domenica 10 maggio 2020

Intervista a Elisabetta Colla - Taxidrivers.it

La rivista Taxidrivers ha da poco pubblicato un dossier di ben venti pagine sul cinema iraniano, disponibile gratuitamente a questo indirizzo: 

Qui invece l'editoriale:


Abbiamo intervistato Elisabetta Colla, che ha curato la direzione artistica dello speciale insieme al direttore di Taxidrivers Vincenzo Patanè. Ringraziamo Elisabetta per le risposte, molto approfondite!



Cos’è Taxidrivers? Ci puoi descrivere la rivista?

Taxidrivers.it è una rivista indipendente di cinema dal 2006. Da sempre specializzata in cinema d’autore, Taxidrivers.it promuove  il meglio del cinema italiano e internazionale, attraverso la copertura  giornalistica e le recensioni dei film in uscita e la partecipazione dei suoi collaboratori a kermesse cinematografiche e importanti Festival internazionali come  Cannes,  Berlino, la Mostra del Cinema di Venezia, il Festival di Locarno,  il Torino Film Festival, la Festa del Cinema di Roma e altre importanti manifestazioni di cinema,  rispetto alle quali svolge una copertura giornalistica quanto più possibile attenta e completa, con recensioni, dossier ed interviste ai più interessanti registi del momento. Fra le altre attività, Taxidrivers.it realizza periodicamente alcuni dossier monografici su temi di attualità cinematografica e sociale.  


Perché un dossier sul cinema iraniano e in che senso “Pulsante e resistente”?

I motivi per i quali abbiamo deciso di incentrare questo dossier sul cinema iraniano sono vari: innanzitutto perché, come abbiamo scritto nel titolo dell’editoriale, si tratta di un ‘cinema pulsante e resistente’, vitalissimo, che ha resistito a regimi conservatori e retrivi, laici e religiosi, che hanno cercato in tutti i modi di censurarlo, prima e dopo la rivoluzione e, purtroppo, anche oggi. Infatti, e questa è l’altra forte motivazione del nostro focus su cinema e Iran, il regista Mohammad Rasoulof, vincitore dell’Orso d’Oro a Berlino 2020, con il film “There is no evil”, è stato condannato dalla corte rivoluzionaria iraniana a un anno di prigione, al divieto di lavorare come regista per due anni per ‘propaganda contro il governo’ ed all’impossibilità per due anni di uscire dal paese o partecipare a qualsiasi attività sociale o politica. Proprio al regista Rasoulof, Taxidrivers.it ha voluto dedicare la copertina del dossier e, con lui, a tutti coloro che lottano contro le censure in nome dell’arte e della libertà di espressione.


In poche parole, come cambia il cinema iraniano dagli anni 70 a oggi, passando per il periodo di Kiarostami e Makhmalbaf?


