giovedì 17 novembre 2016

The Night It Rained, Kamran Shirdel (1967)


Articolo di Alessandro Arpa. Il film si può vedere qui con sottotitoli in ingelse


MOHAMMAD, DIMMI TU, DOVE SIEDE LA VERITÀ?

Nel 1967, un fatto di cronaca riempie i rotocalchi iraniani. Lungo i binari, distrutti da un’inondazione, corre un treno merci…il triste epilogo, oramai, sembra già scritto. Ma ecco che, all’orizzonte, un tenue fuoco segnala il pericolo al capotreno. Ad ardere, aldilà delle rotaie crollate, è la giacca di Mohammad Esma’il, un bambino del piccolo villaggio di Lamlang, nella regione di Gorgan. La notizia si diffonde nella comunità rurale e capillarmente in tutte le realtà vicine fino a raggiungere Teheran e le alte cariche. Il Ministero della Cultura e dell’Arte commissiona, quindi, al regista Kamran Shirdel un documentario che racconti il gesto eroico del bambino. Nasce "The Night It Rained or The Epic of Gorgan Village Boy". Ma si sa che l’indiscreto mormorio provinciale maschera molte volte la verità e ciò che sembra attendibile si trasforma. Le ombre lentamente si colorano e quelle che fino ad allora erano considerate certezze vengono rivalutate e, passate al vaglio, mostrano la loro essenza.
Se la prima parte del documentario di Shirdel assume un tono etnografico e, a tratti neorealista, ritraendo minuziosamente, anche se in maniera didascalica, la desolazione e l’aridità che contraddistingue il territorio del Gorgan, la seconda parte è organizzata come fosse un’inchiesta volta a stabilire la fattualità dell’episodio. Svelati i trucchi della settima arte, attraverso un’impostazione meta-cinematografica tipica della tradizione iraniana, il regista avvia una serie di interviste a coloro che, direttamente, hanno partecipato alla vicenda [Figura 1]. 


 
Ad essere intervistati sono: i dipendenti della ferrovia, il sindaco di Lamlang, il capo della polizia, il redattore di una testata giornalistica iraniana e l’insegnante del villaggio. Le varie testimonianze portano alla luce inesattezze e controsensi e, inevitabilmente, si vengono a creare differenti linee di pensiero. Da una parte, c’è chi crede che il piccolo Mohammad sia l’eroe della vicenda mentre, dall’altra, una piccola cerchia, formata dal giornalista ed il capotreno, cerca di districare le trame di una storia dal carattere epico che, secondo loro, è stata ricamata ad hoc dai concittadini del bambino. Accanto alla sua scrivania, severo, il giornalista di un noto quotidiano iraniano, nega ogni coinvolgimento di Mohammad nell’episodio e, a sostegno della sua tesi, apporta un numero considerevole di notizie capaci di stravolgere le più ferme convinzioni degli spettatori. Ad avvalorare la tesi sono le scelte sul montaggio prese da Shirdel. Ad esempio, l’intromissione misteriosa e reiterata di un frame che mostra un uomo, di cui non si conosce il volto (verrà mostrato solo al termine del lungometraggio), ripetere che tutto ciò che è stato raccontato è una menzogna, una sordida messinscena dei cittadini di Lamlang [Figura 2]. 


 
La possibilità che la storia fosse, in realtà, interamente inventata, non fu ben accolta dal Ministero della Cultura che, infatti, decise di confiscare e vietare la diffusione del film nonché di espellere Shirdel dalla sua carica. A distanza di sette anni (nel 1974), il film partecipò alla terza edizione del Teheran International Film Festival, classificandosi al primo posto. E il sottile limite tra verità e finzione sbiadisce. Seppure Shirdel propone una sua personale lettura dei fatti, non può che spettare a noi l’ultimo giudizio. Siamo con Mohammad o contro?








domenica 13 novembre 2016

I gatti persiani, Bahman Ghobadi (2009)

Uno dei migliori film iraniani del nuovo secolo, al numero 6 della nostra classifica alternativa. Recensione originariamente pubblicata il 17/06/2009 (il film era in anteprima). Oggi chi si ricorda più di Roxana Saberi? Chi è al corrente della tragica fine di alcuni musicisti che vi hanno preso parte?












Del cinema iraniano si sono perse un po' le tracce, nessuno ne parla più, i film da noi non vengono distribuiti. L'ingenuo, fiducioso nelle scelte dei distributori, può pensare che la qualità media dei film sia abbondantemente calata; tuttavia, non è esattamente così.
Chi ne ha seguito comunque l'evoluzione, si è infatti senz'altro accorto che quella iraniana non è più una "scuola", che è venuta meno l'apparente unità di intenti che ne ha caratterizzato le migliori, irripetibili stagioni, ma che comunque i principali autori partoriti dalla Repubblica Islamica oggi continuano per la loro strada, camminano con le proprie gambe, seguono con coerenza il percorso da ciascuno intrapreso.

