martedì 28 marzo 2017

The Hunter - Il cacciatore, di Rafi Pitts (2010)






Tra gli autori della diaspora iraniana più apprezzati in Occidente, sovente bene accolto al festival di Berlino, debutta nelle sale italiane il talentuoso ma al contempo furbetto Rafi Pitts - quarantaquattrenne con alle spalle un infanzia tra Mashhad e Teheran e l'approdo nella paterna Gran Bretagna agli albori della Guerra Iran-Iraq - giunto al quarto lungometraggio e al convincente esordio - di fatto - in qualità di attore, dopo che il prescelto per il ruolo di protagonista è risultato non all'altezza della parte.






Sensibilmente diverso dal precedente, tipicamente iraniano "It's Winter", "The Hunter" conferma l'impressione di un cineasta molto attento ad accodarsi alle tendenze espresse dalla cinematografia nazionale, a partire dalla scelta dell'ambientazione. Se infatti il suo amico Jafar Panahi (in solidarietà del quale Pitts ha scritto a inizio anno una lettera aperta ad Ahmadinejad) si è posto alla guida del prepotente ritorno dei cineasti persiani nel cuore della metropoli, Rafi Pitts sceglie di collocare la prima parte del suo nuovo lavoro nel bel mezzo delle trafficate strade di Teheran, in corrispondenza (temporale) con il momento più caldo della storia recente del paese: le ultime elezioni presidenziali.




Ma mentre il sottofondo di una radio accesa che trasmette ventiquattro ore su ventiquattro programmi di propaganda è l'efficace accompagnamento per le vicissitudini del disturbato protagonista del film, ex galeotto (non conosciamo il suo crimine) costretto a lavorare di notte, con la passione della caccia e il rammarico di poter frequentare poco la famiglia (ci sono anche forti dubbi sulla possibilità che la figlia non sia realmente sua), il dramma che gli cambierà definitivamente la vita minando alle fondamenta il suo equilibrio precario appare davvero pretestuoso e scarsamente credibile (nonostante la cronaca abbia riportato qualche caso analogo).




La vicenda, che preferiamo non rivelare, innesca una seconda parte della pellicola che pare un film a sé stante, nonché molto meno risolto, allorché con le sequenze nella foresta (impossibile via di fuga dalle maglie degli apparati repressivi) vengono meno il mordente politico e la tenuta drammatica, mentre il calcolo la fa da padrone: quasi il sintomo che il cinema iraniano debba oggi restare tra le contraddizioni della città per risultare efficace.


Il gioco delle coincidenze imbastito dall'autore ambisce forse a celebrare il trionfo assoluto del caso, ma è altresì interpretabile come l'affresco di un paese in cui la situazione è talmente ingarbugliata da risultare inestricabile. Tuttavia, se il protagonista racchiude in sé ogni possibile ambiguità, la distinzione tra la sensibilità del militare di leva e il fanatismo del soldato di professione è schematica, mentre il ribaltamento tra preda e cacciatore è quanto di più visto e stravisto nel cinema di ogni luogo ed epoca.

Dedicato a Bozorg Alavi, scrittore comunista; esule come Pitts, anche se costretto dal precedente regime.









Pubblicato su Ondacinema il 23/06/2011

giovedì 23 marzo 2017

Copia conforme, Abbas Kiarostami (2010)

Abbandoniamo eccezionalmente i confini dell’Iran per ripercorrere la più celebre trasferta kiarostamiana. Articolo pubblicato su Ondacinema il 22/05/2010







Erano molte le incognite intorno alla nuova opera di Kiarostami. Innanzi tutto il regista, che ha di recente dichiarato di voler continuare a lavorare in Iran onde evitare la perdita dell'ispirazione, completa un film all'estero. Per la prima volta, come hanno scritto tutti: ma solo se ci si riferisce ai lungometraggi di fiction, altrimenti bisogna aggiungere il documentario "ABC Africa", o l'episodio del film collettivo "Tickets". Regista che inoltre a suo tempo disse, dopo un'esperienza insoddisfacente con uno dei protagonisti di "Sotto gli ulivi", di non desiderare più attori professionisti nei cast. E che opta per una star internazionale come Juliette Binoche, dopo aver fatto "sfilare" le attrici più note del suo Paese più la stessa Binoche in "Shirin". Dopo il mancato Leone d'Oro a "Il vento ci porterà via", sostenne poi di non voler più presentare i suoi film in concorso nei festival. All'ultimo, pare come ripiego, "Copia conforme" è invece in corsa per la Palma d'Oro alla Croisette. Ma la smentita era già arrivata con il film successivo, "Dieci", che partecipò alla medesima competizione. Peculiarità di un autore la cui opera, al pari delle sue esternazioni, ha la sua forza in una commistione unica e inimitabile di coerenza e contraddizione.

Ma i dubbi vertevano anche sul ritorno del regista al cinema narrativo, dopo le recenti (inedite da noi) prolungate sperimentazioni. Sul confronto con più culture straniere, le origini francese e inglese dei protagonisti - una piccola gallerista e un saggista e romanziere (il baritono William Shimell) - e italiana dei personaggi di contorno: tutto a convergere in un'ambientazione rurale toscana. Sull'estrazione sociale dei personaggi principali, così diversi dai precedenti eroi kiarostamiani, grandi e piccini. Sulle convinzioni e sulle difficoltà produttive con cui è portato a compimento un lavoro abbandonato e un anno dopo riesumato: è ipotizzabile la non compresenza degli attori e il ricorso alle controfigure in alcuni insistiti campo/controcampo, come quello nel locale con la gestrice che sussurra qualcosa nell'orecchio della gallerista, mentre inizialmente non si era ben capito cosa avesse fatto (ma questo è parte dello stile dell'autore) o quello della donna con suo figlio, con lei che si allontana, sfocata, in campo lungo.

Per finire coi temi. Il film comincia con una tipica riflessione kiarostamiana su realtà e finzione, la quale, pur permanendo in corso d'opera e influenzando a mo' di basso continuo lo svolgimento successivo, lascia il posto a un complicato e surreale dibattito sulle età del rapporto di coppia: l'incontro e la seduzione, la cerimonia del matrimonio, la vita coniugale, la crescita dei figli, la crisi, la convivenza durante la vecchiaia. Un gioco delle parti e degli specchi, ricchissimo di rimandi e impossibile da cogliere nella sua complessità in un'unica visione e da raccontare in poche righe, interpretato dalla gallerista e dallo scrittore e dai personaggi che incontrano nella loro gita a Lucignano. E un argomento che il regista aveva affrontato una sola volta, nel lontano 1977, nel riuscito e semi-sconosciuto secondo lungometraggio, "Il rapporto", che ancora oggi appare come un corpo estraneo nella sua filmografia.





