giovedì 23 marzo 2017

Copia conforme, Abbas Kiarostami (2010)

Abbandoniamo eccezionalmente i confini dell’Iran per ripercorrere la più celebre trasferta kiarostamiana. Articolo pubblicato su Ondacinema il 22/05/2010







Erano molte le incognite intorno alla nuova opera di Kiarostami. Innanzi tutto il regista, che ha di recente dichiarato di voler continuare a lavorare in Iran onde evitare la perdita dell'ispirazione, completa un film all'estero. Per la prima volta, come hanno scritto tutti: ma solo se ci si riferisce ai lungometraggi di fiction, altrimenti bisogna aggiungere il documentario "ABC Africa", o l'episodio del film collettivo "Tickets". Regista che inoltre a suo tempo disse, dopo un'esperienza insoddisfacente con uno dei protagonisti di "Sotto gli ulivi", di non desiderare più attori professionisti nei cast. E che opta per una star internazionale come Juliette Binoche, dopo aver fatto "sfilare" le attrici più note del suo Paese più la stessa Binoche in "Shirin". Dopo il mancato Leone d'Oro a "Il vento ci porterà via", sostenne poi di non voler più presentare i suoi film in concorso nei festival. All'ultimo, pare come ripiego, "Copia conforme" è invece in corsa per la Palma d'Oro alla Croisette. Ma la smentita era già arrivata con il film successivo, "Dieci", che partecipò alla medesima competizione. Peculiarità di un autore la cui opera, al pari delle sue esternazioni, ha la sua forza in una commistione unica e inimitabile di coerenza e contraddizione.

Ma i dubbi vertevano anche sul ritorno del regista al cinema narrativo, dopo le recenti (inedite da noi) prolungate sperimentazioni. Sul confronto con più culture straniere, le origini francese e inglese dei protagonisti - una piccola gallerista e un saggista e romanziere (il baritono William Shimell) - e italiana dei personaggi di contorno: tutto a convergere in un'ambientazione rurale toscana. Sull'estrazione sociale dei personaggi principali, così diversi dai precedenti eroi kiarostamiani, grandi e piccini. Sulle convinzioni e sulle difficoltà produttive con cui è portato a compimento un lavoro abbandonato e un anno dopo riesumato: è ipotizzabile la non compresenza degli attori e il ricorso alle controfigure in alcuni insistiti campo/controcampo, come quello nel locale con la gestrice che sussurra qualcosa nell'orecchio della gallerista, mentre inizialmente non si era ben capito cosa avesse fatto (ma questo è parte dello stile dell'autore) o quello della donna con suo figlio, con lei che si allontana, sfocata, in campo lungo.

Per finire coi temi. Il film comincia con una tipica riflessione kiarostamiana su realtà e finzione, la quale, pur permanendo in corso d'opera e influenzando a mo' di basso continuo lo svolgimento successivo, lascia il posto a un complicato e surreale dibattito sulle età del rapporto di coppia: l'incontro e la seduzione, la cerimonia del matrimonio, la vita coniugale, la crescita dei figli, la crisi, la convivenza durante la vecchiaia. Un gioco delle parti e degli specchi, ricchissimo di rimandi e impossibile da cogliere nella sua complessità in un'unica visione e da raccontare in poche righe, interpretato dalla gallerista e dallo scrittore e dai personaggi che incontrano nella loro gita a Lucignano. E un argomento che il regista aveva affrontato una sola volta, nel lontano 1977, nel riuscito e semi-sconosciuto secondo lungometraggio, "Il rapporto", che ancora oggi appare come un corpo estraneo nella sua filmografia.





Se il suo predecessore, mosso dall'autobiografia, era spontaneo e sentito, "Copia conforme" appare invece costruito a tavolino, di maniera, esageratamente intellettualistico. Kiarostami attinge a piene mani dal suo repertorio fatto di fuori campo, effetti di straniamento qui un po' meccanici (il risaputo squillare del telefonino), iterazioni protratte (nella sequenza al ristorante tira davvero la corda, con lo spettatore). Nei suoi capolavori la filosofia sgorgava dalla quotidianità, la riflessione profonda da assunti del tutto semplici, l'incedere quasi estenuante era accompagnato da una straordinaria levità di fondo. Quella di un Eric Rohmer, oggi spesso citato. I punti di convergenza con il maestro della Nouvelle Vague ci sono sempre stati, se non altro per la capacità di entrambi (Kiarostami cura anche la sceneggiatura, oltre che il montaggio) di fare dei dialoghi il vero motore drammaturgico delle loro opere. Le differenze risiedevano nei soggetti dei film e nel ceto, nell'origine, nell'età anagrafica del protagonisti.




Alle prese con il suo film europeo e borghese, Kiarostami realizza però un macchinoso surrogato del suo cinema, non privo di bei momenti (la sequenza caleidoscopica in cui lo scrittore è refrattario nel fare una fotografia agli sposini), che talvolta sfocia in una soap opera dell'incomunicabilità da teatro beckettiano, eccessivamente caricata dalla recitazione professionale degli attori (Shimell qui debutta nel cinema, ma è abituato a stare sul palcoscenico) e appesantita da un'impostazione cerebrale sostanzialmente irrisolta e solo in parte giustificata dalle sovrastrutture mentali tipiche di personaggi acculturati. Un film indubbiamente intelligente ma mai geniale, con un'ombra inedita e preoccupante di cinefilia (la presenza di Jean-Claude Carrière).




Un ultimo interrogativo, allargando il discorso, è se l'iraniano, al pari dei suoi colleghi in voga negli anni novanta e oggi in evidente declino (i Kitano, i Kusturica ecc.), possa annoverarsi tra i grandi cineasti di sempre. Chi scrive continua a considerarlo il maggiore artista vivente e, di fronte a una produzione recente autoreferenziale che poco convince (salvo un unico capolavoro: il documentario "Roads of Kiarostami"), per il momento sospende il giudizio.



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