Bahman Ghobadi non fa eccezione. Abbandonato dalle sale italiane dopo l'ottimo debutto nel lungometraggio di fiction, fa altrettanto bene con i lavori successivi, inediti in Italia. Giunto all'opus numero cinque riesce però a spiazzare tutti: sia chi lo ricorda per "Il tempo deicavalli ubriachi", sia chi ha avuto modo di vedere i suoi film successivi, sia chi si aspetta il tipico film iraniano, magari nella sua variante di lamentosa denuncia, dato il tema affrontato.

Niente di tutto ciò. Ne "I gatti persiani", del precedente cinema di Ghobadi c'è poco o nulla: i protagonisti e la loro lingua non sono curdi ma appunto persiani; l'ambientazione non è rurale, ma cittadina che più non si può, visto che siamo nella capitale Teheran. Resta solo l'interesse per la musica: ma questa volta non per quella tradizionale curda (come in "Daf", "Marooned in Iraq", "Half Moon"), bensì per quella giovanile; suonata dai giovani stessi. Soprattutto, di forte matrice occidentale. Per tutto il film, l'autore mostra infatti comprensione e affetto per la voglia di cultura straniera, anche scadente, che serpeggia tra gli iraniani e per i quali è sostanzialmente preclusa.

Anche del tipico cinema iraniano c'è ben poco: la circolarità della struttura, il ricorso al fuori campo, il gusto per la sorpresa del pubblico, la cui prima impressione è talvolta smentita: ad esempio, lo spettatore scopre che una donna è cieca solo quando vede il bastone bianco, dopo averla osservata per lungo tempo senza accorgersene.
Per il resto, niente lunghe sequenze dall'andamento compassato, bensì rapide istantanee dal ritmo incessante. Ma non frenetico: nonostante il digitale, la videocamera storta, le inquadrature sfocate (l'avreste mai detto, in un film iraniano?), il montaggio si fa più frequente solo quando accompagna, a tempo, i brani indie-rock, metal, hip-hop, suonati dai protagonisti; svelando al contempo frammenti altamente significativi, ma mai didascalici, della realtà che sta alla luce del sole (mentre i musicisti sono costretti a provare e a registrare nelle catacombe). L'insieme che deriva da questa intuizione - la più azzeccata del film - è un autentico e prezioso mosaico.

La denuncia dei problemi sociali è dunque prioritaria, ma il controllo della scrittura - ed è un altro innegabile pregio - non dà l'impressione di abdicare all'urgenza dell'accusa. Né la materia è trattata come nella più sciatta opera di propaganda: il finale è sì pessimista, forse non potrebbe essere altrimenti, ma lo svolgimento è carico d'ironia. Più precisamente, ironia e dramma si rapportano in maniera dialettica: talvolta è la prima a smorzare una situazione tesa, talvolta l'allegria sfocia improvvisamente in dramma. Nel complesso, comunque, i toni sono lievi: di fatto, si tratta di una commedia musicale.

Anche in questo caso, pertanto, chi andrà alla ricerca di un avallo, in questi mesi politicamente tormentati, dei propri (pre)giudizi sulla Repubblica Islamica, rischierà di non esserne del tutto appagato. Ma di scoprire invece, ad esempio, che gli iraniani sanno anche scherzare dei loro problemi, in maniera estremamente intelligente. A giudizio di chi scrive, le sequenze più riuscite sono infatti due; in entrambe, il potere e la repressione intervengono per questioni marginali, di poco conto, mentre Ghobadi ce li fa soltanto intravvedere o li lascia del tutto fuori campo, facendo caricatura e paradosso della loro assurdità. In una un processo più che sommario viene mostrato attraverso l'uscio di una porta socchiusa, nell'altra un gendarme non inquadrato ferma i protagonisti perché trasportano un cane in auto.

Se non si fosse ancora capito, "I gatti persiani" è un film che sorprende, soprattutto in positivo. Ma chi ci ha visto un capolavoro ha forse preso un abbaglio, poiché la struttura palesa crepe, alti e bassi, lungaggini. Il nome di Roxana Saberi suscita interesse per la notorietà della sua vicenda, ma la sua penna non si dimostra così efficace nella stesura dello script. Ghobadi, dal canto suo, pare aver realizzato un buon film di transizione in vista del suo approdo negli States. Anche se, nonostante un'offerta della Dreamworks già in cantiere, per il nuovo stile adottato sembra pronto più per il Sundance che per Hollywood.


martedì 8 novembre 2016

La mela, Samira Makhmalbaf (1998)

Un pezzo d'annata (ma inedito), di Alessandro Arpa, lettore e da oggi collaboratore del blog (benvenuto!), che così si definisce: 
'Laureato in Cinema e Media all'Università di Torino, Alessandro Arpa è un comune mortale. Un miope lucano trapiantato al nord. Amante del cinema e delle sue derive.'


