martedì 19 febbraio 2019

Farhadi: Oggi nel mondo non c'è comunicazione tra culture e tra persone

Il sito c7nema ha pubblicato in questi giorni un’intervista ad Asghar Farhadi, raccolta la scorsa estate a margine di una masterclass all’interno del FEST di Espinho (Portogallo). Ho tradotto, e riporto, ampi estratti in cui il regista parla di cinema - in Iran e più in generale. A questo link, invece, l’integrale in portoghese.
Alla masterclass di FEST. Foto: Cecilia Melo


Ha girato “Tutti lo sanno” in Spagna, tuttavia è una storia che potrebbe accadere in Iran.

Se volessi filmare questa storia in Iran, sarebbe leggermente diversa. Ma sì, potrebbe succedere anche là. Tuttavia, questo film è stato una sfida perché mi confrontavo con una cultura che non è la mia.


Ci sono delle somiglianze tra la cultura spagnola e quella iraniana?
Quando immaginiamo altre culture, l’idealizzazione è davvero molto diversa dalla realtà. È solo quando siamo in contatto con queste culture che percepiamo le differenze, specialmente a livello emotivo.

Tuttavia, l'amore ha sempre la stessa faccia, a prescindere dalla cultura, così come l'odio. Il rapporto di coppia, o tra una madre e un bambino, hanno la stessa corrispondenza in luoghi diversi. Ma è nell'espressione e nell'esibizione di questi sentimenti che troviamo le differenze culturali.

Nel mio paese, ad esempio, genitori e figli sono costantemente in discussione prima di mostrare qualsiasi sentimento. Forse, in Giappone non si toccano nemmeno.

Il modo in cui si esprimono è diverso.


Quello che ha affermato nella masterclass FEST è che il cinema iraniano è molto vasto, ma noi [occidentali] ne conosciamo una piccola parte. Quello che ci viene in mente è principalmente un cinema politico, ma il suo cinema è fuori da questo territorio, perché lei è un cineasta legato alla morale piuttosto che alla politica.

Penso che se il tuo oggetto filmico riguarda le persone e le società in cui si muovono - dietro l'aspetto politico – devi approcciarti alla moralità. Non voglio essere un regista politico, perché non parlo direttamente con la politica, perché, in qualità di regista, non è il mio lavoro. Per quanto riguarda la moralità, il mio ambito è quello.

Cerco qualcosa che dica ciò che è giusto o che è moralmente sbagliato. Ma siccome non sappiamo valutarlo, i miei film parlano di dilemmi.

Tuttavia non mi avventuro, nei film, a creare situazioni morali: descrivo, e accompagno lo spettatore attraverso un territorio morale.


Ma il cinema può essere politico?

Sì, nel senso buono e cattivo. Ad esempio, ci sono molti film provenienti dagli Stati Uniti che servono come armi di distruzione. Distruggono culture e altre società. Questo non lo chiamo cinema, si tratta di altri affari.

Il cinema popola immensi territori: culturale, morale e psicologico. Nel caso in cui lo spettatore sia interessato alla politica, può vedere tutti i film in quell’ottica.


Come afferma, la politica è soprattutto una prospettiva. Ricordo che all'epoca di “Una separazione” diversi gruppi sostenevano che si trattava di un film che incitava all’emigrazione dall’Iran.

Non tutte le persone nel mio paese, ma coloro che hanno rapporti con agenzie governative o che si identificano con tali dottrine trovano e cercano nei film qualche tipo di messaggio.


Una separazione

 

Ma è d'accordo sul fatto che ci sia una sorta di pressione per i registi in Medio Oriente per fare cinema politico?


Sì. Forse non nel suo paese o in Spagna, ma in Francia, in Scandinavia, negli Stati Uniti, vedono il regista del Medio Oriente come qualcuno che sta trasmettendo informazioni al pubblico su ciò che accade in quell’area. Ma questo non è il nostro lavoro. Molti non riescono a capire che tanti cineasti vogliono fare film solo perché amano davvero il cinema, non per riferire o segnalare.

Ovviamente questo non vuol dire che non si faccia cinema politico: quello che succede è che spesso chi vede i film non ha la conoscenza di ciò che sta accadendo nel nostro paese e si aspetta una conferma di ciò che i Media trasmettono costantemente.


Ed è per questo che hai deciso di fare questo film, che non ha relazioni con l'Iran? Mentre “Il passato” aveva mantenuto le connessioni.

Sì, uno dei motivi per cui ho voluto fare “Tutti lo sanno” in Spagna, è stato vedere la reazione del pubblico verso un film senza alcun collegamento con l'Iran. Altrimenti ricevo sempre un sacco di domande politiche sul mio paese; è noioso perché voglio parlare di cinema e devo affrontare la politica.


Ma molti festival usano la "politica" nei film iraniani per promuoversi. Ricordiamo Jafar Panahi, un regista a cui è vietato fare film, ma che allo stesso tempo li gira, e che probabilmente realizza più film di molti registi in libertà. La verità è che quando uno dei suoi film viene selezionato, è tutta pubblicità per il film , 'il regista che resiste' e il festival.

Non tutti i festival, ma sì, alcuni lo fanno. Ciò che conta per questi eventi non è la questione politica intorno ai film, ma il fatto di avere lo scoop e, con ciò, l'attenzione degli spettatori e della stampa.