Difficile rispondere in poche parole a una domanda così importante, senza rischiare la banalizzazione, poiché il cinema iraniano autoriale ha vissuto molte vite, epoche e stagioni, attraversando diversi stili narrativi ed estetici e trasmettendo messaggi sociali e politici con strumenti e voci differenti, in costante evoluzione. Si potrebbe dire che dopo la ricerca di proprie vie espressive iniziata già prima degli anni 70, nel decennio tra il 1969 e il 1979 (la cosiddetta prima nouvelle vague), il cinema iraniano dà avvio a sperimentazioni autoriali, con la ricerca di elementi visivi e descrittivi che definiscano uno stile indipendente e non conformista, poi declinato in modi diversi dai vari cineasti, con ‘oggetti’ socialmente più vicini al sentire popolare. Alcuni autori - fra questi Amir Naderi - precorrono modalità stilistiche definite ‘neo-realiste’, quasi documentaristiche, con l’uso della camera fissa in ambito formale ed un simbolismo nascosto in storie apparentemente semplici, elementi che influenzeranno in seguito la poetica di Abbas Kiarostami, uno dei primi registi le cui opere verranno conosciute all’estero. Questa fase già evidenzia l’interesse della critica per un cinema originale e dalle caratteristiche inusuali - che rappresenta la minoranza dei film prodotti in Iran – volto a definire sempre meglio la propria identità nella seconda nouvelle vague, nata in epoca post rivoluzione islamica (in cui s’iniziano a restringere sempre più le libertà di espressione, a perseguitare i registi indipendenti e a censurarne le opere), quando già alcuni registi fuggono all’estero o rimangono fuori dal Paese. Pienamente rappresentative del periodo sono le opere di registi cult come Abbas Kiarostami - fra le altre “Dov’è la casa del mio amico?” (1987) e “Il palloncino bianco” (1995), da lui sceneggiato e primo film da regista di Jafar Panahi - segnate da un approccio sperimentale, neorealista e fortemente simbolico, anche a causa della censura già esercitata dal governo e dalle autorità religiose, che i registi utilizzano per parlare al mondo dei temi sociali e politici del Paese. Immagini simboliche veicolano problematiche sociali con la naïveté e l'immediatezza mutuate dall'infanzia: il cinema iraniano utilizza spesso come protagonisti i bambini, per superare le censure. In quest’epoca Rakhshan Banietemad è la prima regista iraniana a realizzare un film, con donne protagoniste e affrontando temi cari ai movimenti femministi: come altri cineasti, negli anni in cui la censura è stata più severa, la regista si dedica al documentario sociale. Altri registi, come Mohsen Makhmalbaf, da sempre in aperto contrasto con i vari regimi del Paese e varie volte condannato, produce film di aperta denuncia, che lo costringeranno all’esilio in Europa con la sua famiglia: la figlia Samira, classe  1980, già giovanissima diventa regista e porta i suoi film a Cannes. Dopo la caduta di Khomeini, ai regimi più rigidi si alternano quelli cosiddetti ‘riformisti’, che propongono alcune aperture, in alcuni casi funzionali o frutto di ambivalenze politiche; inoltre l’avvento di Internet rende possibile e velocizza la diffusione di film che prima riuscivano comunque ad uscire dal paese ma con maggiori rischi e difficoltà. Basti pensare alle geniali soluzioni trovate da autori come Jafar Panahi, nell’esportare clandestinamente dall’Iran con un hard disk nascosto all’interno di una torta “This is not a film”, per presentarlo al Festival di Cannes nel 2011, o nel realizzare “Taxi Teheran” o “Tre volti”, opere significative e bellissime, girate comunque di nascosto e con il solo utilizzo di una macchina, un cellulare e una videocamera. Ma ancor oggi è sempre molto difficile e frustrante per i cineasti iraniani girare, avere fondi, trovare distribuzioni, farsi conoscere internazionalmente, aggirare le censure e le pastoie della burocrazia, sostenere pressioni, minacce e boicottaggi sempre possibili, per non parlare degli arresti, multe e divieti comminati. Nuove generazioni di cineasti incarnano quella che parte della letteratura chiama la terza nouvelle vague, legata a nomi come Asghar Farhadi (“Una separazione”, “Il cliente”) con opere di tipo nuovo, su temi relativi alla famiglia, ai rapporti uomo donna, anche di grande attualità (separazione, divorzio, affidamento dei figli, tradizionalismo versus modernità), Bahman Ghobadi (“I gatti persiani”), che porta sullo schermo la ribellione e le difficoltà dei giovani artisti che vogliono esprimersi, viaggiare, cogliere al volo opportunità e non ottengono permessi né documenti se non eludendo le vie legali, o Marjane Satrapi (nata come illustratrice) che realizza la graphic novel autobiografica “Persepolis” divenuta famosa nel mondo: a causa del grande successo ottenuto in patria e all’estero, del contenuto in certi casi meno esplicito o per motivi di opportunismo politico, queste opere e i loro autori sono ammessi a viaggiare, vincono premi (anche l’Oscar come Farhadi) e partecipano ai Festival. Naturalmente c’è poi tutta la questione delle sanzioni USA e del ‘travel ban’ di Trump, che rendono la vita impossibile all’industria cinematografica iraniana (e non solo) e alla sua distribuzione, ma questa è una storia che meriterebbe più tempo. Il cinema iraniano, comunque, nonostante quanto detto sopra e benché autori indipendenti stiano boicottando il Fajr, Festival Cinematografico Internazionale di Teheran, perché ormai manovrato ed asservito, benché lavorare nella settima arte sia quasi uno ‘schivare colpi’, non si è mai fermato di fronte alle continue, enormi difficoltà, e i tantissimi giovani e talentuosi autori, donne e uomini, che scrivono e dirigono film per raccontare l’Iran, lo dimostra.


