Non è semplice, per un occidentale ignaro di teologia islamica, riassumere e commentare un’opera come questa. Ci provo ugualmente.
A sette anni dall’inizio della predicazione, Abu Talib, zio e tutore di Maometto, racconta e annota in un diario le difficoltà incontrate dalla famiglia, costretta a lasciare La Mecca. Quindi, in un flashback che include la maggior parte del film, vengono ripercorse la gestazione, la nascita, e l’infanzia del Profeta, a partire dall’assedio dell’esercito abissino alla Caaba, la pietra già sacra in tempi preislamici sita al centro della Mecca. L’attacco viene respinto grazie a uno stormo immenso: gli uccelli (detti Ababil) sganciano pietre ardenti e distruggono l’esercito nemico. Una grande luce che illumina il cielo preannuncia l'arrivo del Messaggero, che dunque nasce. Maometto viene allattato anche da una schiava, che da grande farà liberare (come altri schiavi legati sugli scogli in riva al mare in tempesta e destinati al sacrificio umano). Concluso il flashback, la storia racconta le difficoltà dei musulmani assediati e messi al bando. Infine, un monaco cristiano conferma ad Abu Talib che è arrivato l'ultimo Profeta.
Un kolossal di quasi tre ore, il più costoso della storia del cinema iraniano. “Muhammad, the Messenger of God” (Mohammad Rasoolollah), che pur guarda ai classici film europei e americani sulla Bibbia e si avvale di un guru della fotografia cinematografica come Vittorio Storaro, è considerato soprattutto la risposta sciita al vecchio film di Moustapha Akkad “Il messaggio”, finanziato da Gheddafi nel 1976. Le differenze risiedono anzitutto nell’interpretazione del divieto di raffigurare il Profeta. Se nel film di Akkad non veniva per nulla mostrato, Majid Majidi ne inquadra il corpo di spalle o da lontano, senza mai riprendere il viso, e ne fa sentire la voce: le urla da neonato, le preghiere da adulto, alcuni dei rivoluzionari apporti, molto concreti, del suo pensiero: oltre alla liberazione degli schiavi, risalta una sequenza in cui convince un uomo ad accettare la figlia femmina appena nata come una benedizione.
Ovviamente la modalità di rappresentarlo non è stata indolore e ha sollevato polemiche.
Uno degli aspetti maggiormente affrontati è proprio il rapporto del giovane Maometto con le donne della sua famiglia (sviene alla morte della madre Amina…) e con lo zio tutore, mentre altri, anche all’interno della famiglia stessa, sono incapaci di raccoglierne il Messaggio.
Un kolossal di quasi tre ore, il più costoso della storia del cinema iraniano. “Muhammad, the Messenger of God” (Mohammad Rasoolollah), che pur guarda ai classici film europei e americani sulla Bibbia e si avvale di un guru della fotografia cinematografica come Vittorio Storaro, è considerato soprattutto la risposta sciita al vecchio film di Moustapha Akkad “Il messaggio”, finanziato da Gheddafi nel 1976. Le differenze risiedono anzitutto nell’interpretazione del divieto di raffigurare il Profeta. Se nel film di Akkad non veniva per nulla mostrato, Majid Majidi ne inquadra il corpo di spalle o da lontano, senza mai riprendere il viso, e ne fa sentire la voce: le urla da neonato, le preghiere da adulto, alcuni dei rivoluzionari apporti, molto concreti, del suo pensiero: oltre alla liberazione degli schiavi, risalta una sequenza in cui convince un uomo ad accettare la figlia femmina appena nata come una benedizione.
Ovviamente la modalità di rappresentarlo non è stata indolore e ha sollevato polemiche.
Uno degli aspetti maggiormente affrontati è proprio il rapporto del giovane Maometto con le donne della sua famiglia (sviene alla morte della madre Amina…) e con lo zio tutore, mentre altri, anche all’interno della famiglia stessa, sono incapaci di raccoglierne il Messaggio.
La scelta di concentrarsi su questi anni della vita del Profeta si adatta bene alla poetica del regista, da sempre cantore dell’infanzia, ed è funzionale a evidenziatore il lato umanista e non violento dell'Islam; un biglietto da visita da consegnare a quel pubblico internazionale che ne ha una visione negativa.
Ma Majidi dimostra padronanza anche nell'orchestrare le scene di massa e di battaglia: di grande potenza quella della con ‘L’Esercito degli Elefanti’, gli abissini. Per quanto sia ormai allineato su posizioni istituzionali, l'autore mantiene una sensibilità che gli consente di smorzare l’inevitabile magniloquenza, trovando momenti toccanti. Gli si perdonano qualche rallenty di troppo e le musiche pompose.
Peccato che il film, nonostante la partecipazione di Storaro e del montatore Roberto Perpignani, non sia circolato in occidente, perché avrebbe potuto suscitare interesse.
Io nel mio piccolo ho tradotto in italiano i sottotitoli, molto artigianalmente e senza pretesa precisione. Li potete scaricare cliccando qua:
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