martedì 6 dicembre 2016

Breve viaggio nel documentario iraniano: la modernità spara alla tradizione

Del vecchio ciò che resta è il piacente profumo di una cultura secolare. Gli abbagli del passato, lievemente smorzati dagli sguardi dei posteri, sono i principali temi trattati dai documentaristi iraniani. Nel 1960, Fereydoun Rahnema realizza “Persepolis”, basato sull’opera epica Il libro dei re (Shāh-Nāmeh) di Ferdowsi. Le silenti rovine di Persepoli narrano la storia del principe Siyâvash costretto a fuggire dalla sua patria per evitare il disonore. Siyâvash sposa la figlia di Afrasiab, re di un piccolo villaggio, ma, viene tradito, è assassinato. Come una guida museale, la cinepresa s’insinua tra le colonne, evita le ombre e celebra le figure dei Medi sulla roccia. S’indugia ancora sul capitello a forma di grifone e, mentre ci si perde tra le bellezze del sito archeologico iraniano, una voce racconta la storia. Seppure realizzato con pochissimi mezzi, l’opera di Rahnema celebra meravigliosamente l’Iran e la sua Storia.

Anche in “Oh Guardian of Deer! (1970) di Parviz Kimiavi, si scava nella tradizione religiosa del Paese. Nella città di Mashhad, è collocato un santuario dedicato all’ottavo Imam Reza, chiamato il “guardiano dei cervi” perché, la leggenda vuole, salvò un cervo inseguito da un cacciatore. Ogni anno, un numero sconsiderato di pellegrini affluisce al luogo religioso. Il lavoro di Kimiavi non è una banale riproposizione del fanatismo religioso né un footage dell’arrivo dei fedeli al sacro reliquiario. Il regista persiano scruta il luogo, indaga il suo spazio, percorre le stanze del santuario tra scintillanti tesori e rare gemme. Le alte volte separano la sacralità al mondo profano dei fedeli. Trafitto, lo spazio si riempie della voce dei fedeli e del suono monocorde delle loro preghiere. Se la prima parte del film si sostanzia dei particolari delle mani e, successivamente, dei piedi dei fedeli; la seconda parte della pellicola è dominata da un suono derivante dall’atto purificatorio di schiaffeggiarsi il petto nudo.

Ma la tradizione deve scontrarsi con l’esasperato progresso del Paese. “A Fire” (1961) ne è la prova. Realizzato da Ebrahim Golestan, uno dei più celebri documentaristi iraniani, e montato da Forough Farrokzhad, “A Fire” mostra la trivellazione del territorio vicino la città di Ahwaz alla ricerca del petrolio. L’oro nero è la massima risorsa dell’Iran eppure è considerata da Golestan come un dono della morte. Infatti, il fuoco si sposa col paesaggio, lo ingloba a sé e ne divora la prole. L’umanità, sua figlia, è immersa dalle fiamme in un’immagine che ritornerà anni dopo in “Apocalisse nel deserto” (1992) di Herzog [Figura 1]. Il documentario, quindi, evidenzia le scelte nefaste dell’uomo e le tragiche conseguenze.




Kianoush Ayari, invece, gira “The Newborns”, in cui dipinge il cambiamento culturale che contraddistinse la società di Teheran nei cinque mesi successivi alla rivoluzione del 1979. Per le strade, l’immagine popolare di Arafat è sostituita da nuovi miti come Bruce Lee o Che Guevara [Figura 2/3/4], i vicoli si riempiono di libri, di imbonitori e abili oratori (basti pensare a Miss Zahra, celebre fondamentalista religiosa conosciuta con il nome di Basijis). Se il progresso in “A Fire assume tinte fosche, nel lavoro di Ayari, invece, la nuova ondata culturale fa risorgere Teheran dalle sue ceneri e ciò che viene offerta è una rappresentazione felice e goliardica del Paese e dei suoi abitanti.






Merita un discorso a parte “The House Is Black” (1963) di Forough Farrokzhad. L’opera della regista è stata definita da Jonathan Rosenbaum come il miglior film iraniano mai realizzato perché dipinge, con poesia, la dura realtà di una comunità di lebbrosi. Scanditi dalle poesie dell’autrice, lette dalla sua solenne voce, i volti dei lebbrosi si esibiscono mostrando i sintomi della malattia che li affligge. Sfigurati dal morbo, essi abitano in una piccola colonia, non ancora accettati dalla società. Eppure si tenta una difficile integrazione. Il processo di normalizzazione passa, anche, attraverso i gesti comuni che, a differenza dei lebbrosi, chiunque farebbe senza enormi difficoltà. C’è, ad esempio, chi fuma nonostante non abbia più una cavità nasale o una donna che elude le complicazioni della malattia truccandosi, perché la ricerca della bellezza è un diritto di ciascun individuo [Figura 5/6]. 

 

"The House Is Black" è volutamente drammatico e le immagini proposte sono, a tratti, crudeli ma ritraggono fedelmente lo stato degli infermi. È un tentativo di svelamento di una condizione che esiste ma spesso è marginalizzata ed accantonata. Perché anche loro sono uomini e non meritano assolutamente di essere gettati nelle fauci edaci della Dimenticanza.


Alessandro Arpa



I film sono visibili qui

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