Se il suo predecessore, mosso dall'autobiografia, era spontaneo e sentito, "Copia conforme" appare invece costruito a tavolino, di maniera, esageratamente intellettualistico. Kiarostami attinge a piene mani dal suo repertorio fatto di fuori campo, effetti di straniamento qui un po' meccanici (il risaputo squillare del telefonino), iterazioni protratte (nella sequenza al ristorante tira davvero la corda, con lo spettatore). Nei suoi capolavori la filosofia sgorgava dalla quotidianità, la riflessione profonda da assunti del tutto semplici, l'incedere quasi estenuante era accompagnato da una straordinaria levità di fondo. Quella di un Eric Rohmer, oggi spesso citato. I punti di convergenza con il maestro della Nouvelle Vague ci sono sempre stati, se non altro per la capacità di entrambi (Kiarostami cura anche la sceneggiatura, oltre che il montaggio) di fare dei dialoghi il vero motore drammaturgico delle loro opere. Le differenze risiedevano nei soggetti dei film e nel ceto, nell'origine, nell'età anagrafica del protagonisti.




Alle prese con il suo film europeo e borghese, Kiarostami realizza però un macchinoso surrogato del suo cinema, non privo di bei momenti (la sequenza caleidoscopica in cui lo scrittore è refrattario nel fare una fotografia agli sposini), che talvolta sfocia in una soap opera dell'incomunicabilità da teatro beckettiano, eccessivamente caricata dalla recitazione professionale degli attori (Shimell qui debutta nel cinema, ma è abituato a stare sul palcoscenico) e appesantita da un'impostazione cerebrale sostanzialmente irrisolta e solo in parte giustificata dalle sovrastrutture mentali tipiche di personaggi acculturati. Un film indubbiamente intelligente ma mai geniale, con un'ombra inedita e preoccupante di cinefilia (la presenza di Jean-Claude Carrière).




Un ultimo interrogativo, allargando il discorso, è se l'iraniano, al pari dei suoi colleghi in voga negli anni novanta e oggi in evidente declino (i Kitano, i Kusturica ecc.), possa annoverarsi tra i grandi cineasti di sempre. Chi scrive continua a considerarlo il maggiore artista vivente e, di fronte a una produzione recente autoreferenziale che poco convince (salvo un unico capolavoro: il documentario "Roads of Kiarostami"), per il momento sospende il giudizio.



domenica 19 marzo 2017

Libro: Jafar Panahi - images / nuages, di Clément Chéroux e Jean-Michel Frodon (2016)

Inauguriamo una rubrica dedicata ai libri. Saranno quasi esclusivamente libri in italiano che si occupano in tutto o in parte di cinema iraniano. Iniziamo però con un'eccezione: il primo volume di cui trattiamo è in francese. Non potevamo non parlarne, data l'importanza della pubblicazione: si tratta con ogni probabilità del primo testo in assoluto dedicato a Jafar Panahi, che ha accompagnato la prima retrospettiva integrale, comprensiva degli inediti cortometraggi giovanili, sulla sua opera, allestita lo scorso autunno al Centre Pompidou di Parigi, insieme all'esposizione delle fotografie scattate da Panahi e riportate anche nel volume.





Lo storico del cinema Jean-Michel Frodon tratteggia una breve (12 pagine) ma puntuale monografia dell'autore, contestualizzandone correttamente l'opera e delineandone l'evoluzione artistica. Segue una lunga (20 pagine) intervista al regista, in violazione della sentenza che lo ha interdetto dal rilasciarne, raccolta nella sua abitazione di Teheran il 25 aprile 2016. 
Nel capitolo successivo, il curatore della mostra Clément Chéroux ne ricostruisce le vicissitudini giudiziarie e umane, trova analogie con quanto subito in passato da altri artisti e traccia una bizzarra storia delle nuvole, per come le ha studiate l'uomo. Le nuvole sono il soggetto unico delle fotografie di Panahi*, tutte senza titolo, realizzate tra il 2013 e il 2014, qui riprodotte purtroppo con una cattiva impaginazione.





Ci si poteva aspettare di più in tema di analisi dei film. Tuttavia, il volume svela parecchio sulla vita privata dell'autore, di cui si sapeva poco, evitando al contempo i meri pettegolezzi. Per esempio, scoprire il suo legame strettissimo con Teheran aiuta a comprendere come mai nasce un autore così urbano negli anni 90, un'epoca in cui le macchine da presa dei registi iraniani sono nettamente orientate verso le campagne. Curiosità: l'anagrafe riporta Mianeh, località dell'Azerbaijan iraniano, come suo luogo di nascita, ma è una scelta di registrazione effettuata dal padre, legatissimo alla terra natia. Jafar nasce invece nella capitale, e si sente iraniano al di là dell'appartenenza a una minoranza etnica.

Da non perdere i racconti di vita universitaria - dove nascono i primi corti e mediometraggi -, gli accenni al fronte iracheno (con breve prigionia), la folgorazione sulla via di "Ladri di biciclette", i progetti irrealizzati sull'ultimo giorno di guerra e sulle proteste contro Ahmadinejad. Commoventi i brani sul rapporto col mentore Abbas Kiarostami, non ancora scomparso al momento dell'intervista. Il Maestro gli ha spianato la strada, assumendolo come assistente e attore in “Sotto gli ulivi”, scrivendo poi lo script per la sua prima regia “Il palloncino bianco”**. Gli ha insegnato moltissimo... e qualcosa ha ancora da insegnargli: come fotografo aveva ben altra caratura.



*Il motivo della scelta l'aveva già spiegato, ad esempio in questa conferenza stampa
** Il libro dice molto sulla genesi dei film ma, chissà come mai, non ci racconta come nasce la collaborazione con Kiarostami per “Oro rosso”






martedì 14 marzo 2017

Il tempo dei cavalli ubriachi, Bahman Ghobadi (2000)


 L’ultima delle schede “didascaliche” preparate per ‘Il velo sullo schermo’ 

 


Il film sequenza per sequenza


Una voce fuori campo chiede a una bambina: “Come ti chiami?”; la piccola risponde: “Ameneh, non so quanti anni ho, sono più piccola di Madi, mio fratello; è storpio e malato, ma non sappiamo cosa abbia”. Il suo racconto prosegue: suo padre fa il mulattiere, trasporta “roba” in Iraq, mentre sua madre è morta. Ha anche una sorella e un fratello più grandi, di nome Rojin e Aiyub. Vediamo alcuni di loro mentre, assieme ad altra gente, avvolgono bicchieri e altri oggetti in fogli di giornale, per non farli rompere durante il trasporto. Alcuni bambini si offrono di aiutare i trasportatori più grandi, a pagamento, ma vengono respinti.