DUE FIORI IN BOCCIO, SIB DI SAMIRA MAKHMALBAF




Laddove i proiettori sono spenti, la necessità urla. Ma come può la sua flebile eco sorvolare le sorde mura erette dai critici? Da anni, la critica siede comodamente sul proprio trono vezzeggiando la mediocrità e la sua immensa prole. Lo sguardo è rivolto esclusivamente all’Occidente e al gusto stereotipato che contraddistingue le grandi produzioni. Ma aldilà del già visto, vi sono gioielli da scovare. Ad esempio, in Iran, vi è una tradizione cinematografica non ancora conosciuta e celebrata.
Nel 1998 è Samira Makhmalbaf ad aggiungersi alla schiera dei grandi nomi. Figlia del regista Mohsen Makhmalbaf, icona della cinematografia iraniana, la giovane ragazza, a soli diciott’anni, crea un’opera d’esordio ragguardevole: Sib (La mela). Approdata al mondo del cinema grazie al padre, la giovane persiana mostra di essere un’esperta regista capace di lasciare un’impronta nella cinematografia del suo Paese nonostante la giovane età. Il lavoro partecipa alla selezione ufficiale del Festival di Cannes e Samira diventa la più giovane regista a presentare un’opera alla kermesse.
Sib racconta la storia vera delle gemelle dodicenni Massoumeh e Zahra Naderi e della loro famiglia. Le due bambine hanno vissuto per undici anni segregate in casa, l’unico luogo aperto accessibile, se concesso dal padre, è il piccolo patio della casa. Pochi metri quadri spogli ed asettici. La condizione di reclusione non ha permesso alle due bambine di avere alcun rapporto umano compromettendo la capacità dialettica delle bambine e provocando un profondo disturbo psichico, egregiamente catturato dallo sguardo della regista. Massoumeh e Zahra sbiascicano versi, come fossero cuccioli di animali. Come germogli non ancora fioriti, le gemelle occupano il loro tempo irrorando d’acqua un piccolo vaso o scrutando il cielo che, corteggiato dalla lucentezza dei raggi solari, è in gabbia proprio come loro [Immagine 1, 2].



Seppure tratto da una storia reale, Sib riesce a discostarsi da una mera riproduzione positivistica del fatto legando elementi storici ad una rielaborazione degli eventi condotta dalla giovane Samira e dal padre Mohsen, co-scrittore della sceneggiatura. La mania documentaristica che contraddistingue lo stile registico del Paese ritorna nelle prime immagini del film quando, come in una sorta di reportage, vengono riprese le gemelle all’interno di una struttura d’assistenza sociale [Immagine 3]. Dopo anni di reclusione, i vicini di casa denunciano alle autorità la situazione disumana vissuta dalle bambine che, strappate dalle grinfie dei genitori: una donna cieca, prigioniera della sua infermità e un uomo accecato dalla fede, vengono finalmente trattate umanamente dagli operatori sociali. Ma il periodo di quiete è sempre il più effimero e nonostante siano state purificate dal fetido ricordo di una prigionia casalinga, gli assistenti sociali sono tenuti a restituirle ai propri genitori. Quando le piccole riabbracciano il ventre materno, l’incantesimo svanisce e ritorna prepotente il sentore di un’imminente detenzione. Dal video si passa ai 35 mm e ad una ripresa dall’alto che anticipa il ritorno al proprio inferno privato [Immagine 4].


Il passaggio da un formato all’altro annuncia la ricostruzione della storia da parte della regista. La resa tanto realistica è data dall’utilizzo dei veri protagonisti del fatto di cronaca che interpretano i loro rispettivi ruoli. L’utilizzo di un linguaggio meta-cinematografico, caratteristico anche del cinema di Mohsen Makhmalbaf, crea una struttura ad incastri che affascina lo spettatore.
Ancora recluse, Massoumeh e Zahra, come galeotte, scrutano il cielo e la piccola finestra della casa di fronte. Sopperiscono alla parola tintinnando cucchiai metallici contro le sbarre. Ma la Salvezza non soggiorna lontano da lì e l’arrivo a casa di un’assistente sociale per un controllo, diventa l’inizio di una nuova vita. Le sorelle sono liberate dalle fatiscenti sbarre che le rinchiudono e vengono invitate dall’operatrice ad uscire di casa, a giocare per strada con gli altri bambini. Il primo tentativo si rivela fallimentare e le ragazze, abituate al loro zoo, ripercorrono la stretta via che conduce a casa. Intanto, il padre viene invitato ad entrare in gabbia-casa. Per riacquisire la propria libertà, l’uomo dovrebbe dividere in due le sbarre con una piccola sega oppure rischiarare le sue tetre convinzioni. Fortemente maschilista e ottenebrato dagli integralismi religiosi, l’uomo ritiene che le donne siano dei fiori che, alla luce del sole, rischiano di svanire o batuffoli di cotone consumati da una sorgente di calore. La clausura implica, però, una redenzione. L’uomo solo con se stesso specchia le sue ataviche certezze e le mette in discussione [Immagine 5]. Ritorna più volte in Sib l’immagine dello specchio, chiaro riferimento al cinema di Mohsen Makhmalbaf che nella sua produzione ne fa un uso ricorrente (“È difficile ricomporre i pezzi di uno specchio”). Procede, intanto, tra difficoltà e tenerezze, l’avventura delle due gemelle nel mondo civilizzato. Ciò che per noi appare banale e semplice, per Massoumeh e Zahra è un impedimento (toccante è la scena del gelato e di quanto sia difficile, per loro, comprarne uno).
La giornata, giunta al suo termine, rima con il finale. L’operatrice sociale si assicura che le due gemelle sappiano sbloccare la serratura, così da poter entrare a casa, ma soprattutto essere libere di uscire quanto ne hanno voglia. Avvolta dai lamenti di Massoumeh, la scena si riempie di doloranti primi piani e del particolare della serratura [Immagine 6]. Un lirismo tragico ridimensiona la felicità delle sorelle.





