Un pezzo d'annata (ma inedito), di Alessandro Arpa, lettore e da oggi collaboratore del blog (benvenuto!), che così si definisce:
'Laureato in Cinema e Media all'Università di Torino, Alessandro Arpa è un comune mortale. Un miope lucano trapiantato al nord. Amante del cinema e delle sue derive.'
'Laureato in Cinema e Media all'Università di Torino, Alessandro Arpa è un comune mortale. Un miope lucano trapiantato al nord. Amante del cinema e delle sue derive.'
Laddove i proiettori sono spenti, la necessità urla. Ma come può la sua flebile eco sorvolare le sorde mura erette dai critici? Da anni, la critica siede comodamente sul proprio trono vezzeggiando la mediocrità e la sua immensa prole. Lo sguardo è rivolto esclusivamente all’Occidente e al gusto stereotipato che contraddistingue le grandi produzioni. Ma aldilà del già visto, vi sono gioielli da scovare. Ad esempio, in Iran, vi è una tradizione cinematografica non ancora conosciuta e celebrata.
Nel 1998 è Samira Makhmalbaf ad aggiungersi alla schiera dei grandi nomi. Figlia del regista Mohsen Makhmalbaf, icona della cinematografia iraniana, la giovane ragazza, a soli diciott’anni, crea un’opera d’esordio ragguardevole: Sib (La mela). Approdata al mondo del cinema grazie al padre, la giovane persiana mostra di essere un’esperta regista capace di lasciare un’impronta nella cinematografia del suo Paese nonostante la giovane età. Il lavoro partecipa alla selezione ufficiale del Festival di Cannes e Samira diventa la più giovane regista a presentare un’opera alla kermesse.
Sib racconta la storia vera delle gemelle dodicenni Massoumeh e Zahra Naderi e della loro famiglia. Le due bambine hanno vissuto per undici anni segregate in casa, l’unico luogo aperto accessibile, se concesso dal padre, è il piccolo patio della casa. Pochi metri quadri spogli ed asettici. La condizione di reclusione non ha permesso alle due bambine di avere alcun rapporto umano compromettendo la capacità dialettica delle bambine e provocando un profondo disturbo psichico, egregiamente catturato dallo sguardo della regista. Massoumeh e Zahra sbiascicano versi, come fossero cuccioli di animali. Come germogli non ancora fioriti, le gemelle occupano il loro tempo irrorando d’acqua un piccolo vaso o scrutando il cielo che, corteggiato dalla lucentezza dei raggi solari, è in gabbia proprio come loro [Immagine 1, 2].
Seppure tratto da una storia reale, Sib riesce a discostarsi da una mera riproduzione positivistica del fatto legando elementi storici ad una rielaborazione degli eventi condotta dalla giovane Samira e dal padre Mohsen, co-scrittore della sceneggiatura. La mania documentaristica che contraddistingue lo stile registico del Paese ritorna nelle prime immagini del film quando, come in una sorta di reportage, vengono riprese le gemelle all’interno di una struttura d’assistenza sociale [Immagine 3]. Dopo anni di reclusione, i vicini di casa denunciano alle autorità la situazione disumana vissuta dalle bambine che, strappate dalle grinfie dei genitori: una donna cieca, prigioniera della sua infermità e un uomo accecato dalla fede, vengono finalmente trattate umanamente dagli operatori sociali. Ma il periodo di quiete è sempre il più effimero e nonostante siano state purificate dal fetido ricordo di una prigionia casalinga, gli assistenti sociali sono tenuti a restituirle ai propri genitori. Quando le piccole riabbracciano il ventre materno, l’incantesimo svanisce e ritorna prepotente il sentore di un’imminente detenzione. Dal video si passa ai 35 mm e ad una ripresa dall’alto che anticipa il ritorno al proprio inferno privato [Immagine 4].
Il passaggio da un formato all’altro annuncia la ricostruzione della storia da parte della regista. La resa tanto realistica è data dall’utilizzo dei veri protagonisti del fatto di cronaca che interpretano i loro rispettivi ruoli. L’utilizzo di un linguaggio meta-cinematografico, caratteristico anche del cinema di Mohsen Makhmalbaf, crea una struttura ad incastri che affascina lo spettatore.
Ancora recluse, Massoumeh e Zahra, come galeotte, scrutano il cielo e la piccola finestra della casa di fronte. Sopperiscono alla parola tintinnando cucchiai metallici contro le sbarre. Ma la Salvezza non soggiorna lontano da lì e l’arrivo a casa di un’assistente sociale per un controllo, diventa l’inizio di una nuova vita. Le sorelle sono liberate dalle fatiscenti sbarre che le rinchiudono e vengono invitate dall’operatrice ad uscire di casa, a giocare per strada con gli altri bambini. Il primo tentativo si rivela fallimentare e le ragazze, abituate al loro zoo, ripercorrono la stretta via che conduce a casa. Intanto, il padre viene invitato ad entrare in gabbia-casa. Per riacquisire la propria libertà, l’uomo dovrebbe dividere in due le sbarre con una piccola sega oppure rischiarare le sue tetre convinzioni. Fortemente maschilista e ottenebrato dagli integralismi religiosi, l’uomo ritiene che le donne siano dei fiori che, alla luce del sole, rischiano di svanire o batuffoli di cotone consumati da una sorgente di calore. La clausura implica, però, una redenzione. L’uomo solo con se stesso specchia le sue ataviche certezze e le mette in discussione [Immagine 5]. Ritorna più volte in Sib l’immagine dello specchio, chiaro riferimento al cinema di Mohsen Makhmalbaf che nella sua produzione ne fa un uso ricorrente (“È difficile ricomporre i pezzi di uno specchio”). Procede, intanto, tra difficoltà e tenerezze, l’avventura delle due gemelle nel mondo civilizzato. Ciò che per noi appare banale e semplice, per Massoumeh e Zahra è un impedimento (toccante è la scena del gelato e di quanto sia difficile, per loro, comprarne uno).
La giornata, giunta al suo termine, rima con il finale. L’operatrice sociale si assicura che le due gemelle sappiano sbloccare la serratura, così da poter entrare a casa, ma soprattutto essere libere di uscire quanto ne hanno voglia. Avvolta dai lamenti di Massoumeh, la scena si riempie di doloranti primi piani e del particolare della serratura [Immagine 6]. Un lirismo tragico ridimensiona la felicità delle sorelle.
L’esperienza vissuta ha scosso il padre che, profondamente cambiato, asseconda la richiesta delle figlie di avere un orologio da polso e, senza esitare, le accompagna a comprarlo. Lascia alle sue spalle la moglie.
L’animo della donna è ancora invischiato tra i paludosi egoismi della cecità. Rintanata nella sua gabbia invisibile, non riesce a rivalutare la propria ideologia. Ma nella solitudine qualcosa si smuove e avvolta dallo chador, la donna esce di casa sola. Il primo passo verso la vita è contenuto nel frame finale. La donna riesce ad acchiappare una mela, in un’immagine complementare che rievoca il vano tentativo condotto dalle ragazze a metà lungometraggio. E nella mela acciuffata si riversa l’avvento di una vita fatta di realtà e condivisioni. [Immagine 7,8].
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