I libri sul cineasta iraniano più celebre a livello internazionale sono molteplici e dal taglio più disparato. "Abbas Kiarostami - Immaginare la vita", Edizioni Fondazione Ente dello Spettacolo, si differenzia dagli altri per un'impostazione volta innanzi tutto a collocare la biografia e il cinema del regista nel contesto della cultura del suo paese d'origine. Nella storia dell'Iran, e nell'essere persiano di Kiarostami, il volume individua le prime chiavi d'accesso a film che, nel corso del tempo, diventano più universali e di impronta profondamente filosofica. L'autore Dario Cecchi, docente all'Università La Sapienza di Roma, ha gentilmente concesso questa intervista al blog.
Kiarostami non è considerato un regista 'politico', ma dalla tua analisi emerge un autore che, negli anni di carriera che precedono la grande ribalta internazionale, guarda con occhio critico a una società che cambia. Come è stato possibile in un ambiente produttivo come quello del Kanun, un istituto pedagogico statale che attraversa indenne la Rivoluzione e che fa da scudo protettivo, in qualche modo, ai registi che ci lavorano?
In confronto ad altri registi iraniani, Kiarostami ha sempre avuto un atteggiamento obliquo e distaccato verso la politica e le questioni sociali. In questo si differenzia da uno dei suoi principali allievi, Jafar Panahi. Eppure è molto politico un film diretto da Panahi e sceneggiato da Kiarostami come "Oro rosso". E nei cortometraggi di prima della Rivoluzione Kiarostami riesce ad affrontare questioni politiche, attraverso la chiave dell'adolescenza, facendole passare come questioni educative. Temi come l'esclusione sociale e la differenza tra ceti vengono affrontati in lavori come "Il viaggiatore", "Un abito da matrimonio", "La ricreazione".
Facendo un salto di 10-15 anni, in "Close-Up", il protagonista Sabzian, usurpatore di Mohsen Makhamalbaf , ha un incontro-scontro con due ragazzi della classe media; cinefili, che però non lo riconoscono. Gli antagonisti sono disoccupati, ma hanno comunque una situazione di privilegio rispetto al protagonista.
Quello che Kiarostami non ha mai fatto, se non forse in "Dieci", è cercare un'empatia con una certa intellighenzia iraniana che è anche, in parte, una borghesia più laica e più progressista.
Per i film della Trilogia di Koker ("Dov'è la casa del mio amico", "E la vita continua" e "Sotto gli ulivi") e per ogni film degli anni 90, parli di incontro tra il cinema e una vicenda umana, espressione che trovo molto bella. Come evolve il cinema di Kiarostami da 'diversamente politico', a etico e filosofico?
Kiarostami diventa veramente famoso a livello internazionale con film che funzionano secondo il paradigma delle storie singolari, esemplari, anche paradossali. Prendiamo "Dov'è la casa del mio amico". Un bambino deve raggiungere un altro villaggio, può farlo solo a piedi perché non ha altri mezzi, nessuno gli dà retta; e lo fa solo per restituire un quaderno a un suo amico, che altrimenti verrà punito. Sono storie che portano a sviluppare la vicenda più che verso la risoluzione, verso un approfondimento della realtà, attraverso l'espediente della vicenda narrativa. In questo modo, Kiarostami è riuscito a parlare a un pubblico internazionale nel senso più alto del termine, non perché ha creato semplicemente un'estetica visiva che fosse attraente. Anzi ha fatto vedere un Iran fatto di montagne, di paesaggi di campagna, come gli europei e gli americani non l'avrebbero immaginato. Non ha solleticato un immaginario, ha saputo lavorare su un nucleo narrativo originale, il cui significato più profondo ha a che fare con il cinema, con l'idea di cosa fa il cinema con il tempo dell'esperienza vissuta.
