuitamente, contrabbandate, piovute dal cielo, inseguite correndo sulle stampelle, punteggiano l'intera pellicola, mentre uno degli insegnamenti rivolti alle bambine è di non raccogliere da terra le bambole, perché potrebbero esplodere.
In secundis la condizione femminile, vista attraverso il simbolo del burqa. La protagonista, sempre accompagnata da una presenza maschile nel suo percorso, afferma in apertura e in chiusura (la struttura del film è circolare) che si è sempre opposta alle limitazioni della libertà femminile, ma che accetta di indossare questo abito umiliante per aiutare la sorella, ponendosi nella stessa situazione delle donne del posto. L'ultima inquadratura è una soggettiva attraverso la grata generata dal burqa; anche il cinema si mette in quei panni.
Di contrappunto, emerge una voglia di bellezza, un'esigenza estetica da parte della popolazione locale, preoccupata non solo dalle difficoltà pratiche. Sotto il velo le donne prestano cura allo smalto per le unghie e scelgono i migliori braccialetti; un uomo pretende per la moglie protesi snelle, perché con altre più grosse e solide si metterebbe a piangere. Nel finale, al posto di blocco sono donne in nero ('teste nere' è anche il soprannome di chi indossa il velo integrale) a perquisire le donne in festa sotto i burqa multicolori.

Ingiustamente accusato di estetismo e di speculazione sui mutilati dalle mine da chi non capisce come la bellezza delle immagini possa essere un'apertura verso la speranza. Scrive così Morando Morandini a proposito di una critica pressoché unanime rivolta al film. In effetti, i limiti di "Viaggio a Kandahar" sembrano piuttosto essere altri. La necessità didattica forza a tratti la narrazione.
Da un lato è interessante il meccanismo per cui prima assistiamo a scene di vita locale, e solo successivamente la protagonista approda sul posto, come nella sequenza in cui un mullah fa inneggiare i giovanissimi scolari alla spada e al kalashnikov contro gli infedeli. Chi non studia non potrà diventare un talebano, mestiere prestigioso, e sarà costretto a fare l'operaio. Ovviamente la religione oscurantista è una delle questioni sollevate, come quando l'uomo derubato ringrazia comunque Dio dell'ingiustizia subita.
Dall'altro lato è un artificio contradditorio quello del registratore con cui Nafas raccoglie ciò che è a metà un diario/reportage e un messaggio vocale: il racconto dell'Afghanistan dei talebani non può essere d'interesse per sua sorella, che è la destinataria dell'audio, ma che vive la situazione in prima persona. Anche il finale irrisolto, espediente utilizzato pure da Samira Makhmalbaf in un film sul periodo post-talebani, "Alle cinque della sera", denuncia una certa pretestuosità di tutto il narrato.
Resta la capacità scenografica del regista. La sequenza migliore è quella nella capanna del medico, che tra l'altro ha pochi peli e indossa una barba finta per essere accettato nell'ambiente. Egli visita le pazienti dalla fessura di una tenda-separè da cui spuntano sinuosamente solo una bocca, o un orecchio, mentre le indicazioni vengono riferite da un terzo situato all'esterno. 
Non si tratterà del capolavoro di Makhmalbaf, però "Viaggio a Kandahar" non merita l'oblio cui sembra destinato, dopo il trionfo iniziale.



In originale recitato in persiano, inglese e pashtu. Il multilinguismo si perde nell'edizione italiana.

Polemiche ha suscitato la scelta dell'attore che interpreta il medico: si tratta di uno statunitense, convertito all'Islam, che nel 1980 assassinò un oppositore di Khomeini.






venerdì 21 dicembre 2018

The Shallow Yellow Sky, Bahram Tavakoli (2013)


Ghazal (Taraneh Alidoosti) e Merhad (Saber Abar), si trasferiscono in un'abitazione temporanea. La moglie ha perso tutti i componenti della sua famiglia in un incidente d'auto, in cui non è chiaro chi fosse il guidatore, ed è mentalmente disorientata, fa confusione tra immaginazione e realtà. Il marito, invece, per prendersi cura di lei ha lasciato il suo lavoro come fotografo di ambienti naturali. Malgrado lo scopo del trasferimento fosse migliorare la relazione, il rapporto viene ulteriormente minato quando l'auto che affittano a una coppia di sposini rimane coinvolta in un incidente stradale.