Ameneh raggiunge Madi, che appare affaticato, e lo invita a prendere le sue pillole. Aiyub è indaffarato. Arriva un uomo che intende arruolare dei lavoratori, ne scegliesei, due tra gli scartati iniziano ad azzuffarsi.

I prescelti raggiungono i loro muli e iniziano a trainarli.

Ameneh dice a Aiyub di affrettarsi, che il pullman sta partendo. A bordo del veicolo, insieme ad altri compagni di avventura, intonano un canto esistenziale e malinconico,mentre c’è neve tutto intorno. Ameneh racconta che sul confine ci sono un sacco di mine e che molti contrabbandieri sono morti. In questo momento suo padre è lì e lei è preoccupata. Il pullman è fermo e Ayoub e Ameneh fanno prendere le pastiglie a Madi. Un uomo dice loro di nascondersi.

Due ragazzi scendono al volo dal furgone e fuggono, in direzione del confine. Un soldato ferma il veicolo e fa scendere la gente, alla ricerca di qualche iracheno. I passeggeri vengono perquisiti, ma i soldati trovano solo quaderni. Ciononostante, il furgone viene sequestrato e i bambini proseguono a piedi, muovendosi a fatica (soprattutto Madi che è costretto a fermarsi) sopra un grosso strato di neve. Quando poi raggiungono L’Iraq, scoprono, disperati, che loro padre è stato ucciso. I fratelli sono al riparo, a casa dello zio. La voce di Ameneh ci dice che questi non può prendersi cura di loro e che, interrotti gli studi, sarà Aiyub a sostituire loro padre, mentre lei potrà continuare a studiare.




Ha smesso di nevicare, Aiyub colpisce con la falce il tronco di un albero, lo abbatte e trasporta la legna sulla schiena. Raggiunta la casa dello zio, un dottore gli chiede di portargli Madi per l’iniezione, ma Rojin gli dice che Madi è andato al cimitero con Ameneh. Li vediamo proprio lì, mentre piangono davanti alla tomba del padre. Ameneh prega Dio affinché si prenda cura di suo fratello. Sopraggiunge Aiyub, furioso con la sorella per l’iniziativa presa. Prende Madi e lo porta dal dottore. Davanti a lui, Madi dimostra di non sapere di avere quindici anni. I bambini si allontanano, ma il medico chiama Aiyub a sé e gli dice che suo fratello deve essere operato, che l’intervento costa 5.000 dinari (troppi per i quattro fratelli) e che, in ogni caso, dopo l’operazione non potrà vivere più di sette-otto mesi.


In casa, la sera, Ameneh è arrabbiata con Aiyub per il rimprovero del pomeriggio, ma presto i due si rappacificano, mentre Madi li osserva sorridente. Intanto Rojin accarezza la quinta sorellina, che vediamo per la prima volta. Esterno: Ameneh ci dice di aver sentito ciò che il medico ha detto ad Aiyub e che quest’ultimo, non avendo un mulo, difficilmente riuscirà a trovare lavoro. Lo zio intanto prova a intercedere presso un padrone, che concede al ragazzo la possibilità di fare un carico ogni mattina.


I muli si abbeverano; gli uomini versano del liquore nella loro acqua per evitare che avvertano il freddo. Ciò però li costringe a procedere con l’andatura da ubriachi. Aiyub si ferma a riposare e un altro ragazzo lo avvicina, rivelando di non avere un mulo (è saltato su una mina insieme a suo padre) e di non poter coltivare la terra che possiede sempre a causa delle mine. Gli dice anche che ormai sono vicini al confine iracheno. La comitiva si ferma e, per questioni mercantili, scoppia una rissa. Mentre Aiyub si ferma una seconda volta, sentiamo che i lavoratori non otterranno il loro compenso così facilmente.


Il gruppo raggiunge una locanda e Aiyub ordina un tè. Il barista, altrettanto giovane, gli consiglia di farsi pagare prima di iniziare il lavoro. Il ragazzo torna a casa e dice a Rojin di non essere stato ancora pagato. I fratellini stanno dormendo, ma Aiyub sveglia Madi per fargli vede cosa gli ha portato: si tratta del un poster di un culturista.


Aula scolastica: un bambino legge (male) un testo sulle origini dell’aeronautica; in classe c’è anche Ameneh. Arriva Aiyub, che le porta il quaderno che le ha comprato. La carovana dei muli è ancora in cammino, la voce di Ameneh ci rivela che sono passati due mesi, che Aiyub non è riuscito a racimolare i soldi necessari per l’operazione, poiché ha speso tutto per mantenere gli altri fratelli, ma che ora lavora con un mulo, dopo che lo zio, rottosi un braccio nella rissa che abbiamo visto, glielo ha prestato. I lavoratori sentono un’esplosione e si fermano immobili. Uno di loro va in perlustrazione; come gli altri temono, si tratta di un imboscata: non rimane che la fuga.


Lo zio acconsente al matrimonio tra Rojin e il figlio di un uomo, che propone di occuparsi anche di Madi e della sua operazione, facendosi carico delle spese necessarie. Tuttavia, Aiyub non è d’accordo che lo zio decida per sua sorella e vuole che il pretendente e suo padre se ne vadano, la ragazza però rivela di aver deciso autonomamente e di averlo fatto per Madi. Arriva il dottore per l’iniezione, ma in realtà è lì per prendere Madi e farlo partire con Rojin. Aiyub, ancora contrario alla decisione, osserva la scena da lontano, piangendo disperato e chiamando a gran voce il nome dei suoi fratelli. Sopraggiunge poi di corsa, in mezzo alla neve, ma anziché bloccare il gruppo dà una mano a spingere le bestie. I nostri eroi raggiungono poi la comitiva comprendente la madre dello sposo che, avendo già dieci figli, a sorpresa si rifiuta di occuparsi di Madi, nonostante l’intercessione dello zio, che sostiene di non aver avuto la dote e minaccia il divorzio. La donna propone un mulo in cambio del ragazzino, che abbandonato lontano dalla scena trema per il freddo. Lo zio accetta e i parenti dello sposo se ne vanno festosi.
Ancora la voce di Ameneh: Madi è tornato a casa, sta molto male perché da otto giorni non passa il medico e nessuno può fargli le iniezioni. Aiyub, all’oscuro dello zio, ha deciso di portare Madi al bazar e di vendere il mulo in Iraq, per ottenere i soldi per l’operazione. Lo vediamo parlare con un uomo affinché acconsenta di accompagnarlo oltre confine, ma questi teme per Madi, per le mine e le imboscate. Aiyub si assume il rischio e l’uomo accetta di accompagnarli, a patto di non pagarlo e di essere esonerato dalla responsabilità per di ciò che potrà accadere.