C'è una sequenza molto bella di "Sotto gli ulivi", che è tutto costruito su un gioco di specchi, con Kiarostami che mette in scena Kiarostami che va a Koker a girare "E la vita continua". Sul set di "E la vita continua" nasce una contrastata storia d'amore tra un ragazzo e una ragazza del paese che collaborano alla lavorazione, come comparse o in vari modi. C'è una scena nel cimitero del paesino dove a un certo punto, rincorrendo la ragazza, il ragazzo va a 'intruppare' nella troupe che sta girando una scena di "E la vita continua", e lì compare Kiarostami vero, non l'attore che fa il regista nel film. Kiarostami esibisce il fatto che la finzione sta lavorando non su una storia ben fatta, chiusa in se stessa, dove tutti i meccanismi tornano, ma sta invece comunicando che tipo di esperienza ha vissuto il regista. In questo modo Kiarostami ragiona sulla forma-cinema e sul modo in cui il cinema afferra il tempo dell'esperienza umana e lo trasforma in qualcosa di ricco di senso.
Secondo te è stato influenzato dalle scuole europee, o era esclusivamente, profondamente persiano?
Sulle influenze è stato sempre evasivo, si è presentato come uno che ha fatto l'Accademia di pittura, che andava poco al cinema, che poi ha lavorato come pubblicitario. Quasi una specie di buon selvaggio del cinema.
Io penso che, se ci sono dei registi che possono averlo influenzato, siano alcuni giapponesi, in particolare certo Kurosawa e Ozu. Penso che abbia condiviso una cosa detta da quest'ultimo. Nei suoi scritti sul cinema, tradotti in italiano e pubblicati da Donzelli, Ozu dice che i critici hanno creduto che lui fosse un regista sperimentale, per il modo con cui riprendeva i volti e soprattutto i dialoghi tra due persone, che contraddiceva le regole del montaggio hollywoodiano per cui bisogna creare dei raccordi che diano l'impressione che due persone si stiano guardando in faccia. Ozu dice: 'In realtà io sto ragionando sul modo reale con cui due giapponesi dialogano: nel piccolo spazio di una stanza tradizionale giapponese, in ginocchio, sul tatami'. Ozu smonta la tesi di uno sperimentalismo fine a se stesso, e lo riporta all'idea che la macchina da presa debba essere al servizio della rielaborazione di un'esperienza vissuta, così come essa si dà. Se infrange le regole del montaggio hollywoodiano è perché sta affrontando una situazione che quel tipo di montaggio non ha preso in considerazione. Kiarostami si è mosso in modo simile; è un regista profondamente iraniano senza bisogno di dover mimare i luoghi comuni della cultura alta iraniana. Ad esempio, non ha subito necessariamente l'influenza della la miniatura nella costruzione dell'inquadratura, ma il suo cinema ha a che fare col modo con cui gli iraniani, in particolare della capitale Teheran e di alcune regioni del nord, verso il Mar Caspio, vivono la quotidianità.
A proposito di montaggio, Kiarostami afferma di non voler montare troppo i film per non esagerare il senso di veridicità delle immagini, per non sbattere la realtà in faccia allo spettatore. Da profano, mi pare una sorta di rovesciamento della teoria di Bazin sul montaggio proibito. Cosa ne pensi?
Kiarostami è stato un beniamino dei Cahiers e in generale della critica francese, ed è per certi versi un baziniano di seconda generazione. Per lui, se da una parte si deve evitare il senso di costruzione di una realtà troppo facile che l'automatismo del montaggio potrebbe portare, al tempo stesso non si deve cadere nell'idea che il montaggio sia proibito sempre e comunque. Per Kiarostami il montaggio è significativo, e uno dei 'compiti' di un grande regista è provare a esibire più forme possibili in cui il cinema può elaborare grammatiche del montaggio. Ora, non ci sarà mai una grammatica universale; quella è un'illusione, però possiamo immaginare il lavoro dei grandi registi come una specie di 'fallire meglio', per dirla alla Beckett, che va verso un ideale, irraggiungibile ma che è necessario porsi, di una grammatica del montaggio. Chi ha capito molto bene questo approccio è Pietro Montani che, tornandoci in diversi libri, lo definisce 'etica della testimonianza': con l'immagine cinematografica ci puoi fare molte cose, dalla fantasmagoria all'illusione della realtà perfetta, oppure ti puoi fare carico del fatto che testimonia qualcosa e chiederti a che condizioni di montaggio ti puoi occupare di quella testimonianza.