L’esperienza vissuta ha scosso il padre che, profondamente cambiato, asseconda la richiesta delle figlie di avere un orologio da polso e, senza esitare, le accompagna a comprarlo. Lascia alle sue spalle la moglie.
L’animo della donna è ancora invischiato tra i paludosi egoismi della cecità. Rintanata nella sua gabbia invisibile, non riesce a rivalutare la propria ideologia. Ma nella solitudine qualcosa si smuove e avvolta dallo chador, la donna esce di casa sola. Il primo passo verso la vita è contenuto nel frame finale. La donna riesce ad acchiappare una mela, in un’immagine complementare che rievoca il vano tentativo condotto dalle ragazze a metà lungometraggio. E nella mela acciuffata si riversa l’avvento di una vita fatta di realtà e condivisioni. [Immagine 7,8].



giovedì 3 novembre 2016

The Lizard, Kamal Tabrizi (2004)

C'è almeno un film iraniano relativamente recente che ha ottenuto una discreta eco senza passare dai principali festival internazionali. Certo, è pur vero che ha sfruttato un'aura di film maledetto e censurato, altro classico - ma meno agevole - viatico per il successo. "The Lizard", conosciuto anche con il titolo originale persiano "Marmoulak", è infatti un film che dileggia il clero della teocrazia iraniana come mai si era visto prima. 









Il colmo è che inizialmente i censori non si accorgono di nulla. La pellicola viene regolarmente distribuita in sala, con vasto riscontro di pubblico. Tempo un mesetto e scatta la messa al bando. Comincia così la seconda vita del film, quella della circolazione clandestina. Fenomeno diffusissimo in Iran, come ben sa chiunque abbia visto "I gatti persiani" o "Taxi Teheran".

La metafora è esplicita fin da subito, Kamal Tabrizi spinge su questo registro. L'inizio in medias res ci mostra un uomo (Parviz Parastui, tra gli attori più acclamati del paese) arrestato, accusato di rapina (ma si proclama innocente) e subito sottoposto a una "dieta spirituale" in un carcere che non è in grado di redimerlo, che anzi gli procura la pena dell'isolamento qualsiasi cosa egli faccia; anche immeritatamente, avendo solo obbedito agli ordini del severissimo direttore. Reza, detto 'Lucertola' per le sue doti di arrampicatore e per il tatuaggio che ha sul braccio (ma sarà anche un ottimo... camaleonte) trova la via della fuga dopo un ricovero in ospedale per una ferita al braccio, che si è procurato in seguito a un tentativo di suicidio (peccato gravissimo!). 

In corsia incontra un mullah, Reza anche lui, che lo introduce alla dottrina ma poi si ritrova derubato di abito ecclesiastico e turbante, usati dalla Lucertola per sgusciare via, così come spicca il volo la colomba che egli aveva liberato dal filo spinato del perimetro della prigione.

 


Tutta l'ottima prima parte, degna dei film giovanili di Mohsen Makhmalbaf, ha un ritmo mozzafiato, con i dialoghi interrotti solo nel momento in cui il protagonista, nei sui abiti nuovi, si trova senza parole... poiché costretto a improvvisare una preghiera dinanzi ai fedeli. Il prosieguo approda a una più classica commedia degli equivoci, zeppa di battute a sfondo teologico (esilarante quella sul comportamento da tenersi quando di guarda un horror).

Il Nostro si immedesima nel ruolo; acquisice pure personalità nella predica, grazie al leitmotiv per cui non c'è un solo sentiero per giungere a Dio, ognuno ha il proprio, compreso il criminale detenuto.
Parallelamente si trova a rispondere a una serie di domande bizzarre da parte dei fedeli e soprattutto degli aspiranti mullah, ad esempio su come organizzare le cinque preghiere giornaliere al Polo Nord, con sei mesi di notte ininterrotta, o a bordo di un'astronave nello spazio.

(La svolta comica si era già intravvista in una tappa della fuga dal carcere: un predicatore televisivo ciancia di Internet e multimedialità; alla ricerca di un mullah più tradizionalista, Reza cambia canale e si imbatte in un discorso sulla ricerca di Dio in "Pulp Fiction". Più avanti la Lucertola parlerà del "fratello" Tarantino, grande regista cristiano.)

Prevedibilmente Reza non riesce a celare la propria indole - dall'attrazione per le donne, all'irascibilità, all'abilità nell'arrampicata, mentre la polizia gli va alle calcagna. Si tradirà predicando di fronte ai suoi ex compagni di cella.