Viene data la consueta dose di alcool ai muli e si parte. Ameneh sopraggiunge di corsa per portare del pane per i viaggiatori. Chiede inoltre di portarle un quaderno dall’Iraq. Aiyub trasporta Madi sulla schiena e trascina il mulo; sono quasi arrivati al confine quando un uomo dà l’allarme imboscata. Si sentono degli spari, ma le bestie, ubriache, non riescono a scappare, nonostante le percosse dei padroni. Aiyub è in difficoltà: non riesce a spostare il mulo ed ha posato Madi. Nessuno li aiuta e i tre, alla fine, ripartono da soli, raggiungendo miracolosamente il filo spinato che segna il confine ma che, altrettanto incredibilmente, non è sorvegliato da nessuno. Con facilità lo valicano.



Un'analisi 

Sin dalle primissime battute, appare evidente l'intento didattico-divulgativo de "Il tempo dei cavalli ubriachi". Quell'intervistatore che sentiamo non comparirà mai nel corso del film: introduce semplicemente la biografia dei protagonisti, com'è all'inizio della pellicola: Ameneh racconta che suo padre è (ancora) vivo. Ciò consente allo spettatore di concentrarsi sul racconto senza perdersi nella ricostruzione dei rapporti di parentela, nelle domande sulla malattia di Madi, o in altri elementi che possano distogliere l'attenzione dall'intento ultimo del film: testimoniare, attraverso la vicenda dei protagonisti, la drammatica condizione di un intero popolo. 

I curdi, circa trenta milioni di persone disperse in vari stati del Medio Oriente, sono una delle tante minoranze etniche in Iran. In occidente li si sente talvolta nominare, ma ben pochi hanno idea di come siano i loro volti, tanto meno di quanto sia difficile la loro esistenza, anche perché il cinema non ha mai assolto a questo compito: Ghobadi è di fatto il primo cineasta a esserne cantore (e Il tempo dei cavalli ubriachi è il suo primo lungometraggio). Egli parte dai ricordi della propria gioventù e mette in scena la vicenda di persone autentiche, le stesse che ha mostrato in un suo precedente documentario. Nei titoli di testa leggiamo "con la vita di", anziché un semplice "con". Nulla è inventato, il dramma è reale quanto il cast. Se il paragone tra il Nuovo Cinema iraniano e Il Neorealismo italiano appare spesso forzato, in questo caso è decisamente calzante.

Una situazione tragica, abbiamo detto: nonostante il barlume di speranza del finale, relativamente aperto (ma realizzato in questo modo perché il regista aveva esaurito i fondi a disposizione), ogni via di uscita sembra preclusa. Ma Ghobadi, che invoca la protezione del Signore per i suoi protagonisti (è la didascalia "Nel nome di Dio", d’ordinanza in Iran, a introdurre il film), ha le idee chiare su quale debba essere il punto di partenza per raggiungerla: l'istruzione. Nel film possedere un semplice quaderno è un'impresa che incontra enormi difficoltà, anche assurde; ma i giovani protagonisti la perseguono con tenacia.







giovedì 9 marzo 2017

Cortometraggi, Abbas Kiarostami


SU ALCUNI CORTOMETRAGGI DI ABBAS KIAROSTAMI 

 
Immagine 1
 

Uno dei più grandi maestri del cinema iraniano è sicuramente Abbas Kiarostami. Nella sua prolifica produzione, il regista ha realizzato un consistente numero di cortometraggi. Le prime opere sono caratterizzate da trame semplici e da uno spiccato didatticismo. Ciò si spiega se si tiene a mente che a produrli fu l’Istituto di Sviluppo Intellettuale dei bambini e dei ragazzi.

Il primo lavoro che Kiarostami realizza è “Il pane e il vicolo” del 1970. Il regista segue tra gli stretti vicoli un bambino. Mentre ritorna a casa, si diverte scalciando un tozzo di pane. Lungo il tragitto trova un cane affamato a sbarrargli la strada. Impaurito dall’incessante ringhiare, il bambino sprofonda nel terrore e attende un soccorso. Ma, grazie al pezzo di pane, riesce ad ammansire l’animale che, riconoscente per il cibo offertogli involontariamente, lo segue scodinzolando fino a casa. Sembra che tra i due sia nata un’amicizia. La distanza che separa le due figure diminuisce fino ad annullarsi. La cinepresa non restituisce solo gli sguardi del bambino anzi abbandona il suo corpo e, oramai libera, segue i due personaggi per i vicoli. Ma appena il bimbo varca l’uscio di casa, il cane resta solo come sempre. Gli occhi tristi dell’animale introducono una scelta di Kiarostami molto efficace. Il regista abbina lo sguardo del cane alle soggettive successive in cui si vede spuntare dal vicolo un altro bambino. Ha con sé del cibo quindi l’appetito dell’animale si risveglia. Un corto adornato di solitudini e un mesto loop colmo di speranza.

Due anni dopo, il regista realizza “La ricreazione”. Nel lungo corridoio di una scuola, il bianco delle pareti presenta un neo. Un bimbo è in punizione. È Dara, colpevole di aver rotto il vetro di una finestra giocando a pallone. Al suono della campanella scolastica, è il primo a fuggire. Per strada, ancora una volta, si mette nei guai calciando lontano la palla dei suoi amici. Rincorso da un coetaneo, fugge via ritrovandosi in aperta campagna. Giunto ai bordi di una strada trafficata, come se fosse la rana di Frogger, il bambino è costretto a superare l’ostacolo [Immagine 1].

Dara è ancora protagonista, insieme a Nader, in “Due soluzioni per un problema” (1975). Come fossero delle fiabe, i cortometraggi di Kiarostami nascondono sempre un insegnamento moralistico. Nel seguente lavoro si consiglia di risolvere i problemi con il dialogo e non con la violenza. Il regista mette in scena due modi differenti per affrontare lo stesso problema. Nader ha prestato un libro a Dara che lo restituisce malconcio. I capricci infantili e le numerose vendette si riassumono intelligentemente nell’immagine originale che prevede una lavagna divisa per nomi dei contendenti e che riporta i danni di ciascuno [Immagine 2]. Alla fine, la furia dei bambini non si scaglia solo sugli oggetti ma anche su di loro che addirittura riportano delle ferite. Un vano conflitto dal momento che il libro è ancora rotto. Kiarostami quindi suggerisce di risolvere il problema riparando il libro con della colla. Il rifiuto della violenza non pone fine all’amicizia tra i due bambini. La pacifica forza delle parole VS l’insensata mania umana di combattere.