Ho notato che ti soffermi su un film normalmente considerato minore: "Abc Africa". Qual è l'importanza di questo documentario?
Per me è molto importante proprio perché ragiona su come il cinema può testimoniare la realtà; perché è un raro caso di documentario vero e proprio - diciamo così - in cui Kiarostami recepisce il compito tematizzando la sua funzione di testimone. Inoltre è uno dei film in cui ha sperimentato l'uso del digitale e quindi anche di dispositivi molto leggeri; in cui egli stesso si fa riprendere mentre riprende, recuperando l'idea vertoviana del 'cineocchio' che è capace anche di guardare se stesso. Questo è importante perché strappa Kiarostami dall'immagine del cantastorie, un cliché in cui è facile cadere per un regista iraniano, e lo restituisce a quella di un regista capace di riflettere sul potere dell'immagine. Ci sono varie sequenze interessanti da questo punto di vista; è tutto tranne che un film realistico. In una di queste, girando per una specie di suk della località ugandese dove sta filmando, si imbatte in una donna che gli parla, e lui ha sovrapposto un audio in persiano, totalmente irrealistico. Questo perché Kiarostami sta lavorando sull'immagine, non sulla composizione di una storia credibile.
Qual è il film di Kiarostami che preferisci e per quale motivo?
Per ragioni sentimentali, e anche un po' irrazionali, "Il sapore della ciliegia". Può sembrare anche macabro, ma l'aspirante suicida è il personaggio di Kiarostami con cui empatizzo di più. Poi in realtà è un suicida strano, uno che si dà delle regole folli per uccidersi, forse non vuole farlo veramente, ma si interroga sul senso della vita.
C'è un aspetto autobiografico: l'interlocutore anziano, che fa di tutto per convincerlo a desistere, ma che poi accetta l'eventuale compito di becchino, infarcisce il loro dialogo di racconti e di apologhi. Questo mi ha fatto pensare al rapporto che io avevo col mio nonno iraniano, che aveva un po' questo approccio, che deriva profondamente da una cultura mediorientale, della trasmissione di un certo sapere in parte popolare, in parte oggetto di una trasmissione orale, in parte no. Questo aspetto del film è riuscito a catturarmi.
Poi, la cosa che trovo straordinaria, è che il film finisca con le immagini della lavorazione. Tu non sai come finisce la parte narrativa, se il protagonista nella buca, illuminato dalla luce incerta di un lampo, è morto o no. Poi uno stacco, ed ecco lui redivivo. Al di là di qualsiasi spiegazione - forse un significato razionale non lo deve neanche avere - trovo questo di una potenza straordinaria, e non finisce di affascinarmi.
Tu sei stato tra i pochi fortunati ad assistere al Tazieh, spettacolo di teatro tradizionale persiano, messo in scena da Kiarostami in Italia e non replicato. Che ricordo hai di quella esperienza irripetibile?
Lo vidi all'India [teatro di Roma], dove venne messo in scena in prima internazionale, poi credo che abbiano fatto una sorta di video installazione al Centre Pompidou a Parigi perché ne parla Marie-José Mondzain in un suo saggio. A me è piaciuto molto.
A posteriori mi sono un pochino documentato sul tazieh; è una cosa strana. Primo perché nel mondo islamico non ci sono forme tradizionali di teatro - valga il racconto di Borges su Averroè che non sa come tradurre 'commedia' e 'tragedia' nella "Poetica" di Aristotele -, invece c'è una forma di teatro che pare apparire in Iran intorno alla fine del XVIII secolo, che è un teatro popolare di tradizione religiosa, che racconta le storie degli imam, dei martiri, eccetera. 'Tazieh' in persiano vuol dire 'cordoglio' ed è proprio l'espressione di quel sentimento, tant'è che le persone si mettono a piangere, hanno reazioni di dolore plateali.