Il soggetto, abbiamo visto, è folgorante. Nel prosieguo non sempre il film riesce a mantenere la medesima originalità, né pari interesse. 
Certo deve essere stato uno shock, per gli spettatori, vedere un evaso nelle vesti di chi guida il paese, ossequiato da tutti. Il mondo a testa in giù: come quello che vede Reza la Lucertola quando prega per la prima volta.








martedì 1 novembre 2016

Il passato, Asghar Farhadi (2013)

In attesa del bellissimo "Il cliente", in uscita il prossimo 24 novembre per Lucky Red, ricordiamo "Il passato", il film precedente e altrettanto valido di Asghar Farhadi. Anche in questo caso non possiamo chiamarlo iraniano, poiché la produzione è francese. Tuttavia stiamo parlando del regista di punta della cinematografia nazionale; che non ha scelto la diaspora: ha solo fatto una trasferta. L'eccezione ci pare lecita.





"La verità era uno specchio che cadendo dal cielo si ruppe. Ciascuno ne prese un pezzo e vedendo riflessa in esso la propria immagine, credette di possedere l'intera verità." Questi versi, ad opera del poeta e mistico Rumi, citati spesso da Mohsen Makhmalbaf, sono stati un punto di riferimento e ispirazione per gran parte dei registi iraniani acclamanti a livello internazionale, soprattutto negli anni Novanta. Se per loro, tuttavia, relatività significava soprattutto cinema nel cinema, per il quarantunenne [oggi quarantaquattrenne] Asghar Farhadi, unico nome di spicco dell'ultima ondata di cineasti persiani, è questione di punti di vista alternativi sulla realtà, presente e passata. Se se ne ha un'opinione prevenuta, non suffragata dall'esperienza, questa è dovuta in particolare a una costruzione mentale, che andrà gradualmente smascherata e rovesciata attraverso la conoscenza, il confronto, il dibattito, il moltiplicarsi degli angoli di osservazione. In termini cinematografici, attraverso i dialoghi di una sceneggiatura cesellata con la precisione maniacale del miniaturista.

Palesata definitivamente quest'abilità con il capolavoro "Una separazione", giunto ora al sesto film, il Nostro si configura definitivamente come il regista iraniano più marcatamente borghese (lo è almeno dalla sua terza opera, "Fireworks Wednesday", inedita in Italia), per la centralità del tema della famiglia, che gli è dichiaratamente caro, e per l'estrazione sociale dei personaggi. La grossa novità è la trasferta. Abbandonata la terra natia, Farhadi approda in Francia, come il protagonista Ahmad (Ali Mossaffa), che vi fa ritorno dopo quattro anni, per formalizzare il divorzio con Marie (Bérénice Bejo), che nel frattempo vive con un nuovo compagno, Samir (Tahar Rahim, il "Profeta" di Audiard) e il suo bambino, insieme a due figli nati da un matrimonio di Marie precedente a quello con Ahmad. Samir a sua volta è sposato, ma la moglie vegeta in stato comatoso dopo aver tentato il suicidio. La trama, come si può vedere, è intricatissima, fitta di drammi sentimentali e malintesi multipli, sempre disvelati con una precisione di scrittura davvero rara.

Fuori dai patrii confini, il cinema farhadiano perde i rimandi alla morale religiosa e ai vincoli politici che arricchivano di contenuti "About Elly" e "Una separazione", ma trova un'ottima compensazione con la scelta di avere tre protagonisti, sempre meravigliosamente caratterizzati (così come i personaggi di contorno, compresi i bambini, gli unici limpidi, trasparenti, incapaci di costruirsi sovrastrutture mentali in quanto scevri delle ombre e del passato e ben radicati nel presente), rispetto alla coralità e alla situazione di coppia dei due precedenti.
Le complicazioni del narrato sono la naturale conseguenza per chi ambisce, riuscendoci, a tirar fuori dal cilindro un grande film partendo da assunti da dramma teatrale ottocentesco. Sono infatti il palcoscenico e la figura di Henrik Ibsen rispettivamente la palestra di formazione e il principale riferimento artistico di Farhadi.

Sul piano prettamente registico curiosamente l'autore, proprio come in "Una separazione", riserva le sequenze di maggiore impatto all'incipit e all'epilogo: da un lato l'arrivo in aeroporto di Ahmad e il non dialogo con Marie attraverso un vetro, emblema dell'incomunicabilità tra i due ex-coniugi, dall'altra un piano-sequenza finale dal sapore dreyeriano (meglio non rivelare di più). In mezzo, Farhadi si affida al découpage classico, ma evita il rischio soap opera grazie all'eccellente direzione degli attori - magistrale quella dei bambini - e a un impiego delle musiche sottilissimo, quasi impercettibile.
Per la fortissima tensione creata nella messa in scena di drammi familiari, da più parti si è parlato di thriller psicologico, di dramma filmato come un poliziesco, di "film alla Bergman girato da Hitchcock". Più propriamente, meglio definirlo come un grande, densissimo melò contemporaneo, alla stregua dei più alti esempi del genere. Un nuovo "Segreti e bugie", insomma, firmato dal più grande sceneggiatore nonché uno dei maggiori cineasti sulla piazza.


