Tra gli autori della diaspora iraniana più apprezzati in Occidente, sovente bene accolto al festival di Berlino, debutta nelle sale italiane il talentuoso ma al contempo furbetto Rafi Pitts - quarantaquattrenne con alle spalle un infanzia tra Mashhad e Teheran e l'approdo nella paterna Gran Bretagna agli albori della Guerra Iran-Iraq - giunto al quarto lungometraggio e al convincente esordio - di fatto - in qualità di attore, dopo che il prescelto per il ruolo di protagonista è risultato non all'altezza della parte.
Sensibilmente diverso dal precedente, tipicamente iraniano "It's Winter", "The Hunter" conferma l'impressione di un cineasta molto attento ad accodarsi alle tendenze espresse dalla cinematografia nazionale, a partire dalla scelta dell'ambientazione. Se infatti il suo amico Jafar Panahi (in solidarietà del quale Pitts ha scritto a inizio anno una lettera aperta ad Ahmadinejad) si è posto alla guida del prepotente ritorno dei cineasti persiani nel cuore della metropoli, Rafi Pitts sceglie di collocare la prima parte del suo nuovo lavoro nel bel mezzo delle trafficate strade di Teheran, in corrispondenza (temporale) con il momento più caldo della storia recente del paese: le ultime elezioni presidenziali.
Ma mentre il sottofondo di una radio accesa che trasmette ventiquattro ore su ventiquattro programmi di propaganda è l'efficace accompagnamento per le vicissitudini del disturbato protagonista del film, ex galeotto (non conosciamo il suo crimine) costretto a lavorare di notte, con la passione della caccia e il rammarico di poter frequentare poco la famiglia (ci sono anche forti dubbi sulla possibilità che la figlia non sia realmente sua), il dramma che gli cambierà definitivamente la vita minando alle fondamenta il suo equilibrio precario appare davvero pretestuoso e scarsamente credibile (nonostante la cronaca abbia riportato qualche caso analogo).
La vicenda, che preferiamo non rivelare, innesca una seconda parte della pellicola che pare un film a sé stante, nonché molto meno risolto, allorché con le sequenze nella foresta (impossibile via di fuga dalle maglie degli apparati repressivi) vengono meno il mordente politico e la tenuta drammatica, mentre il calcolo la fa da padrone: quasi il sintomo che il cinema iraniano debba oggi restare tra le contraddizioni della città per risultare efficace.
Il gioco delle coincidenze imbastito dall'autore ambisce forse a celebrare il trionfo assoluto del caso, ma è altresì interpretabile come l'affresco di un paese in cui la situazione è talmente ingarbugliata da risultare inestricabile. Tuttavia, se il protagonista racchiude in sé ogni possibile ambiguità, la distinzione tra la sensibilità del militare di leva e il fanatismo del soldato di professione è schematica, mentre il ribaltamento tra preda e cacciatore è quanto di più visto e stravisto nel cinema di ogni luogo ed epoca.
Dedicato a Bozorg Alavi, scrittore comunista; esule come Pitts, anche se costretto dal precedente regime.
Pubblicato su Ondacinema il 23/06/2011
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