La cosa interessante è che Kiarostami ha fatto un'operazione molto semplice: in un'arena, quindi in uno spazio che ha la forma più di un circo che di un teatro, ha messo degli schermi dove, nel momento culminante, si vede una piccola folla di persone in Iran che, assistendo a quella scena, si mette a piangere. Un tentativo di farti sentire parte di quella comunità. Un'operazione se vuoi banale, ma che andava fatta. Andava sperimentato il fatto che le immagini non solo risvegliano dei sentimenti, delle passioni, ma, facendo questo, creano comunità.
La Mondzain sostiene che questo è un motivo per cui le immagini possono svolgere una funzione politica, creando un legame di partecipazione a una comunità, reale o immaginaria. Kiarostami ha fatto dunque un'operazione interessante. Peccato ne abbia fatta una sola. Tornando al discorso iniziale, se avesse voluto fare un cinema dichiaratamente politico, avrebbe dovuto probabilmente, per indole, proseguire su quella traccia. E allora sarebbe stato scomodo, perché aveva un certa sensibilità per un sentire comune diffuso degli iraniani al di là delle ideologie, o delle appartenenze sociali, o delle scuole culturali di provenienza.
Per concludere. Nel libro, che è del 2013, definisci Kiarostami come un regista cinematografico che si è cimentato anche in altre arti che, tutto sommato, sono attività collaterali. Nel frattempo stava uscendo "Qualcuno da amare", poi tanta video arte, infine uscirà postumo "24 Frames". Anche alla luce del fatto che valuti gli ultimi lavori per il cinema ("Shirin", "Copia conforme") come un po' autoreferenziali, sei ancora convinto di quella definizione? E vale anche per l'ultima fase della carriera di Kiarostami?
Il rischio dell'autoreferenzialità c'è, e tra l'altro "Shirin" non l'ho neanche particolarmente amato. Però ho visto "24 Frames" in un festival a Roma e, per quanto contenga quasi degli haiku, dei piccoli frammenti in sé conclusi, ho avuto la conferma che l'ispirazione di fondo di Kiarostami è quella del regista di cinema. Per quanto quei 24 frames sembrino quasi delle video installazioni, sono a loro modo un'interrogazione sulla questione del fuori campo, di quante cose possono accadere - cinematograficamente parlando - anche con un'inquadratura fissa, solo mettendosi in ascolto del fuori campo dell'immagine, o interrogando la soglia tra campo e fuori campo.
Dunque Kiarostami resta un regista di cinema. Poi, ovviamente, la corruzione della fama (lo dico esagerando) lo ha portato anche a fare cose più commerciali ("Copia conforme" l'ho trovato un tentativo di rifare se stesso in un altro contesto ma con meno convinzione), oppure esperimenti che a prima vista possono apparire più da arte contemporanea. Però in "24 Frames" ho ritrovato il pensiero di un regista di cinema.
Facendo un salto di 10-15 anni, in "Close-Up", il protagonista Sabzian, usurpatore di Mohsen Makhamalbaf , ha un incontro-scontro con due ragazzi della classe media; cinefili, che però non lo riconoscono. Gli antagonisti sono disoccupati, ma hanno comunque una situazione di privilegio rispetto al protagonista.
Quello che Kiarostami non ha mai fatto, se non forse in "Dieci", è cercare un'empatia con una certa intellighenzia iraniana che è anche, in parte, una borghesia più laica e più progressista.
Per i film della Trilogia di Koker ("Dov'è la casa del mio amico", "E la vita continua" e "Sotto gli ulivi") e per ogni film degli anni 90, parli di incontro tra il cinema e una vicenda umana, espressione che trovo molto bella. Come evolve il cinema di Kiarostami da 'diversamente politico', a etico e filosofico?