Una menzione speciale, da parte nostra e della giuria di Cannes 2013, che le ha assegnato il Prix d'interprétation, va infine all'attrice protagonista, Bérénice Bejo. Lanciata definitivamente nel firmamento da "The Artist" del marito Michel Hazanavicius, ci spiazza interpretando un personaggio diametralmente opposto, persino caratterizzato con una punta di misoginia. Bérénice riesce a restituire, in maniera impeccabile, l'"energica debolezza" e l'antipatia che lo contraddistinguono. E pensare che il regista le avrebbe preferito Marion Cotillard...


Pubblicato su Ondacinema, in anteprima rispetto all'uscita in sala, il 19/6/2013

domenica 30 ottobre 2016

Sotto le rovine del Buddha, Hana Makhmalbaf (2007)

Avevo già recensito alcuni film della classifica alternativa dei migliori film iraniani del nuovo secolo. Ad esempio il n.7:







Inedito in sala, transitato fugacemente per i festival italiani, vincitore della ventunesima edizione di quello milanese dedicato al cinema d'Africa, Asia e America Latina, già nel catalogo dvd "Cineclub" della Bim Distribuzione, dal maggio 2011 anche su Raitre nella programmazione di Fuori Orario, l'esordio nel lungometraggio della diciannovenne figlia e sorella d'arte Hana Makhmalbaf è un debutto senz'altro promettente per un talento grezzo che successivamente confermerà le proprie doti nel raffazzonato "Green Days", in attesa di ulteriori e più mature prove, si spera supportate da una produzione degna di questo nome. Aperto e chiuso dalle immagini di repertorio dei Buddha giganti di Bamiyan fatti esplodere dai talebani nel 2001, il film si concentra sulla vergogna (termine incluso nel titolo internazionale) quotidiana che si consuma sotto le loro rovine, in un Afghanistan contemporaneo senza legge, più che in balia di un'aggressione e della conseguente resistenza. In poche sequenze molto lunghe, la breve pellicola affronta in particolare due temi centrali, per quanto non nuovi, nel cinema di quelle latitudini: l'educazione repressiva in famiglia e a scuola, la cultura della guerra e della violenza che pervade la società.

Il primo è argomento persino abusato dagli autori iraniani, specie nella prospettiva dei bambini (che l'autrice sa dirigere benissimo), adottata da un film al cento per cento sull'infanzia. Se il piccolo Abbas viene addirittura legato per una caviglia (e i suoi coetanei fanno lo stesso coi neonati) per impedire che si perda negli spazi immensi a duemilacinquecento metri di altitudine tra le grotte adibite ad abitazioni di pietra, una scuola che si rivelerà altrettanto severa (affollate classi sovente all'aperto, divisione per sesso, punizioni umilianti) è ambita da Bakhtay, invidiosa delle capacità di lettura di Abbas e delle bambine a cui i genitori comprano la cancelleria. Nella sequenza più tipicamente iraniana del film Bakhtay cerca in tutti i modi l'attrezzatura per emularli, col baratto e con il mercato, muovendosi tra adulti indifferenti (per lo più fuori campo) se non dannosi (uno le fa cadere le uova che cerca di vendere), reiterando azioni e richieste, svelando un mondo primitivo (interi manzi macellati giacenti in terra in mezzo alla polvere), ma al contempo universale per come avvengono le relazioni tra gli uomini. Pare esplicita la citazione de "Il pane e il vicolo", ma altre opere di Kiarostami, come "Dov'èla casa del mio amico" "Il viaggiatore", nonché molti film recenti degli altri Makhmalbaf (non a caso produzione, sceneggiatura e scenografie sono a conduzione familiare), balzano alla memoria.

Il salto di qualità si produce però quando "Sotto le rovine del Buddha" si concentra sul secondo tema-chiave, sottolineando come espressioni agghiaccianti quali "quando cresco vi uccido" e "muori e sarai libera" appartengano al lessico ludico dei futuri adulti afgani. Le sequenze in cui bambini organizzati in squadre giocano alla guerra con i toni e i modi di chi la sta combattendo sul serio, o la finta lapidazione di cui i giovani boia assicurano la veridicità, sono peculiari di una durezza inaudita che rende il film sanamente controverso e non per tutti i gusti, nonostante una risaputa poetica degli oggetti (il rossetto è il più significativo) e qualche schematismo di troppo. I fogli strappati dai talebani in erba  (va però sottolineato che anche gli americani sono personificati dalle baby gang: più che la cultura talebana i bambini hanno introiettato il linguaggio del conflitto) e trasformati in aerei da guerra di carta, oppure Bakhtay (l'unica a mostrare segni di ribellione alla prassi della guerra per divertimento) che salta nei cerchi di gesso disegnati per confinarla sono quelle metafore - del diritto al gioco e all'istruzione frustrati dalla situazione bellica - normalmente odiate dalla critica. Qui però vengono trascese da un'insolita crudezza, che ha pochi precedenti nelle filmografie degli autori iraniani.









venerdì 28 ottobre 2016

I migliori film iraniani del XXI secolo (e una classifica alternativa)

Lo scorso febbraio, il sito Taste of Cinema ha pubblicato la classifica dei 10 migliori film iraniani del 21mo secolo. La lista è curata da Zara Knox, collaboratrice di Imvbox, preziosa piattaforma di film iraniani in streaming. Tenuta in conto la data di pubblicazione, non sorprende l’esclusione di un film come “Taxi Teheran, che la stessa Knox ha altrove indicato come miglior film del paese del 2015, ma che non aveva ancora ottenuto piena visibilità internazionale. Stesso discorso per altre, eventuali, opere recenti.


