Di Alessandro Arpa
Nel
2004, Bahman Ghobadi realizza “Lakposhtha
parvaz mikonand” (“Turtles
Can
Fly”),
co-produzione iraniana e irachena, un film-denuncia contro la guerra
in Iraq. Al confine con la Turchia, nel Kurdistan iracheno, si
sopravvive. Non è ancora scoppiata la guerra tra i “salvatori”
americani e la milizia di Saddam ma la situazione in cui versa la
regione non è delle migliori. La gente del posto è costretta ad
inventare lavori, a bonificare campi minati per guadagnare
l’indispensabile. Ghobadi descrive minuziosamente la realtà
del confine attraverso gli occhi dei bambini, il tassello debole
della nostra società. Il regista lo fa con strazio e drammaticità e
già nell’incipit si anticipano le tribolanti condizioni in cui
versano gli infanti della zona. Una bambina si sacrifica ed il
suicidio diventa il frastuono a risvegliare le mediocri menti. E ci
si interroga, sin da subito, sulla funzione della guerra, su chi
siano i vincitori e sul perché a soffrire debbano essere sempre e
comunque gli innocenti. Con la prima immagine, lo spettatore è
catapultato in un’altra realtà che, seppure lontana dalla loro
agiata esistenza, scuote. Come colpiscono all’anima, anche, i
numerosi primissimi piani dei bambini e di Agrin [Figura 1], giovane
protagonista insieme al piccolo cieco Riga, Halbcheh e Satellite.
I
primi tre protagonisti compongono un’anomala famiglia. Agrin
raffigura la madre premurosa ma sconfitta dall’inesorabilità della
guerra, come se il suo corpo tanto giovane non riuscisse a contenere
gli errori dell’uomo. Il piccolo Riga simboleggia l’innocenza e
la cecità che lo affligge è un chiaro segno d’impotenza di fronte
a quest’inferno. Il padre è Halbechec, un ragazzo sensitivo,
vittima delle mine antiuomo. Privato di entrambi gli arti, egli
assomiglia ad una testuggine perché è un rettile che sfugge dal
dolore perdendosi nel bene immenso provato per la sorella Agrin e il
piccolo orfano Riga [Immagine 2]. Lo stile di Ghobadi è diretto e la
scelta di utilizzare attori invalidi è disturbante ma incisiva. Ad
accomunarli è la loro condizione di profughi, fuggiti dal loro Paese
dopo aver vissuto l’esperienza dei raid aerei e la crudeltà
militare. La loro esistenza è una stoffa rammendata male e
tappezzata da spaventose allucinazioni.
Nella
logica famigliare cerca d’intromettersi Satellite, infatuato di
Agrin. A differenza dei tre, però, il giovane ha una vita,
paradossalmente, più serena dal momento che non ha mai conosciuto
gli orrori del conflitto. La verginità bellica di Satellite spiega
la sua profonda ammirazione per l’America. Non è un caso che
Ghobadi affidi soltanto a lui delle battute in inglese o,
ancora, che sia lui a spiegare ad un anziano del luogo cosa voglia
dire l’acronimo USA [Figura 3]. Ma la visione del piccolo si
compone di stereotipi e gli Stati Uniti diventano semplicisticamente
lo Stato di Washington e San Francisco o il luogo in cui è stato
prodotto Titanic e i film di Bruce Lee e, erroneamente, il paese di
nascita di Zinedine Zidane [Figura 4]. In aggiunta, egli sostiene che
il compito della milizia americana sia portare la pace ma, alla vista
offuscata del piccolo, si contrappone l’immagine televisiva di Bush
che porta gli spettatori a riflettere e a rivalutare le ragioni
scatenanti della Guerra in Iraq [Figura 5].
La
vita dei bambini è stravolta dalla dichiarazione di guerra e
l’immagine di Riga, incorniciata col filo spinato, è l’urlo
rivolto al mondo, il cessate il fuoco che vibra ancora nell’aria ma
che nessuno percepisce [Figura 6]. Per placare il pianto di Riga,
intervengono due bambini e, in una scena straziante, la disabilità
diventa l’unico mezzo per sorridere. La gamba mutilata si trasforma
in un mitra [Figura 7]. Ed il mondo trema all’ennesima immagine che
non avremmo mai voluto vedere. Perché “Turtles
can fly” non è solo un film ma un’enorme traccia di
sangue sul corpo della Storia.
Nessun commento:
Posta un commento