Kiarostami diventa veramente famoso a livello internazionale con film che funzionano secondo il paradigma delle storie singolari, esemplari, anche paradossali. Prendiamo "Dov'è la casa del mio amico". Un bambino deve raggiungere un altro villaggio, può farlo solo a piedi perché non ha altri mezzi, nessuno gli dà retta; e lo fa solo per restituire un quaderno a un suo amico, che altrimenti verrà punito. Sono storie che portano a sviluppare la vicenda più che verso la risoluzione, verso un approfondimento della realtà, attraverso l'espediente della vicenda narrativa. In questo modo, Kiarostami è riuscito a parlare a un pubblico internazionale nel senso più alto del termine, non perché ha creato semplicemente un'estetica visiva che fosse attraente. Anzi ha fatto vedere un Iran fatto di montagne, di paesaggi di campagna, come gli europei e gli americani non l'avrebbero immaginato. Non ha solleticato un immaginario, ha saputo lavorare su un nucleo narrativo originale, il cui significato più profondo ha a che fare con il cinema, con l'idea di cosa fa il cinema con il tempo dell'esperienza vissuta.
Dov'è la casa del mio amico
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C'è una sequenza molto bella di "Sotto gli ulivi", che è tutto costruito su un gioco di specchi, con Kiarostami che mette in scena Kiarostami che va a Koker a girare "E la vita continua". Sul set di "E la vita continua" nasce una contrastata storia d'amore tra un ragazzo e una ragazza del paese che collaborano alla lavorazione, come comparse o in vari modi. C'è una scena nel cimitero del paesino dove a un certo punto, rincorrendo la ragazza, il ragazzo va a 'intruppare' nella troupe che sta girando una scena di "E la vita continua", e lì compare Kiarostami vero, non l'attore che fa il regista nel film. Kiarostami esibisce il fatto che la finzione sta lavorando non su una storia ben fatta, chiusa in se stessa, dove tutti i meccanismi tornano, ma sta invece comunicando che tipo di esperienza ha vissuto il regista. In questo modo Kiarostami ragiona sulla forma-cinema e sul modo in cui il cinema afferra il tempo dell'esperienza umana e lo trasforma in qualcosa di ricco di senso.
Secondo te è stato influenzato dalle scuole europee, o era esclusivamente, profondamente persiano?
Sulle influenze è stato sempre evasivo, si è presentato come uno che ha fatto l'Accademia di pittura, che andava poco al cinema, che poi ha lavorato come pubblicitario. Quasi una specie di buon selvaggio del cinema.
Io penso che, se ci sono dei registi che possono averlo influenzato, siano alcuni giapponesi, in particolare certo Kurosawa e Ozu. Penso che abbia condiviso una cosa detta da quest'ultimo. Nei suoi scritti sul cinema, tradotti in italiano e pubblicati da Donzelli, Ozu dice che i critici hanno creduto che lui fosse un regista sperimentale, per il modo con cui riprendeva i volti e soprattutto i dialoghi tra due persone, che contraddiceva le regole del montaggio hollywoodiano per cui bisogna creare dei raccordi che diano l'impressione che due persone si stiano guardando in faccia. Ozu dice: 'In realtà io sto ragionando sul modo reale con cui due giapponesi dialogano: nel piccolo spazio di una stanza tradizionale giapponese, in ginocchio, sul tatami'. Ozu smonta la tesi di uno sperimentalismo fine a se stesso, e lo riporta all'idea che la macchina da presa debba essere al servizio della rielaborazione di un'esperienza vissuta, così come essa si dà. Se infrange le regole del montaggio hollywoodiano è perché sta affrontando una situazione che quel tipo di montaggio non ha preso in considerazione. Kiarostami si è mosso in modo simile; è un regista profondamente iraniano senza bisogno di dover mimare i luoghi comuni della cultura alta iraniana. Ad esempio, non ha subito necessariamente l'influenza della la miniatura nella costruzione dell'inquadratura, ma il suo cinema ha a che fare col modo con cui gli iraniani, in particolare della capitale Teheran e di alcune regioni del nord, verso il Mar Caspio, vivono la quotidianità.