Questa la top 10:
Risultati immagini per under the skin of the city

1. Under The Skin of The City – Rakhshan Bani-Etemad
3. The Willow Tree – Majid Majidi
4. Santouri – Dariush Mehrjui
7. Una separazione – Asghar Farhadi
8. Fish and Cat – Shahram Mokri
10. Tales – Rakhshan Bani-Etemad


Nel complesso la classifica è valida. Condivisibile in pieno la scelta di valorizzare con due film il (giustamente) pluripremiato, anche con l'Oscar, Asghar Farhadi: anzi, sarebbero state meritevoli anche le due pellicole precedenti. Se un paio lungometraggi della Bani-Etemad sembrerebbero troppi, va detto che si premiano uno dei suoi esiti migliori (“Under the Skin of the City”) e un’opera presentata in concorso alla Mostra di Venezia, evento non comune. Majid Majidi è un artista sottovalutato, per cui ben venga il riuscito (quanto un po' già visto) “The Willow Tree”. Chissà se “Facing Mirror” compare solo per l’inusuale (nel contesto) tematica transgender; di sicuro “L'isola di ferro”, che uscì anche in Italia, è invece un piccolo gioiello al di là delle vicissitudini giudiziarie del regista, analoghe a quelle di Jafar Panahi. Completano la graduatoria due chicche come “Melbourne”, folgorante opera prima che assimila la lezione dell’ormai maestro Farhadi, l'originalissimo “Fish and Cat”, capace di coniugare in maniera inedita cinema di genere (anzi… di generi diversi) e tipica riflessione metacinematografica, e uno dei film migliori dell’ultra veterano Dariush Mehrjui.
Poco da discutere, dunque. Tuttavia mancano opere ed autori fondamentali. Il cinema delle minoranze etniche, innanzi tutto, e il suo massimo esponente, il curdo Bahman Ghobadi. Poi Panahi, che non ha mai sbagliato un film: potrebbero essere tutti in classifica. Qualcosa della famiglia Makhmalbaf, nonostante i tanti passi falsi, e nonostante l’abitudine a produrre in Iran ma girare all’estero. E qualche autore forse minore, ma comunque degno di maggiore visibilità.
Senza voler sostituire nulla, una classifica alternativa potrebbe essere:
 

4. Fireworks Wednesday – Asghar Farhadi
5. Story Undone – Hassan Yektapanah
10. Half Moon – Bahman Ghobadi

Questa graduatoria esclude i cortometraggi. E i film realizzati nell’anno 2000, considerato ultimo anno del secolo scorso. Da soli, questi ultimi, potrebbero costituire una validissima top 10 a sé stante. Del resto, eravamo ancora nell’età dell’oro.

venerdì 21 ottobre 2016

A Girl Walks Home Alone At Night, Ana Lily Amirpour (2014)

Non chiamatelo film iraniano

Realizzato nel 2014 e uscito in Italia, fugacemente, quest'anno, "A Girl Walks Home Alone At Night" è il primo lungometraggio di Ana Lily Amirpour. L'autrice nel frattempo è riuscita, nientemeno, ad approdare in concorso a Venezia con un'opera seconda dal cast stellare (Jim Carey e Keanu Reeves tra gli altri). Pellicola stroncata all'unanimità dalla critica, ma non dalla giuria, che le ha assegnato il Premio speciale.

Una carriera sì fulminante non sorprende se si è visto il film di esordio, un cult cercato, voluto a tutti i costi, che sprizza maniera da ogni fotogramma e che ha fatto parlare di cinema iraniano che finalmente si rinnova con un film di vampiri - ma di ambientazione contemporanea - in bianco e nero; più simile, per seriosità e 'devianza', a "The Addiction" di Ferrara che al recente e altrettanto 'musicale' - ma qui i brani sono troppi! - "Solo gli amanti sopravvivono" di Jarmusch.  

Ma ecco che casca l'asino: "A Girl..." non è un film iraniano, è una produzione esclusivamente americana; come statunitense, nata in Inghilterra da genitori persiani, è la Amirpour. Così si spiega, tra l'altro, il taglio da Sundance, festival che ha infatti accolto la pellicola a braccia aperte.
Ad alimentare l'equivoco è stato il distributore Academy Two, che ha inserito "A Girl..." nel pacchetto "Nuovo cinema Teheran" comprendente quattro film. Un'operazione meritoria (ormai l'Iran è pressoché sparito dai nostri schermi), con solo questa nota stonata.

