Fa piacere rivedere sui nostri schermi, in prima visione, i film di Jafar Panahi, regista
tra i più grandi (ma sovente sottovalutati o trascurati) della nostra
epoca. Poco male per noi - non certo per lui - se a rifare luce sulla
sua figura siano state principalmente le vicissitudini giudiziarie,
mentre ulteriori riflettori si sono accesi grazieall’Orso d’oro ottenuto
allo scorso Festival di Berlino.
Panahi è un cineasta
condannato al silenzio dal regime iraniano degli ayatollah, che gli
vieta di girare nuovi film. Un artista, tuttavia, può sempre aguzzare
l’ingegno e trovare espedienti per aggirare gli ostacoli. Il Nostro è
così riuscito, complice la tecnologia che consente di filmare con
apparecchiature sempre più piccole, a produrre nuovo materiale e a
recapitarlo clandestinamente nei festival internazionali.
Se ciò
non è bastato a garantire una distribuzione italiana a due
lungometraggi recenti,finalmente l’ultimo, splendido “Taxi Teheran” è
invece visibile agli spettatori della Penisola, mentre la Cineteca di
Milano dedica una retrospettiva al regista. Avrà influito anche il
disgelo nelle relazioni diplomatiche con l’Iran? Poco importa… veniamo
piuttosto al film.
Panahi è alla guida di
un’utilitaria, nelle vesti di tassista (clandestino: poteva essere
altrimenti?) e filma con una telecamera nascosta i passeggeri. Il gioco
del regista è porre dei dubbi agli spettatori: i passeggeri recitano un
copione, o sono ignari dell’esperimento? Il discorso pirandelliano sul
cinema nel cinema è un classico della cinematografia persiana, così come
l’espediente di osservare la realtà da un abitacolo; Panahi eredita
tali stilemi dal suo mentore ed ex sceneggiatore Abbas Kiarostami. Ma
aggiunge tanto di proprio pugno: l’ironia, innanzi tutto; e poi la vis
polemica. Fattori che, amalgamati insieme, determinano uno stile
decisamente personale. E il pubblico italiano come reagisce? Il successo
arride a un film uscito in sordina, ma ora disponibile in sempre più
sale.
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