Del
vecchio ciò che resta è il piacente profumo di una cultura
secolare. Gli abbagli del passato, lievemente smorzati dagli sguardi
dei posteri, sono i principali temi trattati dai documentaristi
iraniani. Nel 1960, Fereydoun Rahnema realizza “Persepolis”,
basato sull’opera epica Il libro dei re
(Shāh-Nāmeh) di Ferdowsi. Le silenti
rovine di Persepoli narrano la storia del principe Siyâvash
costretto a fuggire dalla sua patria per evitare il disonore.
Siyâvash sposa la figlia di Afrasiab, re di un piccolo villaggio,
ma, viene tradito, è assassinato. Come una guida museale, la
cinepresa s’insinua tra le colonne, evita le ombre e celebra le
figure dei Medi sulla roccia. S’indugia ancora sul capitello a
forma di grifone e, mentre ci si perde tra le bellezze del sito
archeologico iraniano, una voce racconta la storia. Seppure
realizzato con pochissimi mezzi, l’opera di Rahnema celebra
meravigliosamente l’Iran e la sua Storia.
Anche
in “Oh Guardian of Deer!” (1970) di Parviz
Kimiavi, si scava nella tradizione religiosa del Paese. Nella
città di Mashhad, è collocato un santuario dedicato all’ottavo
Imam Reza, chiamato il “guardiano dei cervi” perché, la leggenda
vuole, salvò un cervo inseguito da un cacciatore. Ogni anno, un
numero sconsiderato di pellegrini affluisce al luogo religioso. Il
lavoro di Kimiavi non è una banale riproposizione del
fanatismo religioso né un footage dell’arrivo dei fedeli al
sacro reliquiario. Il regista persiano scruta il luogo, indaga il suo
spazio, percorre le stanze del santuario tra scintillanti tesori e
rare gemme. Le alte volte separano la sacralità al mondo profano dei
fedeli. Trafitto, lo spazio si riempie della voce dei fedeli e del
suono monocorde delle loro preghiere. Se la prima parte del film si
sostanzia dei particolari delle mani e, successivamente, dei piedi
dei fedeli; la seconda parte della pellicola è dominata da un suono
derivante dall’atto purificatorio di schiaffeggiarsi il petto nudo.
Ma
la tradizione deve scontrarsi con l’esasperato progresso del Paese.
“A Fire” (1961) ne è la prova. Realizzato da Ebrahim
Golestan, uno dei più celebri documentaristi iraniani, e montato
da Forough Farrokzhad, “A Fire” mostra la
trivellazione del territorio vicino la città di Ahwaz alla ricerca
del petrolio. L’oro nero è la massima risorsa dell’Iran eppure è
considerata da Golestan come un dono della morte. Infatti, il fuoco
si sposa col paesaggio, lo ingloba a sé e ne divora la prole.
L’umanità, sua figlia, è immersa dalle fiamme in un’immagine
che ritornerà anni dopo in “Apocalisse nel deserto”
(1992) di Herzog [Figura 1]. Il documentario, quindi,
evidenzia le scelte nefaste dell’uomo e le tragiche conseguenze.
Kianoush
Ayari, invece, gira “The Newborns”, in cui dipinge il
cambiamento culturale che contraddistinse la società di Teheran nei
cinque mesi successivi alla rivoluzione del 1979. Per le strade,
l’immagine popolare di Arafat è sostituita da nuovi miti come
Bruce Lee o Che Guevara [Figura 2/3/4], i vicoli si riempiono di
libri, di imbonitori e abili oratori (basti pensare a Miss Zahra,
celebre fondamentalista religiosa conosciuta con il nome di Basijis).
Se il progresso in “A Fire” assume tinte fosche, nel
lavoro di Ayari, invece, la nuova ondata culturale fa risorgere
Teheran dalle sue ceneri e ciò che viene offerta è una
rappresentazione felice e goliardica del Paese e dei suoi abitanti.
Merita
un discorso a parte “The House Is Black” (1963) di Forough
Farrokzhad. L’opera della regista è stata definita da
Jonathan Rosenbaum come il miglior film iraniano mai realizzato
perché dipinge, con poesia, la dura realtà di una comunità di
lebbrosi. Scanditi dalle poesie dell’autrice, lette dalla sua
solenne voce, i volti dei lebbrosi si esibiscono mostrando i sintomi
della malattia che li affligge. Sfigurati dal morbo, essi abitano in
una piccola colonia, non ancora accettati dalla società. Eppure si
tenta una difficile integrazione. Il processo di normalizzazione
passa, anche, attraverso i gesti comuni che, a differenza dei
lebbrosi, chiunque farebbe senza enormi difficoltà. C’è, ad
esempio, chi fuma nonostante non abbia più una cavità nasale o una
donna che elude le complicazioni della malattia truccandosi, perché
la ricerca della bellezza è un diritto di ciascun individuo [Figura
5/6].
"The House Is Black" è volutamente drammatico e le immagini proposte
sono, a tratti, crudeli ma ritraggono fedelmente lo stato degli
infermi. È un tentativo di svelamento di una condizione che esiste
ma spesso è marginalizzata ed accantonata. Perché anche loro sono
uomini e non meritano assolutamente di essere gettati nelle fauci
edaci della Dimenticanza.
Alessandro Arpa
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