L'occhio esperto, tuttavia, non può essere ingannato. C'è almeno un elemento  (in realtà sono tanti) che fuga ogni dubbio. La regista filma le donne con il chador in esterni, ma con il capo scoperto in interni. Come è grossomodo prescritto dalla rigida legislazione del paese (se per interni intendiamo la dimora, in presenza di parenti e non di estranei).
Questo però non vale per il cinema: le attrici non possono scoprirsi neanche in casa, per cui i registi, se adottano un registro realistico, devono ricorrere a espedienti quali un asciugamano o un copricapo qualsiasi.

Pertanto, inquadrature come la seguente attestano che il film è stato prodotto altrove.





domenica 16 ottobre 2016

Una rassegna al Cineforum del Circolo

Collaboro col Cineforum del Circolo dalla stagione 2008/2009. La mia prima rassegna, "Il velo sullo schermo", era sul cinema iraniano. Il quaderno che la accompagnava si apre con questa introduzione, intitolata "Viaggio nel cinema iraniano"












Ciò che vi dico stasera, in futuro apparirà ovvio: 
oggi i migliori film del mondo vengono realizzati in Iran.
Werner Herzog, 1995




Premiato nei principali festival internazionali, acclamato dalla critica, il cinema iraniano è stato per un decennio buono, a partire dalla fine degli anni ottanta, un punto di riferimento per cinefili e addetti ai lavori.

Si tratta di una cinematografia relativamente giovane, che nasce nel secondo dopoguerra e si sviluppa negli anni successi alternando momenti di fermento a periodi di stasi, fino alla svolta, per il cinema come per il Paese, dell'esperienza khomeinista, fenomeno storicamente inedito che coniuga rivoluzione e reazione.

Per quanto concerne la settima arte, una prima stretta repressiva portata dal nuovo regime ha durata breve. Come molti leader autoritari che l'hanno preceduto, non solo in Occidente, anche l'Ayatollah Supremo intuisce le enormi potenzialità del cinema quale strumento di propaganda politica.

Nella prima metà degli anni ottanta prosegue così la gavetta, spesso cominciata nel decennio precedente, di alcuni autori che saranno protagonisti dell'imminente Nouvelle Vague persiana.

Nei film realizzati in questo periodo troviamo in particolare due tematiche: la violenta repressione che veniva esercitata dalla Savak, la micidiale polizia politica dell'ultimo scià, Reza Pahlevi e la cosiddetta guerra imposta, quella seguìta all'invasione delle truppe irachene. Conflitto che in quel periodo sta decimando un'intera generazione: attualmente il sessanta percento della popolazione iraniana ha meno di trent'anni; spesso si tratta di ragazzi cui in tenera età è stato inculcato l'odio verso Saddam Hussein e i suoi seguaci.

Nella seconda metà del decennio alcuni giovani registi, come Mohsen Makhmalbaf, Abbas Kiarostami, Amir Naderi e altri autori un po' meno noti ma non per questo meno validi, raggiungono la piena maturità espressiva e realizzano una serie di opere apprezzate innanzi tutto in patria, dove però spesso incappano nelle maglie della censura, ma anche all'estero, dove il Nuovo Cinema Iraniano ottiene un sempre maggior seguito.

I cinefili occidentali apprezzano una cinematografia che appare erede del Neorealismo italiano, che coniuga una sublime poetica dei piccoli oggetti con acute riflessioni metacinematografiche, che racconta con arguzia e sensibilità esperienze di vita quotidiana che assumono un respiro universale, che consegna alla memoria indimenticabili volti di attori non professionisti, spesso bambini, protagonisti di vicende commoventi.

Negli anni '90, col governo del Partito Riformista del Presidente Khatami, la cinematografia nazionale riceve un nuovo impulso, fino alla definitiva consacrazione con la Palma d'oro assegnata al suo esponente più rappresentativo, Kiarostami, premiato nel 1997 per Ilsapore della ciliegia e con il Leone d'oro ottenuto nel 2000 da Il cerchio del suo allievo Jafar Panahi, un giovane regista fortemente critico nei confronti del regime.
Come inevitabilmente accade, all'apogeo segue poi un relativo declino. Negli ultimi anni la critica e il pubblico internazionali hanno perso interesse verso il cinema iraniano. Ciò può essere spiegato con almeno due motivazioni: la tendenza alla ripetizione - di maniera - di alcuni stilemi e contenuti, riscontrabile ad esempio nella produzione della famiglia Makhmalbaf (hanno realizzato film, in qualità di registe, sia la moglie sia le due giovanissime figlie di Mohsen, queste ultime raccogliendo un'enorme messe di premi in festival di vario prestigio) e la nuova politica censoria del Presidente conservatore Ahmadinejad.
Se da un lato il livello medio dei film iraniani sembrerebbe essere effettivamente calato, è però vero che alcuni giovani autori, come lo stesso Panahi o un altro allievo di Kiarostami, il curdo Ghobadi, hanno acquisito maturità e autonomia. I loro ultimi, splendidi film sono inediti in Italia, ma avrebbero senz'altro meritato una distribuzione.