 
 
Immagine 2
 
Senza ombra di dubbio, i cortometraggi di Kiarostami sono caratterizzati da una semplicità del discorso (in contrapposizione alle innumerevoli questioni toccate nei primi lungometraggi) ma anche dall’uso smodato di soggettive, il mezzo più efficace per sigillare lo sguardo dei protagonisti ed ingabbiare i loro sentimenti. Invece, è protagonista il suono nel lavoro del 1982 intitolato “Il coro”. Kiarostami propone la giornata di un sordo. Quando l’anziano signore indossa il suo apparecchio acustico anche il pubblico sente i suoni del film viceversa se non è indossato, lo spettatore non sente alcun suono. Una scelta stilistica interessante e riuscita.

Le ultime tre opere che andrò a citare sono accomunate da un certo minimalismo che è cifra stilistica di Kiarostami. I primi due sono brevi estratti contenuti in opere collettive. In “Lumière and Company” del ’95, riprende in pellicola la cottura di un uovo. Le regole imposte per la realizzazione del film erano le seguenti:
-Durata non superiore ai 52’’;
-Suono in presa diretta;
-Non devono essere realizzate più di tre sequenze.

Nella sua banalità disarmante, l’opera del regista iraniano acquista un fascino inimitabile e diventa senza ombra di dubbio un indiscutibile capolavoro [Immagine 3].

 
 
Immagine 3
 
Del 2013 è, invece, “Venezia 70: future reloaded”. La prerogativa di questi brevissimi film è la celebrazione del cinema. Kiarostami omaggia “L’arrosseur arrosé” (1896) dei fratelli Lumière. L’unica variante aggiunta al film originale è la presenza di un bambino alla cinepresa, una sorta di beffa agli inventori della Settima arte.

L’ultimo cortometraggio che citerò è “No” del 2011. È un film sull’invidia provata da una bambina che decide di radere a zero i bei capelli lunghi dell’amica. Questo lavoro di Kiarostami è fondamentale perché mostra le fasi che anticipano il momento delle riprese. L’assistente di regia tiene una conversazione con la giovane protagonista in cui le chiede se è disposta a sacrificare i propri capelli per il corto. La bambina non accetta e nel rifiuto l’opera acquista senso. Le espressioni titubanti ed incerte della ragazzina ma anche sincere e prive di alcun filtro smascherano la macchina cinematografica e restituiscono uno scorcio di realtà.


Articolo di Alessandro Arpa

domenica 5 marzo 2017

Taxi Teheran, Jafar Panahi (2015)

Articolo originariamente scritto per una platea non proprio di specialisti... Lo ripropongo nel blog, compensando la mancanza di approfondimento con tante foto. 





 


Fa piacere rivedere sui nostri schermi, in prima visione, i film di Jafar Panahi, regista tra i più grandi (ma sovente sottovalutati o trascurati) della nostra epoca. Poco male per noi - non certo per lui - se a rifare luce sulla sua figura siano state principalmente le vicissitudini giudiziarie, mentre ulteriori riflettori si sono accesi grazieall’Orso d’oro ottenuto allo scorso Festival di Berlino





Panahi è un cineasta condannato al silenzio dal regime iraniano degli ayatollah, che gli vieta di girare nuovi film. Un artista, tuttavia, può sempre aguzzare l’ingegno e trovare espedienti per aggirare gli ostacoli. Il Nostro è così riuscito, complice la tecnologia che consente di filmare con apparecchiature sempre più piccole, a produrre nuovo materiale e a recapitarlo clandestinamente nei festival internazionali.







Se ciò non è bastato a garantire una distribuzione italiana a due lungometraggi recenti,finalmente l’ultimo, splendido “Taxi Teheran” è invece visibile agli spettatori della Penisola, mentre la Cineteca di Milano dedica una retrospettiva al regista. Avrà influito anche il disgelo nelle relazioni diplomatiche con l’Iran? Poco importa… veniamo piuttosto al film.


 


Panahi è alla guida di un’utilitaria, nelle vesti di tassista (clandestino: poteva essere altrimenti?) e filma con una telecamera nascosta i passeggeri. Il gioco del regista è porre dei dubbi agli spettatori: i passeggeri recitano un copione, o sono ignari dell’esperimento? Il discorso pirandelliano sul cinema nel cinema è un classico della cinematografia persiana, così come l’espediente di osservare la realtà da un abitacolo; Panahi eredita tali stilemi dal suo mentore ed ex sceneggiatore Abbas Kiarostami. Ma aggiunge tanto di proprio pugno: l’ironia, innanzi tutto; e poi la vis polemica. Fattori che, amalgamati insieme, determinano uno stile decisamente personale. E il pubblico italiano come reagisce? Il successo arride a un film uscito in sordina, ma ora disponibile in sempre più sale.









martedì 28 febbraio 2017

Ok Mister, Parviz Kimiavi (1979)

IL PAESE DELLE ROSE E DEGLI USIGNOLI 
 
 
 

 
 
C’era una volta un paese di rose e di usignoli, una terra vergine che non conosceva corruzione. Tra le case in pietra e lo sterrato, la vita faceva il suo corso. In azioni abitudinarie (la donna che fila, l’uomo che ara i campi, le vecchine a preparare il pane) si spegneva l’ennesima giornata. Tutto simile a sempre eppure la felicità regnava nella monotonia. In questo luogo anonimo, privo di coordinate geografiche, è ambientata la commedia surreale/grottesca "Ok Mister" di Parviz Kimiavi del 1979. Un film alieno se si pensa alla vasta produzione cinematografica iraniana. Un meteorite di cui se ne sentiva il bisogno, in un anno cruciale per l’Iran. Ma il notevole lavoro di Kimiavi non ebbe vita facile e la sua visione fu limitata per anni dal comitato di censura nazionale poiché proponeva una rappresentazione poco elogiativa dell’Iran, dipinto come fosse un paese del terzo mondo, popolato da un gregge timido, condotto senza sforzi dal pastore/dominatore (un inglese: William Knox D’Arcy) per i campi di cicuta. Eccolo sbucare dalle crepe aride delle lande deserte iraniane, Sir William Knox D’arcy, il protagonista del racconto. Realmente esistito, D’Arcy fu un uomo d’affari britannico nonché il pioniere dell’industria petrolchimica iraniana. Interpretato da Farokh Ghafari (Farrogh Gaffary nei titoli di coda), celebre regista iraniano e critico di Positif, il magnate inglese si presenta direttamente al pubblico con un fare tra il faceto e l’assurdo. La sua missione è quella di scovare pozzi di petrolio sul territorio per arricchire il suo paese. Ma "Ok Mister", più in generale, è il racconto di una dominazione (quella della Gran Bretagna sull’Iran) e del processo di “civilizzazione” e occidentalizzazione dell’Iran.