Stimato dalla critica in patria e poco esportato, "The Shallow Yellow Sky" (Asemane Zarde Kam Omgh) vuole essere una riflessione sulla ricerca dei significati perduti all'interno della vita di coppia, sulla scorta di tanto cinema iraniano attuale, e sulla bellezza svanita del mondo. Ma si rivela soprattutto un apprezzabile esercizio di regia di più attori in un luogo circoscritto, in cui l'unità spaziale è rispettata, mentre la struttura temporale alterna presente e passato.

Teatrale nella messa in scena, punteggiato dal rumore dei passi dei protagonisti, il racconto si appoggia su metafore non così originali: la precarietà dell'alloggio rispecchia quella esistenziale, i colori lividi si contrappongono allo splendore delle foto di Merhad. Il basso cielo giallo del titolo è il verso di una poesia ripetuta da Ghazal.


venerdì 14 dicembre 2018

Viva...!, Khosrow Sinai (1980)





Nei giorni prima della Rivoluzione, durante una manifestazione, un giovane militante si nasconde in una casa per sfuggire alle forze governative. Il padre della famiglia che vive nell'abitazione, un ingegnere benestante, inizialmente non vuole dare rifugio al ragazzo, ma presto il suo punto di vista cambia. Il giovane prende confidenza con i membri della famiglia, e quando un agente di sicurezza irrompe nella casa, i proprietari non lo consegnano, continuano a coprirlo a oltranza. Le conseguenze sono infine tragiche.

I primi film iraniani dopo i fatti del '79 si concentrano sistematicamente sulle violenze e le delazioni della Savak, la temibile polizia politica dello scià. I rivoluzionari sono rappresentati alla stregua di gangster all'interno di un nuovo cinema di genere, battezzato in vari modi (filmfarsi religioso, film Savak, film di guerriglia) e generalmente stroncato dalla critica. "Viva...!" (Zendeh bad), primo lungometraggio di fiction di Khosrow Sinai, ne condivide il tema ma si differenzia per modalità produttive e riuscita. Dopo le sequenze iniziali, incentrate sui moti di piazza e la repressione poliziesca, il  film è girato quasi esclusivamente all'interno dell'abitazione del regista, allestita all'uopo da sua moglie, la pittrice Gizella Varga, mentre le figlie figurano tra gli attori. 




In questo ambiente claustrofobico, il film sfrutta i meccanismi di suspense del cinema di genere, mentre il piano politico è al contempo esplicito e sottile: se l'uccisione dell'agente che cerca il fuggiasco è significativamente accostata, in montaggio parallelo, a scene in cui vengono fucilati manifestanti inermi, d'altra parte non è volutamente chiaro a quale fazione appartenga il militante, e a chi sia riferito il grido che dà il titolo al film e che apre e chiude la pellicola.
Molto belli e curati i titoli di testa, secondo una tradizione che si è persa negli ultimi decenni.
Il film è stato bloccato in patria, poiché le attrici non indossano il velo.

Il regista, formatosi a Vienna, è soprattutto un veterano del documentario (spesso a tema arte), attivo dagli anni 60 fino ad oggi. È anche musicista e compositore. 

















domenica 2 dicembre 2018

Genova Film Festival con Babak Karimi

Al via il 20° Genova Film Festival, 100 proiezioni, incontri con attori, registi e critici, concorsi, anteprime e lezioni di cinema

Dall’Iran arriva Babak Karimi, protagonista di due Premi Oscar, l’attrice Giorgia Würth incontra il pubblico e presenta il suo primo film da regista

Babak Karimi in Una separazione


Dal 3 al 9 dicembre 2018 si terrà la ventesima edizione del GENOVA FILM FESTIVAL, l'evento cinematografico più importante della Liguria, moltissimi gli appuntamenti in programma per un'intensa settimana di proiezioni (circa 100) ed incontri nel centro storico cittadino, a partire dalle sezioni competitive del Festival, diventate nel corso degli anni un’importante vetrina del nostro cinema. Il Festival, ad ingresso gratuito, è diretto da Cristiano Palozzi e organizzato dall’Associazione Culturale Daunbailò.