Kiarostami con Akira Kurosawa
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A proposito di montaggio, Kiarostami afferma di non voler montare troppo i film per non esagerare il senso di veridicità delle immagini, per non sbattere la realtà in faccia allo spettatore. Da profano, mi pare una sorta di rovesciamento della teoria di Bazin sul montaggio proibito. Cosa ne pensi?
Kiarostami è stato un beniamino dei Cahiers e in generale della critica francese, ed è per certi versi un baziniano di seconda generazione. Per lui, se da una parte si deve evitare il senso di costruzione di una realtà troppo facile che l'automatismo del montaggio potrebbe portare, al tempo stesso non si deve cadere nell'idea che il montaggio sia proibito sempre e comunque. Per Kiarostami il montaggio è significativo, e uno dei 'compiti' di un grande regista è provare a esibire più forme possibili in cui il cinema può elaborare grammatiche del montaggio. Ora, non ci sarà mai una grammatica universale; quella è un'illusione, però possiamo immaginare il lavoro dei grandi registi come una specie di 'fallire meglio', per dirla alla Beckett, che va verso un ideale, irraggiungibile ma che è necessario porsi, di una grammatica del montaggio. Chi ha capito molto bene questo approccio è Pietro Montani che, tornandoci in diversi libri, lo definisce 'etica della testimonianza': con l'immagine cinematografica ci puoi fare molte cose, dalla fantasmagoria all'illusione della realtà perfetta, oppure ti puoi fare carico del fatto che testimonia qualcosa e chiederti a che condizioni di montaggio ti puoi occupare di quella testimonianza.
Ho notato che ti soffermi su un film normalmente considerato minore: "Abc Africa". Qual è l'importanza di questo documentario?
Per me è molto importante proprio perché ragiona su come il cinema può testimoniare la realtà; perché è un raro caso di documentario vero e proprio - diciamo così - in cui Kiarostami recepisce il compito tematizzando la sua funzione di testimone. Inoltre è uno dei film in cui ha sperimentato l'uso del digitale e quindi anche di dispositivi molto leggeri; in cui egli stesso si fa riprendere mentre riprende, recuperando l'idea vertoviana del 'cineocchio' che è capace anche di guardare se stesso. Questo è importante perché strappa Kiarostami dall'immagine del cantastorie, un cliché in cui è facile cadere per un regista iraniano, e lo restituisce a quella di un regista capace di riflettere sul potere dell'immagine. Ci sono varie sequenze interessanti da questo punto di vista; è tutto tranne che un film realistico. In una di queste, girando per una specie di suk della località ugandese dove sta filmando, si imbatte in una donna che gli parla, e lui ha sovrapposto un audio in persiano, totalmente irrealistico. Questo perché Kiarostami sta lavorando sull'immagine, non sulla composizione di una storia credibile.
Qual è il film di Kiarostami che preferisci e per quale motivo?
Per ragioni sentimentali, e anche un po' irrazionali, "Il sapore della ciliegia". Può sembrare anche macabro, ma l'aspirante suicida è il personaggio di Kiarostami con cui empatizzo di più. Poi in realtà è un suicida strano, uno che si dà delle regole folli per uccidersi, forse non vuole farlo veramente, ma si interroga sul senso della vita.
C'è un aspetto autobiografico: l'interlocutore anziano, che fa di tutto per convincerlo a desistere, ma che poi accetta l'eventuale compito di becchino, infarcisce il loro dialogo di racconti e di apologhi. Questo mi ha fatto pensare al rapporto che io avevo col mio nonno iraniano, che aveva un po' questo approccio, che deriva profondamente da una cultura mediorientale, della trasmissione di un certo sapere in parte popolare, in parte oggetto di una trasmissione orale, in parte no. Questo aspetto del film è riuscito a catturarmi.