Ma un piano tanto difficile non può essere condotto da un uomo solo ed ecco che, improvvisamente, nel cielo s’intravede una strana mongolfiera svolazzare. Agghindata con bianchi fiori che rimandano ad un’idea estinta di purezza, la mongolfiera ospita tre bizzarri personaggi dall’integrità dubbia, dominati anzi da una certa faciloneria ed una spiccata furbizia. Eccoli: Stanley, un giornalista eccentrico a cui spetterà un ruolo marginale nel racconto (metaforicamente la scarsa influenza della carta stampata nei paesi considerati “liberi”); Sir Henry, un goffo e tozzo archeologo a cui non interessano le sorti dell’arte o la possibilità di tramandare ai posteri i tesori di una cultura secolare. Egli ruba i reperti nel corso del film, li intasca sorridente, felice di possedere pezzi di storia, appagato nel tentativo oscurantista di cancellare il passato. In lui si specchia la natura razziatrice del colonizzatore. Infine, vi è Cinderella, una donna dalla bellezza discutibile con occhiali antiestetici e una sgradevole voce squillante. Improvvisamente, la sua immagine sgraziata è sostituita da quella di un’avvenente bionda vestita d’azzurro, la proiezione di una Cenerentola moderna. E della splendida panoramica che ci immerge tra le rovine di Persepoli ad inizio film ne resta solo il ricordo. La bellezza della memoria insozzata dall’avidità dello straniero. Bisogna notare, in aggiunta, come i personaggi inglesi godano di una rappresentazione più vivida e profonda. Hanno un’identità e lo spettatore può amarne o odiarne i loro vizi mentre gli iraniani appaiono nel loro insieme come massa inebetita dall’eloquenza occidentale.


LA BARBARA PRETESA DI CIVILIZZARE 
 
 
 

 
Kimiavi presenta gli occidentali come un esercito affetto dalla sindrome del dominatore, vinto da pruriti imperialistici tinti di sadismo e schiavismo. Il processo di colonizzazione dell’Iran barbaro è graduale e occupa gran parte del film. Per placare ogni slancio rivoluzionario e stordire le menti dell’intera popolazione, D’Arcy gioca l’arma Cinderella. La bellezza della donna ammalia il popolo grazie ad occhiolini scintillanti e alle sue movenze provocanti. Tra la folla, poi, vengono individuati quattro uomini che, attraverso un rito d’inclusione, saranno “adottati” dalla comunità inglese per svolgere mansioni di controllo. Il rito prevede più fasi: quella della vestizione e quella del sacramento eucaristico. Gli uomini si liberano dei loro abiti ed indossano t-shirt colorate, poi, in una riproposizione della sacra eucarestia, ricevono l’ostia e bevono Coca Cola, simbolo indiscusso del capitalismo. D’Arcy tenta anche di uniformare il linguaggio istituendo l’inglese come lingua ufficiale e cancellando ogni traccia del farsi. Si tengono lezioni pubbliche in cui la nuova lingua è insegnata con metodi controversi e servendosi di frasi intimidatorie e alquanto razziste come – your country is not rich-. La comicità nel film è resa il più delle volte dalle battute dei personaggi inglesi o dalle azioni degli iraniani. Lo scarto ha un valore simbolico non indifferente. La libertà di parola permette all’inglese di occupare una posizione elitaria e di potere mentre gli iraniani sembrano quasi profughi nel loro stesso paese e, zittiti dallo stivale anglofono, si rendono comici con azioni tipiche della slapstick comedy.

Durante una partita a golf, Sir D’Arcy colpisce il terreno. Come fosse una trivella, la mazza da golf crea una voragine da cui zampilla del petrolio. La scoperta è grandiosa e colto da un’irrefrenabile sete di potere, il magnate inglese ne beve qualche goccia. Cominciano i lavori di estrazione. La sua lavorazione comporta un aumento delle entrate nel Paese e la conseguente ricchezza devasta l’identità del popolo e rende gli iraniani degli stranieri nella loro terra. Le case diroccate e senza inutili abbellimenti, si riempiono di elettrodomestici, oggetti d’arredamento kitsch e cianfrusaglie occidentali. La magia che avvolgeva la figura delle vecchine impegnate a filare è dissipata ed è sostituita dall’immagine delle stesse che indossano occhiali da sole eccentrici o cappelli dalle più svariate forme e colori. Il regno delle rose e degli usignoli si trasforma nel regno dell’eccedenza.

 
 
Ogni opera imperialistica però ha un suo termine. Che sia riuscita o meno la fase colonizzatrice, vi è sempre un momento in cui il popolo si risveglia da quel limbo in cui è costretto a vagare e decide di cacciare chi detiene il potere. Durante il sortilegio di Cinderella, l’unico a non esserne vittima è un anziano signore considerato pazzo dai suoi compaesani. Etichettato come un folle da emarginare, l’uomo crea una setta volta a sovvertire il potere. Comincia la rivolta per la riappropriazione del proprio Paese. Attraverso azioni clandestine, l’anziano veste i panni del maestro e fa di tutto affinché si ritorni a parlare farsi. Ma l’evento che sigla la fine della dominazione inglese è l’apparizione del Bel Principe (così come è chiamato nei titoli iniziali del film). Il Bel Principe è un misterioso ragazzo iraniano che, col suo canto, riesce ad incantare Cinderella. L’incontro tra i due sfocia in una scena d’amore e nella fuga dell’uomo. Fuggendo, egli perde una scarpa. Kimiavi stravolge la favola di Cenerentola rendendo protagonista un uomo. D’Arcy decide allora di accontentare la sua Cinderella e cerca in tutti i modi di ritrovare il Bel Principe, dapprima, permettendo alla gente di provare la scarpa e, successivamente, attraverso il riconoscimento fisico inscenando un rapporto carnale con la donna. Il riconoscimento passa quindi per il sesso e Kimiavi accentua i perversi desideri degli iraniani indugiando sulle loro gestualità rozze e primitive. Non essendoci traccia del Bel Principe, a Cinderella non resta che cantare. A chiudere definitivamente Ok Mister però è la rivolta intestina che riporta la serenità nel Paese. D’Arcy rischia il linciaggio e quindi decide di suicidarsi in una maniera assolutamente surreale lasciandosi trafiggere da un getto di petrolio (tutto ciò per cui ci si è battuti, con mezzi illeciti, si ritorce contro). Cinderella ritrova il suo Bel Principe ma il finale ha l’amaro in bocca. "Ok Mister" si spegne tristemente con l’immagine del fuoco che cresce ed inghiotte lo schermo ricordando "A Fire" di Ebrahim Golestan.
 