Grande ospite del Festival, l’iraniano Babak Karimi, protagonista della sezione Ingrandimenti curata dal critico e autore televisivo Oreste De Fornari.
Attore, montatore, produttore e operatore di ripresa, personaggio di culto amato dagli addetti al settore per la sua poliedricità, protagonista, tra l'altro, di ben due Premi Oscar come Miglior film straniero e vincitore dell'Orso d'Argento al Festival di Berlino per "Una separazione" di Asghar Farhadi, Babak Karimi arriverà appositamente da Teheran per incontrare il pubblico giovedì 6 dicembre alle ore 21, a Palazzo della Meridiana, in una sorta di lezione di cinema in cui si ripercorrerà la sua carriera con proiezioni e racconti in un continuo dialogo con gli spettatori. Il Festival aprirà il 3 dicembre alle 21 al Cinema/Teatro Altrove proprio con Una separazione di Asghar Farhadi. Tra i film presentati in settimana anche Placido Rizzotto diretto da Pasquale Scimeca e montato da Babak Karimi e dedicato al sindacalista rapito e ucciso da Cosa Nostra nel 1948.

Iraniano, Babak Karimi nasce all’estero, più precisamente a Praga, nel 1960. È un “figlio d’arte”: suo padre, Nosrat Karimi, è attore, regista e drammaturgo; sua madre, Alam Danai, è a sua volta attrice di teatro e regista. Non sorprende dunque che Babak debutti all’età di soli dieci anni sul grande schermo, recitando in "Doroshkechi", diretto e interpretato da suo padre, un film che è considerato la pietra miliare del neorealista iraniano. Nel 1971, sebbene ancora giovanissimo, si trasferisce in Italia per ripresa e montaggio all'Istituto di Stato per la Cinematografia e la Televisione "Roberto Rossellini". Collaborando con la pittrice Mahshid Mussavi, riesce a far distribuire per la prima volta in Italia un film iraniano ("Bashu, il piccolo straniero", di Bahram Beizai) nel 1991: da questa operazione si divide tra Iran e Italia, portando avanti un importante lavoro di connessione e promozione culturale tra questi due paesi, curando in prima persona il doppiaggio di molte pellicole di registi connazionali, tra cui Abbas Kiarostami, Mohsen Makhmalbaf, Jafar Panahi, Abolfazl Jalili e Asghar Farhadi.

Con Kiarostami

Artista poliedrico, si occupa anche di montaggio, che insegna per un periodo presso il Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma. Come montatore, negli anni ’90 avvia una collaborazione con Pasquale Scimeca che andrà avanti per oltre un decennio, lavorando a film quali Placido Rizzotto e Gli indesiderabili. Nel 2011 torna in patria su invito dell'amico Asghar Farhadi per il suo film "Una separazione", Premio Oscar 2012 al Miglior film in lingua straniera (candidato anche alla Miglior sceneggiatura originale): la sua interpretazione gli vale l'Orso d'argento come miglior attore al Festival di Berlino 2011.


La collaborazione con Farhadi prosegue per i due film successivi del regista: "Il passato" (2013) e "Il cliente" (2016), vincitore del Prix du scénario al Festival di Cannes 2016 e Premio Oscar 2017 al Miglior film in lingua straniera. Per tutte e tre le pellicole, Karimi si occupa del doppiaggio, doppiando personalmente in italiano i suoi personaggi. È consulente sul cinema iraniano per la Biennale Cinema di Venezia. Recentemente il pubblico italiano ha potuto apprezzarlo anche in "Finché c’è Prosecco c’è speranza", di Antonio Padovan, e nella serie TV Rai "La linea verticale."
Come attore: "Doroshkechi" (1971) di Nosrat Karimi, "Last Minute Marocco" (2007), di Francesco Falaschi, "Caos calmo" (2008) di Antonello Grimaldi, "Ex" (2009) di Fausto Brizzi, "L'amore non basta (quasi mai...)" (2011) di Antonello Grimaldi – Miniserie TV – Canale 5, "Una separazione" (2011) di Asghar Farhadi, "Il passato" (2013) di Asghar Farhadi, "Fish & Cat" (2013) di Shahram Mokri, "Il cliente" (2016) di Asghar Farhadi, "A Wedding" (2016) di Stephan Streker, Finché c'è Prosecco c'è speranza (2017) di Antonio Padovan, "Invasion" (2017) di Shahram Mokri, "La linea verticale" (2018) di Mattia Torre – Serie TV – Rai 3.