Il palloncino bianco


Nello speciale trattate sia degli autori rimasti in Iran, sia di coloro che realizzano film sull’Iran all’estero, a volte in esilio ma non sempre.  Pensate che facciano parte della stessa comunità?

Credo che solo gli iraniani rimasti in Iran possano a buon diritto rispondere a questa domanda ma azzarderei che, secondo noi, tutti gli autori che non hanno mai abbandonato ‘affettivamente’ il Paese, nel senso profondo legato al concetto tedesco di heimat, pur vivendo altrove per motivi diversi, e ne continuano a promuovere la parte più originale e indipendente della cultura e dell’arte, lottando attraverso le proprie opere contro il bieco conservatorismo e l’omologazione sociale e politica, realizzando incontri ed esponendosi a manifestazioni pubbliche e Festival in favore della libertà di espressione, anche a sostegno degli artisti rimasti in patria e perseguitati, possono essere considerati in un certo senso parte di una stessa comunità ‘ideale’, pur vivendo, di fatto, in dimensioni politiche, geografiche e storico-sociali talvolta completamente diverse.


Ampio spazio è dedicato alle autrici, al cinema al femminile. Perché questa scelta?

Le donne in Iran, nonostante gli stereotipi e le reali difficoltà incontrate, sono da sempre state volano di cambiamento e rivestono un ruolo importante nella società e nella cultura del Paese. Spesso i regimi al potere, in particolare quelli teocratici, hanno cercato di umiliarne la dignità e negarne i diritti, impedendo loro di muoversi liberamente, di svolgere lavori intellettuali (e non solo), di scegliere quando e con chi sposarsi, e volendole sottomesse a padri e mariti, ma la loro capacità di resistenza ed il desiderio di emancipazione hanno dato vita a molti movimenti di attiviste ed artiste, fra cui numerose cineaste, che hanno raccontato la condizione e le aspirazioni delle donne iraniane, contribuendo ai piccoli grandi passi fatti in Iran a favore della emancipazione. Per questo, nel dossier, abbiamo voluto dare ampio spazio alle registe e cineaste donne, che sono molte e decisamente interessanti, pur appartenendo a generazioni diverse, valorizzandole e parlando dei loro film, dei temi affrontati e dei differenti stili estetici e narrativi. Con grande lentezza il Paese ha aperto spazi alle donne (più formali che effettivi), ad esempio con l’elezione in Parlamento nel 2017 di 17 donne o con la possibilità di partecipare ad eventi sportivi (pur separate dagli uomini, pensiamo al film “Offside”, di Jafar Panahi, dove alcune giovani tifose si travestono da uomini per entrare allo stadio, come estrema istanza di libertà) e si moltiplicano le registe iraniane che esportano ai Festival Internazionali film raffinati e indipendenti, che esprimono aspirazioni femminili moderne e raccontano spaccati sociali in evoluzione. Fra le cineaste ‘senior’ che hanno girato veri e propri capolavori, si annoverano, com’è noto, Rakhshan Banietemad, nata negli anni Cinquanta, cantastorie dei miseri, che in “Nargess” affronta il tema dei rapporti uomo-donna e Shirin Neshat, fotografa, videoartista e regista iraniana, formatasi negli Stati Uniti, vincitrice, nel 2009, del Leone d’Argento alla Mostra del Cinema di Venezia con il film “Donne senza uomini”, vero e proprio manifesto sulla condizione femminile.  Seguono, per citare le più note, Marjane Satrapi, giunta al successo con la graphic novel autobiografica “Persepolis”, poi divenuta film; Samira Makhmalbaf, figlia del noto regista Mohsen Makhmalbaf, regista di “Lavagne”; Ana Lily Amirpour che realizza un originale film di genere horror western, “A Girl Walks Home Alone at Night”; Ida Panahandeh, la giovane e coraggiosa regista selezionata a Cannes 2015 con il film “Nahid”, la cui protagonista vive un dramma moderno, fra amore materno, passione per un uomo e leggi ingiuste. Se ne potrebbero citare molte altre: buona parte del dossier è dedicata a tutte loro.



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