Articolo di Alessandro Arpa

giovedì 23 febbraio 2017

About Elly, Asghar Farhadi (2009)



Rivedendo il film che ha svelato Asghar Farhadi al pubblico internazionale, grazie ai premi ottenuti nei festival di ben quattro continenti, si possono trovare in nuce i temi che in seguito il cineasta non abbandonerà, su cui anzi insisterà in modo quasi accanito, palesando la necessità di aggiungere tasselli, complicare le vicende e portarle al parossismo. “About Elly” rimane più accennato, sospeso, anche per quella sua aura di ‘giallo’ che darà il via al fuorviante luogo comune di Farhadi sceneggiatore e regista di thriller mascherati.
Se infatti in “Una separazione” e ne “Il passato” lo spettatore è a conoscenza di una verità che deve rimettere costantemente in discussione, in “About Elly” insegue la risposta a un quesito: che fine ha fatto la protagonista? Cercandola, si confronta con le contraddizioni degli altri personaggi, più preoccupati di salvare apparenze e decoro che delle sorti di Elly (Taraneh Alidoosti).



Il quarto lungometraggio del regista è stato accolto ovunque molto favorevolmente, ma ha portato la croce della somiglianza con un grande film del passato, “L’avventura” di Michelangelo Antonioni. In effetti, le affinità non mancano. La trama [qui nel dettaglio] della pellicola di Farhadi si può sintetizzare nel modo cui accennavamo: una donna sparisce, probabilmente in mare, ma in modo misterioso; l’avvenimento conduce a una serie di reazioni da parte dei suoi compagni di escursione. Questa sintesi si adatta perfettamente anche al capolavoro di Antonioni; Elly sembra sovrapponibile ad Anna, entrambe stanno vivendo una crisi di coppia, tuttavia con dinamiche tali per cui ricoprono ruoli opposti.
Come profondamente diversi sono altri elementi. L'indole dei personaggi: intraprendenti gli iraniani, come a voler dimostrare la volontà di progresso, la ricercata maturità di un intero popolo, o quanto meno della sua avanguardia; indolenti e annoiati gli italiani. La risoluzione (o meno) dell’enigma. L'andamento della tensione drammatica: Antonioni la disinnesca, Farhadi la fa montare.

Inolte, se l'italiano attribuisce grande importanza ai luoghi che i personaggi attraversano e da cui vengono influenzati, il persiano confina i suoi anti-eroi in un ambiente isolato, distante dalla capitale da cui provengono. Sulle rive del Caspio, in un alloggio di ripiego e non di loro proprietà, i personaggi giocano quindi in campo neutro, ma la distanza dal cuore della società diventa l’occasione per rivelare tantissimo sulla società medesima e sulla mentalità tradizionalista dei suoi abitanti, i cui lati deteriori (maschilismo, falsità, egoismo), normalmente sopiti, si ridestano fino a esplodere al cospetto di una situazione incontrollata, ancor prima che tragica.
Non è propriamente esistenziale il dramma che emerge, è il lascito di una società ipocrita, immobile malgrado gli sforzi per progredire (la metafora finale, fin troppo esplicita, dell’auto impantanata).



Come altre volte - sempre d’ora in avanti - l’autore sceglie il punto di vista di un ceto medio istruito (quanti insegnanti nei suoi film!). Racconta, con coraggio e originalità rispetto al contesto, di separazioni o divorzi, ancor più atipici perché decisi dalle donne (qui i casi sono due). Riporta gli echi della vita vissuta dagli espatriati in un Occidente impervio e non mitizzato (la Germania è il luogo della separazione del personaggio interpretato da Shahab Hosseini). Fa dei bambini i testimoni/vittime della violenza non esclusivamente verbale dei grandi, che corrompono la loro innocenza inculcandovi la liceità della menzogna.

Tematiche che si faranno più marcate nei film successivi, compreso il recente e fortunato "Il cliente", ma che, anticipate in parte nei precedenti, sono racchiuse in toto nell’ottimo “About Elly”. Forse non con lo stesso livello di approfondimento, ma con una straordinaria coralità, resa possibile da una regia fluidissima nei movimenti di macchina, mai ostentati.




Cast di prim’ordine, con Golshifteh Farahani all’ultimo film in Iran. 



domenica 19 febbraio 2017

The Day I Became a Woman, Marziyeh Meshkini (2000)

UN PO’ DI FELLINI IN IRAN 


Considerato dalla critica mondiale come un film felliniano, pluripremiato in numerosi festival internazionali, "The Day I Became a Woman" di Marzieh Meshkini è una tappa imprescindibile per il cinema femminista iraniano. Il primo lungometraggio della regista persiana, moglie di Mohsen Makhmalbaf, incarna al meglio, attraverso le storie di tre donne di età differenti, la lotta contro i costumi ed il patriarcato. L’apporto di Mohsen Makhmalbaf è notevole, infatti oltre ad aver scritto la sceneggiatura, una sorta di pamphlet sull’emancipazione della donna, regala alla moglie alcune immagini tipiche del suo cinema come, ad esempio, quella dello specchio. La struttura dello script è particolare poiché seppure le tre storie siano autonome, convergono nel finale, accarezzandosi con delicatezza senza che una possa prevaricare l’altra.

La protagonista del primo racconto è Hava. Tra meno di un’ora, la piccola compirà nove anni e, quindi, a detta della madre e della nonna, diventerà una donna. Questa “maturazione” implicherebbe una certa discrezione nel parlare con gli uomini e la obbligherebbe ad indossare lo chador. Ma il velo, per la giovane è un impedimento superfluo e, infatti, lo scambia, senza pensarci su, per un colorato pesciolino di plastica. L’insensatezza del velo ad un’età tanto acerba è incastonata nell’immagine dello chador che fa da vela ad una zattera improvvisata [Immagine 1]. Il carattere smaliziato, e aggiungerei spensierato, della piccola si manifesta in due modalità diverse. Per tutto il film, tralasciando la sequenza iniziale, Hava comunica con personaggi maschili. In aggiunta, è proprio lei che va a casa del suo amico Hassan che, come fosse un galeotto, è tra le sbarre domestiche a fare i compiti. La prigione reale di Hassan si contrappone alla gabbia invisibile in cui è racchiuso il destino di Hava che, con il compimento degli anni, dovrà cedere frammenti della sua libertà. Infine, lo scambio zuccheroso reiterato di un lecca lecca tra i due bambini sigla la differenza che intercorre tra l’adulto e l’infante.