Poi, la cosa che trovo straordinaria, è che il film finisca con le immagini della lavorazione. Tu non sai come finisce la parte narrativa, se il protagonista nella buca, illuminato dalla luce incerta di un lampo, è morto o no. Poi uno stacco, ed ecco lui redivivo. Al di là di qualsiasi spiegazione - forse un significato razionale non lo deve neanche avere - trovo questo di una potenza straordinaria, e non finisce di affascinarmi.
Tu sei stato tra i pochi fortunati ad assistere al Tazieh, spettacolo di teatro tradizionale persiano, messo in scena da Kiarostami in Italia e non replicato. Che ricordo hai di quella esperienza irripetibile?
Lo vidi all'India [teatro di Roma], dove venne messo in scena in prima internazionale, poi credo che abbiano fatto una sorta di video installazione al Centre Pompidou a Parigi perché ne parla Marie-José Mondzain in un suo saggio. A me è piaciuto molto.
A posteriori mi sono un pochino documentato sul tazieh; è una cosa strana. Primo perché nel mondo islamico non ci sono forme tradizionali di teatro - valga il racconto di Borges su Averroè che non sa come tradurre 'commedia' e 'tragedia' nella "Poetica" di Aristotele -, invece c'è una forma di teatro che pare apparire in Iran intorno alla fine del XVIII secolo, che è un teatro popolare di tradizione religiosa, che racconta le storie degli imam, dei martiri, eccetera. 'Tazieh' in persiano vuol dire 'cordoglio' ed è proprio l'espressione di quel sentimento, tant'è che le persone si mettono a piangere, hanno reazioni di dolore plateali.
La cosa interessante è che Kiarostami ha fatto un'operazione molto semplice: in un'arena, quindi in uno spazio che ha la forma più di un circo che di un teatro, ha messo degli schermi dove, nel momento culminante, si vede una piccola folla di persone in Iran che, assistendo a quella scena, si mette a piangere. Un tentativo di farti sentire parte di quella comunità. Un'operazione se vuoi banale, ma che andava fatta. Andava sperimentato il fatto che le immagini non solo risvegliano dei sentimenti, delle passioni, ma, facendo questo, creano comunità.
La Mondzain sostiene che questo è un motivo per cui le immagini possono svolgere una funzione politica, creando un legame di partecipazione a una comunità, reale o immaginaria. Kiarostami ha fatto dunque un'operazione interessante. Peccato ne abbia fatta una sola. Tornando al discorso iniziale, se avesse voluto fare un cinema dichiaratamente politico, avrebbe dovuto probabilmente, per indole, proseguire su quella traccia. E allora sarebbe stato scomodo, perché aveva un certa sensibilità per un sentire comune diffuso degli iraniani al di là delle ideologie, o delle appartenenze sociali, o delle scuole culturali di provenienza.
Per concludere. Nel libro, che è del 2013, definisci Kiarostami come un regista cinematografico che si è cimentato anche in altre arti che, tutto sommato, sono attività collaterali. Nel frattempo stava uscendo "Qualcuno da amare", poi tanta video arte, infine uscirà postumo "24 Frames". Anche alla luce del fatto che valuti gli ultimi lavori per il cinema ("Shirin", "Copia conforme") come un po' autoreferenziali, sei ancora convinto di quella definizione? E vale anche per l'ultima fase della carriera di Kiarostami?
Dunque Kiarostami resta un regista di cinema. Poi, ovviamente, la corruzione della fama (lo dico esagerando) lo ha portato anche a fare cose più commerciali ("Copia conforme" l'ho trovato un tentativo di rifare se stesso in un altro contesto ma con meno convinzione), oppure esperimenti che a prima vista possono apparire più da arte contemporanea. Però in "24 Frames" ho ritrovato il pensiero di un regista di cinema.
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