Come montatore: "I briganti di Zabùt" (1997) di Pasquale Scimeca, "Dancing North" (1999) di Paolo Quaregna,"Placido Rizzotto" (2000) di Pasquale Scimeca, "Il voto è segreto" (2001) di Babak Payami, "Quello che cerchi " (2001) di Marco Simon Puccioni, "Gli indesiderabili" (2003) di Pasquale Scimeca, "L'isola" (2003) di Costanza Quatriglio, "Tickets" (2005) di Ermanno Olmi, Abbas Kiarostami e Ken Loach, "La passione di Giosué l’ebreo" (2005) di Pasquale Scimeca, "Rosso Malpelo" (2007) di Pasquale Scimeca, "Il bambino della domenica" (2008) di Maurizio Zaccaro – Miniserie TV – Rai 1, "Green Days" (2009) di Hana Makhmalbaf, "Lo smemorato di Collegno" (2009) di Maurizio Zaccaro – Miniserie TV – Rai 1, "Le ragazze dello swing" (2010) di Maurizio Zaccaro - miniserie TV – Rai 1.

Lunedì 3 dicembre, ore 21:00, Teatro Altrove
Una separazione di Asghar Farhadi (Iran, 2011, 123')

Martedì 4 dicembre, ore 15:30, Teatro Altrove
Placido Rizzotto di Pasquale Scimeca (Italia, 2000, 110')

Giovedì 6 dicembre, ore 21:00, Palazzo della Meridiana
Incontro con l’attore, montatore, produttore e operatore di ripresa Babak Karimi e il critico e autore TV Oreste De Fornari. Durante la serata si ripercorrerà la carriera di Babak Karimi con proiezioni ed interviste. Interviene lo sceneggiatore e regista Giovanni Robbiano. Presenta Cristiano Palozzi, direttore del Genova Film Festival

giovedì 29 novembre 2018

Tre volti, Jafar Panahi (2018)



Il primo volto è quello di una ragazza, Marzieh, a cui la famiglia ha proibito di frequentare l'accademia di recitazione a Teheran. Ha filmato il proprio suicidio col telefonino ed è misteriosamente riuscita a inoltrare il video messaggio via Telegram. Destinataria, l'attrice Behnaz Jafari, il secondo volto, conosciuto in tutto il paese grazie alle serie tv (in Italia si è vista in "Lavagne" di Samira Makhmalbaf). Sconvolta dalla visione, è già partita con Jafar Panahi, di notte, in automobile, verso la remota provincia dell'Azerbaijan Orientale, di cui Panahi è originario anche se, essendo 'solo' un regista cinematografico, in zona nessuno lo conosce. Il messaggio sarà autentico? O una messinscena, magari architettata dallo stesso regista?
Panahi fa l'ennesimo film sul cinema, ma il discrimine tra realtà e finzione lo interessa relativamente; l'enigma del video messaggio è risolto neanche a metà film. Il discorso è ben più articolato e si muove in direzioni inedite.


A differenza di "Taxi Teheran", che era alquanto autocelebrativo, "Tre volti" (Se rokh) è innanzi tutto un grande omaggio al mentore Abbas Kiarostami e al cinema che faceva negli anni 90; a quello sguardo, dal finestrino di un auto, capace di riflettere sulla morte. E sulla vita. Riaffiora "Il sapore della ciliegia" quando il film parla di suicidio, anche assistito (che Panahi, vedendo un toro agonizzante, ammette per gli anziani in difficoltà); o quando si vede una donna prepararsi all'aldilà adagiandosi in una fossa; o nel colore della terra che domina il paesaggio collinare. 

Ma si ritrova anche "Il vento ci porterà via", nel viaggio di un regista verso una zona remota del paese, con difficoltà a trovare campo per il cellulare, a indagare su questioni funebri e alla scoperta di usanze locali bizzarre, qui anche 'basse' (si parla, con un certo effetto imbarazzante, di cadaveri che defecano, di prepuzi sacri e propiziatori, dei genitali del suddetto toro). Per Panahi, è inoltre l'occasione di abbandonare l'amata Teheran (era capitato solo in "Closed Curtain") alla ricerca delle proprie radici nell'area di Mianeh, suo luogo natio secondo l'anagrafe, ma in realtà, come rivelato a Jean-Michel Frodon, luogo di provenienza della famiglia in cui suo padre ha voluto registrarlo.

(In una sequenza Jafar farfuglia qualcosa in azero, subito stoppato da un abitante del luogo, che gli chiede di procedere in persiano. Purtroppo questo dialogo è sparito nell'edizione italiana, a cura di Babak Karimi. Tuttavia la versione doppiata è preferibile, poiché il film fa largo uso di voce off - fuori campo - e diventa complicato leggere i sottotitoli senza perdere qualche dettaglio visivo).

