LA
CULTURA CI SALVERÀ: SAMIRA MAKHMALBAF IN LAVAGNE (2000).
di Alessandro Arpa
Vi sono luoghi in cui vivere è un diritto riservato a pochi, dove si migra perennemente alla ricerca della propria casa con la speranza che non ci siano ospiti indesiderati o una raffica di colpi ad attentare la propria esistenza. Ambientato durante la “Guerra imposta” (La guerra Iran-Iraq), “Lavagne”, con un immancabile approccio etnografico, traccia, indirettamente, i resoconti di una guerra ingiusta indugiando su ciò che era ed ora è rovina e, fornendo, un limpido ritratto dell’ostica situazione del confine tra Iran e Iraq. Il secondo lungometraggio di Samira Makhmalbaf, vincitore del premio della giuria al 53° Festival di Cannes, proprio come l’inizio di “La mela” (1998), differisce dal resto del film e trasuda realtà grazie ai movimenti di macchina a mano che introducono i veri protagonisti dell’opera: una milizia di insegnanti. Tra questi vi è Reeboir che, con una lavagna in spalla, erra tra le nude colline iraniane alla ricerca di studenti a cui insegnare a leggere e a scrivere. Eppure, si sa, l’insegnamento si riduce ad un sogno tramortito perché dove gli schioppi parlano, la cultura tace. E le scene iniziali testimoniano le numerose difficoltà: un aereo sorvola l’area percorsa dagli insegnanti che, utilizzando le lavagne come scudo, creano una sorta di bunker culturale alle minacce dei minus habens. Seppure banale, l’associazione dello stormo che gracchia come anticipazione all’imminente grandinata di proiettili è adeguata e riuscita [Figura 1/2]. Per evitare di essere intercettati dagli aerei di guerra, i maestri decidono di mimetizzarsi con la monocromia dei clivi spargendo della terra sull’ardesia [Figura 3]. Anche la cultura si militarizza.
Separatosi
dal gruppo degli insegnanti, Reeboir continua la sua disperata
peregrinazione. Ma il vagabondaggio sconsolato è rincuorato
dall’incontro di una carovana. Ed ecco che nella narrazione
s’intromette prepotentemente il racconto della diaspora umana. Un
gruppo di civili è stato costretto ad abbandonare il proprio
villaggio, distrutto dai bombardamenti. Il loro sogno è ritornare lì
dove, ora, regna la pace perché, si sa, le macerie non stuzzicano
l’appetito della Distruzione. Essa avanza, furtivamente, senza mai
voltare le spalle. A guidare la fiumana alla sua sorgente è Reeboir,
l’unico a conoscere il sentiero per arrivarci. Durante il
periglioso viaggio, il maestro tenterà di insegnare le basi ai
bambini ma la sopravvivenza renderà il tutto più complesso.
L’educazione diventa quasi superflua ed un inutile peso. Infatti,
un bambino cade fratturandosi la gamba e l’unico rimedio veloce per
lenire il dolore consiste nel rompere la lavagna e usarla come
sostegno [Figura 4/5].
Il
gruppo, dopo aver affrontato le desertiche alture, giunge finalmente
al confine dove lo attende il pericolo più grande: l’uomo. Dei
soldati sorvegliano il territorio e sparano a vista. Superare il
valico sembrerebbe impossibile. Un imprevisto passaggio di un gregge
accende l’arguzia umana. Inginocchiati come delle pecore, i
disperati tentano di eludere le guardie in un commovente inno alla
vita.
Samira
Makhmalbaf predilige, anche nel suo secondo lungometraggio, uno
stampo documentaristico. La cinepresa segue la fatica dei corpi,
scruta la sofferenza dei volti e, attraverso i campi lunghi, dipinge
splendidamente il rapporto uomo-natura. L’occhio della macchina
segue gli impervi fianchi della collina e la traversata degli uomini
che, in alcune scene, ricordano l’inizio di “Aguirre, furore
di Dio” (1972) di Herzog [Figura 6/7/8].
La drammaticità del racconto è smorzato dalla liaison amorosa tra Reeboir e Halaleh, una vedova con un bambino. La freschezza del piccolo concorre ad alleggerire la tragedia raccontata. Ma il tema principale su cui si fonda l’intero film è la speranza che risiede nella cultura. Istruirsi è una funzione sociale perché è l’unica via per migliorarsi e risollevare le sorti di un Paese sconfitto.
Anche
in “11 Settembre 2001”, nel segmento –IRAN-, Samira
Makhmalbaf ritorna su questo tema. Mentre la popolazione si
adopera per costruire rifugi contro i bombardamenti, una maestra
richiama a sé tutti i bambini. Rivolgendosi alla classe
improvvisata, racconta l’attentato alle torri gemelle e come il
mondo sia scosso dall’episodio. Per spiegare ai bambini, vissuti da
sempre in una realtà rurale come quella del confine con l’Iraq,
cosa fossero le torri, la maestra crea un paragone con un’alta
ciminiera [Figura 9]. La ripresa dal basso della ciminiera e il ponte
dall’indubbia stabilità, su cui vi sono la maestra e l’intera
scolaresca, sono scelte registiche chiare che rimandano al pericolo
imminente della guerra. La giovane insegnante, quindi, invita i
bambini a rispettare un minuto di silenzio per tutte le vittime
dell’attentato ma, non sapendo come portare il tempo, s’inventa
un orologio stilizzato disegnato sulla lavagna [Figura 10]. A
commentare l’atto terroristico sono i bambini, rappresentanti di
due dottrine contrastanti. Da una parte c’è chi crede che il
tragico episodio sia un castigo divino mentre, dall’altra parte, vi
è una ragazza, che nella sua totale innocenza ritiene che non possa
essere stato Dio a distruggere le torri proprio perché non possiede
aerei. Il colpevole, quindi, è l’uomo, naufragato, l’ennesima
volta, sulle sponde della crudeltà.
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