Uno dei migliori
film iraniani del nuovo secolo, al numero 6 della nostra classifica alternativa. Recensione originariamente pubblicata il 17/06/2009 (il
film era in anteprima). Oggi chi si ricorda più di Roxana Saberi?
Chi è al corrente della tragica fine di alcuni musicisti che vi
hanno preso parte?
Del cinema iraniano
si sono perse un po' le tracce, nessuno ne parla più, i film da noi
non vengono distribuiti. L'ingenuo, fiducioso nelle scelte dei
distributori, può pensare che la qualità media dei film sia
abbondantemente calata; tuttavia, non è esattamente così.
Chi ne ha seguito
comunque l'evoluzione, si è infatti senz'altro accorto che quella
iraniana non è più una "scuola", che è venuta meno
l'apparente unità di intenti che ne ha caratterizzato le migliori,
irripetibili stagioni, ma che comunque i principali autori partoriti
dalla Repubblica Islamica oggi continuano per la loro strada,
camminano con le proprie gambe, seguono con coerenza il percorso da
ciascuno intrapreso.
Bahman Ghobadi non
fa eccezione. Abbandonato dalle sale italiane dopo l'ottimo debutto
nel lungometraggio di fiction, fa altrettanto bene con i lavori
successivi, inediti in Italia. Giunto all'opus numero cinque riesce
però a spiazzare tutti: sia chi lo ricorda per "Il tempo deicavalli ubriachi", sia chi ha avuto modo di vedere i suoi film
successivi, sia chi si aspetta il tipico film iraniano, magari nella
sua variante di lamentosa denuncia, dato il tema affrontato.
Niente di tutto ciò.
Ne "I gatti persiani", del precedente cinema di Ghobadi c'è
poco o nulla: i protagonisti e la loro lingua non sono curdi ma
appunto persiani; l'ambientazione non è rurale, ma cittadina che più
non si può, visto che siamo nella capitale Teheran. Resta solo
l'interesse per la musica: ma questa volta non per quella
tradizionale curda (come in "Daf", "Marooned in Iraq",
"Half Moon"), bensì per quella giovanile; suonata dai
giovani stessi. Soprattutto, di forte matrice occidentale. Per tutto
il film, l'autore mostra infatti comprensione e affetto per la voglia
di cultura straniera, anche scadente, che serpeggia tra gli iraniani
e per i quali è sostanzialmente preclusa.
Anche del tipico
cinema iraniano c'è ben poco: la circolarità della struttura, il
ricorso al fuori campo, il gusto per la sorpresa del pubblico, la cui
prima impressione è talvolta smentita: ad esempio, lo spettatore
scopre che una donna è cieca solo quando vede il bastone bianco,
dopo averla osservata per lungo tempo senza accorgersene.
Per il resto, niente
lunghe sequenze dall'andamento compassato, bensì rapide istantanee
dal ritmo incessante. Ma non frenetico: nonostante il digitale, la
videocamera storta, le inquadrature sfocate (l'avreste mai detto, in
un film iraniano?), il montaggio si fa più frequente solo quando
accompagna, a tempo, i brani indie-rock, metal, hip-hop, suonati dai
protagonisti; svelando al contempo frammenti altamente significativi,
ma mai didascalici, della realtà che sta alla luce del sole (mentre
i musicisti sono costretti a provare e a registrare nelle catacombe).
L'insieme che deriva da questa intuizione - la più azzeccata del
film - è un autentico e prezioso mosaico.
La denuncia dei
problemi sociali è dunque prioritaria, ma il controllo della
scrittura - ed è un altro innegabile pregio - non dà l'impressione
di abdicare all'urgenza dell'accusa. Né la materia è trattata come
nella più sciatta opera di propaganda: il finale è sì pessimista,
forse non potrebbe essere altrimenti, ma lo svolgimento è carico
d'ironia. Più precisamente, ironia e dramma si rapportano in maniera
dialettica: talvolta è la prima a smorzare una situazione tesa,
talvolta l'allegria sfocia improvvisamente in dramma. Nel complesso,
comunque, i toni sono lievi: di fatto, si tratta di una commedia
musicale.
Anche in questo
caso, pertanto, chi andrà alla ricerca di un avallo, in questi mesi
politicamente tormentati, dei propri (pre)giudizi sulla Repubblica
Islamica, rischierà di non esserne del tutto appagato. Ma di
scoprire invece, ad esempio, che gli iraniani sanno anche scherzare
dei loro problemi, in maniera estremamente intelligente. A giudizio
di chi scrive, le sequenze più riuscite sono infatti due; in
entrambe, il potere e la repressione intervengono per questioni
marginali, di poco conto, mentre Ghobadi ce li fa soltanto
intravvedere o li lascia del tutto fuori campo, facendo caricatura e
paradosso della loro assurdità. In una un processo più che sommario
viene mostrato attraverso l'uscio di una porta socchiusa, nell'altra
un gendarme non inquadrato ferma i protagonisti perché trasportano
un cane in auto.
Se non si fosse
ancora capito, "I gatti persiani" è un film che sorprende,
soprattutto in positivo. Ma chi ci ha visto un capolavoro ha forse
preso un abbaglio, poiché la struttura palesa crepe, alti e bassi,
lungaggini. Il nome di Roxana Saberi suscita interesse per la
notorietà della sua vicenda, ma la sua penna non si dimostra così
efficace nella stesura dello script. Ghobadi, dal canto suo, pare
aver realizzato un buon film di transizione in vista del suo approdo
negli States. Anche se, nonostante un'offerta della Dreamworks già
in cantiere, per il nuovo stile adottato sembra pronto più per il
Sundance che per Hollywood.
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