Ma l'omaggio più toccante arriva dall'ultima sequenza, con Mazieh che insegue/'corteggia' Behnaz procedendo verso valle, ripresa in campo lunghissimo da una camera fissa posta a monte. La scena ricalca il finale di "Sotto gli ulivi", film in cui un giovane Panahi compariva nella parte di se stesso, assistente alla regia del maestro. 'Signor Panahi!', lo chiamavano nella pellicola del 1994. Nello stesso modo deferente si rivolge a lui Behnaz Jafari in "Tre volti".

Va detto che lo stile non è felice come quello di Kiarostami, il senso di costruito è maggiore, manca quella straordinaria abilità nel far recitare gli attori con naturalezza, nello scrivere dialoghi profondi nella loro quotidiana semplicità - cosa che all'allievo riesce solo a tratti - e nel comporre l'inquadratura. Però Panahi persegue anche altri obiettivi, coerenti con la propria poetica. La riflessione si allarga infatti alla difficoltà di fare cinema in Iran, e a un interessante excursus storico, che culmina con due evocazioni del cinema prerivoluzionario, a confronto con il presente.* E il discorso si intreccia con la questione femminile, da sempre cara all'autore, che qui evidenzia maggiormente le dinamiche patriarcali.



Il passato ritorna, da un lato, nel personaggio di Shahrzad, il terzo volto, che non ci è dato vedere. La donna recitava e ballava nei film commerciali del genere cosiddetto filmfarsi, messo poi al bando in epoca khomeinista. L'ostracismo verso gli attori dell'epoca, specie di quei film 'peccaminosi', le impedisce di lavorare e l'ha portata a isolarsi nella propria abitazione modesta, consolandosi solo, di nascosto, con la pittura e con la poesia. Ma lo stigma della comunità è subito anche dalla giovane Marzieh, il mestiere dell'attore è ancora percepito, nelle piccole località rurali, come una devianza da scongiurare. Le tre donne giungono anche a un momento di confronto nella casa di Sharzad, ma la macchina da presa non le disturba e rimane all'esterno, nell'abitacolo dell'auto di Panahi.

Dall'altro lato, un anziano signore ha ancora un modello di riferimento: l'attore Behrouz Vossoughi, celeberrimo in patria, con i suoi personaggi virili che, dalla fine degli anni 60, hanno guidato il cinema iraniano nel passaggio dal filmfarsi (e dal sottogenere del 'tough guy', 'il duro') alla Nuovelle Vague, dal cinema di genere a quello d'autore. L'uomo conserva ancora la locandina di "Tangsir", opera giovanile di Amir Naderi (che ha diretto anche Shahrzad in "Tangna", mentre la coppia Vossoughi-Shahrzad compare in "Gheisar" di Masoud Kimiai, uno dei più grandi successi della storia in Persia). Vuole che Panahi consegni al divo un particolare messaggio con dono... Ma Vossoughi non può tornare in Iran, mentre Panahi non può uscire dal paese!



Quanto agli ostacoli di oggi, e ai cambiamenti intercorsi, non deve sfuggire l'accenno al ruolo della tecnologia e dei nuovi media, che non solo consentono agli aspiranti artisti di trovare espedienti per diffondere la propria voce, e realizzare video di qualità professionale, ma anche allo stesso Panahi di continuare a fare film in clandestinità; in questo caso, utilizzando una videocamera molto flessibile inviatagli da sua figlia, che risiede in Francia. Alla Jafari che si dispera per aver abbandonato il set ('della signora Hekhmat': verosimilmente questo film) per inseguire Marzieh, il nostro risponde che dalle difficolà può nascere qualcosa di positivo.
Certo, in queste condizioni, i film di Panahi denotano spesso una presenza ingombrante del loro artefice; ma non è detto che non sia una precisa scelta espressiva e che verrebbe abbandonata una volta ottenuto il nulla osta delle autorità. In ogni caso, la sua riflessione acquisisce di volta in volta maggiore complessità, e merita di essere seguita.

"Tre volti" ha vinto il Premio per la migliore sceneggiatura a Cannes 71. Contrariamente  a quanto era  avvenuto  per "Taxi Teheran", in  cui  il  nome  dei collaboratori  non  appariva  nei  titoli  di  coda,  questa  volta  c'è  il  cast  tecnico  al  completo. Forse il clima in Iran sta cambiando, e la questione Panahi è in via di risoluzione.


*Continua dunque la rinnovata attenzione verso il cinema iraniano degli anni 60 e 70, che avevamo già rilevato in film come "Il cliente" e "A Dragon Arrives!"