Jafar è mio amico e cerca di avere amicizie, nonostante i divieti, anche perché ama il cinema.


Che dire della censura? Ne ha mai sofferto nel suo paese?
Ti riferisci a tagli o impedimenti?


Sì.


Non proprio. E attenzione, non li conosco [i membri del comitato di censura]. Ma chi vuole fare film, deve mandare alcune pagine della sceneggiatura al comitato.

L’aspetto positivo è che questo comitato è composto, oltre che da esponenti del governo, da persone che lavorano nell'industria cinematografica, tra cui registi, che cercano di semplificarci la vita. Nel caso del cinema commerciale, a loro non importa, a differenza che con alcuni film di registi che vogliono davvero trasmettere un messaggio.

Se sei nato e cresciuto lì, finisci sempre per trovare un modo per aggirare la censura. Non dico però che questo atteggiamento ci aiuti.


Ma questo atteggiamento ha mai influito su un suo film?

Sì, perché finiamo per creare dentro di noi un'autocensura, anche se non ce ne rendiamo conto.


I suoi film si riferiscono principalmente a equivoci, questo può essere visto come una metafora dello stato del mondo?

Sì, è un grosso problema di questi tempi, non solo nel mio paese ma in tutto il mondo. Oggi, con tutta la tecnologia che abbiamo a nostra disposizione e ovviamente mi sto riferendo al ruolo dei social network, non riusciamo a comprenderci. Parliamo molto, ma non ci capiamo.


Cioè, è un problema di comunicazione?

Sì, perché o non vogliamo comunicare, o la nostra lingua non ce lo permette. A volte vogliamo esprimerci emotivamente, ma non siamo in grado di descrivere le stesse cose a parole. Al giorno d'oggi, il nostro mondo ha questo grande problema: non comunichiamo, sia tra culture, sia tra persone sia anche nelle coppie.


Lei menziona costantemente Bergman e, in qualche modo, ha qualcosa in comune con il regista svedese. Entrambi oscillate tra pièce e film. Nel master, ha detto che il teatro si sta avvicinando al cinema e quindi perde la sua identità. Si può evitare questo contagio?

Amo il cinema e quando scrivevo testi per il palcoscenico, li scrivevo come fossero sceneggiature cinematografiche. E questo succede in molte pièce.

Nel mio caso, questo problema mi ha reso non più in grado di fare teatro. Non riesco a pensare teatralmente, solo cinematograficamente.


E il contrario? Funziona? Chiedo perché ne “Il cliente” ha lavorato in entrambi gli ambiti.

Sì, funziona. Anche perché il teatro e il cinema un legame ce l'hanno. Ne “Il cliente” mi sono avvicinato al testo di Arthur Miller per dimostrare questa connessione tra i due ambiti. Direi che è una relazione amichevole, ma nei miei film c'è soprattutto una separazione, perché ciò che mostriamo sullo schermo, passando attraverso i movimenti degli attori, è il cinema. Cerco di iniettare vita in loro, separarli dal teatro.


Il cliente
Tornando alla masterclass , ha detto che se almeno due spettatori escono da una commedia teatrale, questa è un fallimento. La stessa cosa per un film. Quindi, per lei, il cinema è soprattutto una questione di consenso?

Quello che ho detto è che il primo obiettivo di una commedia o di un film è mettere lo spettatore seduto al suo posto per guardarlo fino alla fine. Se lo spettatore diventa disinteressato o lascia lo spettacolo, perdiamo.

Ma ci sono due modi diversi. In teatro, per catturare lo spettatore non è necessario avere grandi enfasi drammatiche o accelerare il ritmo. Perché? Perché le persone che vanno a teatro sono pazienti, hanno più tempo a disposizione. Sono venuti a teatro per imparare. Nel cinema, la maggior parte degli spettatori vuole intrattenimento e non imparare. Sono due arti distinte.

Quando ero più giovane non ci pensavo, ma oggi rifletto su quanto posso fare al cinema per tenere lo spettatore seduto. La TV e le sue serie hanno alterato il gusto dello spettatore, che cerca nel cinema qualcosa di più frenetico, e questo è diventato un ostacolo. Lo notiamo nel tipo di produzione corrente. Se chiediamo agli spettatori odierni di guardare film del passato, di un regista giapponese, o di Ford, o di Truffaut, essi ne mettono in discussione il ritmo, li trovano non abbastanza ‘veloci’. E questo è da imputare all'universo della serie e alla modalità di visione.


E cosa ne pensa di questo boom televisivo a cui stiamo assistendo?

So che Netflix e Amazon stanno producendo sempre più contenuti TV, e a volte mi piace guardarli, ma so anche che questo sta uccidendo il cinema, o almeno il modo in cui lo guardiamo. Perché quando vediamo una serie, non abbiamo il tempo di riflettere su di essa, sui personaggi e le situazioni. Nel cinema, abbiamo accesso a questo spazio e questo tempo. Anche perché quando il film finisce, lo spettatore lo porta con sé.


Che mi dice di Netflix? Le è mai stato offerto un progetto?

Sì, lo hanno fatto in Spagna. Volevano produrre “Tutti lo sanno”, ma io dissi di no. Questo è cinema, se qualcuno vuole fare una serie o della televisione, vada da loro. Con Netflix non avrei avuto problemi di budget, ma mi sono fidato dei miei produttori. Volevo che il mio film fosse visto sul grande schermo.


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