Di sofferenze e determinazioni si tinge la seconda storia. Ahoo sta gareggiando in una gara ciclistica. Ma la fatica non preoccupa poiché il vero nemico è il marito che, a cavallo, invita la moglie a scendere dalla bici considerata la groppa del demonio. Il marito la ricatta ed è pronto a divorziare ma lei, irremovibile, pedala. Meshkini mette in scena la parabola dell’uomo eternamente primitivo, fermo nelle sue sciocche convinzioni. La bicicletta diventa il simbolo di un’estenuante lotta al patriarcato. A chiudere il film è la vicenda dell’anziana Hoora. Data l’età, Hoora ha deciso di esaudire i suoi desideri e di acquistare ciò che non ha potuto avere in tutti questi anni. Ad ogni desiderio realizzato, l’anziana toglie dalle sue dita delle strisce di carta che fanno da promemoria. Non avendo una casa, tutto si riversa sulla spiaggia, spazio eterotopico per eccellenza. Un frigorifero, un’aspirapolvere, un set di pentole, queste sono solo alcune cose che l’anziana signora ha comprato. Eppure al mignolo vi è ancora una piccola striscia di carta, un desiderio dimenticato ancora da esaudire. Intanto da lontano giunge voce che Ahoo, dopo essere stata importunata dal marito, avesse terminato la gara prendendo in prestito una bicicletta. Sulla spiaggia s’intravede Hava, indossa lo chador e si dirige verso casa… e non resta che chiedersi se mai quel cordoncino al dito dell’anziana potesse essere il simbolo del cambiamento, la possibilità di raggiungere un’insperata felicità/libertà.

Le redini del discorso femminista cominciato da Meshkini saranno poi prese dalla figliastra Samira che nel 2003 gira "Alle cinque della sera". Lo chador e la bicicletta, vessilli della guerra femminista, sono sostituiti, nel film di Samira Makhmalbaf, dalle scarpe bianche con il tacco ed il sogno della protagonista di diventare il primo presidente donna dell’Afghanistan. Perché le grandi rivoluzioni cominciano spesso dalle piccole cose.

Articolo di Alessandro Arpa

martedì 14 febbraio 2017

Cortometraggi, Keywan Karimi

Il nome di Keywan Karimi è tristemente noto per l’assurda condanna subita nel 2013 a causa della sua attività artistica (in particolare del documentario "Writing on the City", sui murales di Teheran), e le successive drammatiche vicissitudini. Un po’ timidamente, e in ritardo, si sta sollevando una mobilitazione internazionale a suo favore, con sempre maggiori adesioni.

Segnaliamo (e invitiamo a seguire) ad esempio le seguenti pagine Facebook:






Sul nostro blog proviamo a restituirne la figura di cineasta, attraverso una disamina dei cortometraggi che Karimi stesso ha reso disponibili sul suo canale Vimeo. Nell'attesa che anche i lungometraggi godano di una maggiore diffusione.



The Adventure of the Married Couple (realizzato nel 2013, durata 11'). Opera ispirata al racconto "L'avventura di due sposi" di Italo Calvino, letto però in chiave pessimista. Lei è operaia diurna e si occupa della tappatura di bottiglie di vetro, lui è il guardiano notturno di una fabbrica di manichini. In bianco e nero e senza dialoghi, un apologo sull'incomunicabilità di una coppia, la cui crisi si evidenzia attraverso la donna: il suo sguardo sempre malinconico (molto bello il primo piano intravvisto dietro allo scorrere della linea di montaggio), il distrarsi dal lavoro quando il superiore invita una collega in ufficio. Iconico il prefinale coi manichini. Straordinarie le riprese conclusive della fabbrica.






Act, Harekat (realizzato nel 2011, durata 10'). Documentario in bianco e nero sulla sclerosi multipla, girato all'interno di un ospedale. I pazienti spiegano la malattia sia in termini oggettivi che di esperienza personale: come nasce e si sviluppa, cosa provoca, cosa significa esserne affetto per la società circostante e in famiglia. Suggestivo il breve incipit con suoni e immagini manipolati, di per sé eloquenti le immagini dei corpi, su cui l'autore giustamente non indugia. Inevitabile ripensare alla pietra miliare "The House Is Black".





Broken Border (realizzato nel 2012, durata 18') Karimi approda nel Kurdistan iraniano al confine con l'Iraq e filma, senza giudicare, la quotidianità delle comunità locali dedite al contrabbando di petrolio. Abbandonato il bianco e nero per il colore (comunque dominato dal bianco dei paesaggi innevati), contrappuntando le immagini con didascalie di poesie ed espressioni di saggezza popolare, l'autore si concentra sugli strumenti e le attività dei trafficanti (es. la ferratura dei muli), ostacolate - di fatto- solamente dall'ambiente impervio. Ritaglia inoltre una significativa sequenza sull'educazione dei bambini, che si concentra sulla materia che più influenza le loro vite: la geografia. L'attenzione al sociale e il talento fotografico sono i consueti ma, nei luoghi già immortalati magistralmente da Bahman Ghobadi, Karimi non firma la sua opera più personale.





The Children of Depth (realizzato nel 2011, durata 26') Documentario sulla giustizia minorile in Iran. Le interviste a detenuti (spesso rei di furto d'automobile), parenti, avvocati, giudici sono filmate frontalmente, a colori su sfondo nero, in penombra, senza musiche. Le contrappuntano immagini musicate e in bianco e nero: carrellate su fotografie o brevi sequenze, che catturano scampoli di vita dei bambini. Sparse, classiche interviste a esperti del settore (ma non parti in causa nei processi): sociologi, antropologi, giuristi. Per un lavoro dal minutaggio consistente, il regista adotta uno stile tendenzialmente più essenziale, che giova all'intento divulgativo. Ma non risparmia un crudo affondo finale: istantanee su impiccagioni e punizioni corporali (cui per ironia della sorte sarà egli stesso condannato), una fotografia che vira sul bianco e nero più cupo, ma al contempo il disvelamento dei volti sorridenti dei giovani, prima oscurati. Ne esce un'opera di grande qualità.






giovedì 9 febbraio 2017

Sesso e filosofia, Mohsen Makhmalbaf (2005)


MOHSEN MAKHMALBAF CADE SULL’AMORE 



Di certo, "Sesso e filosofia" del 2005 non è il miglior film di Mohsen Makhmalbaf. Si presenta come un film sull’amore e si conclude come fosse una ballata sulla solitudine, quella di John, insegnante di danza e poeta infibulato in banali filosofismi, ma anche la nostra. Il protagonista, interpretato dal cantautore e attore tagiko Daler Nazarov, ha deciso di dare una svolta alla sua vita proprio nel giorno in cui compie cinquanta anni. Vaga con la sua auto per la città, con due musicisti di strada a risvegliare i ricordi del passato e cinquanta candele accese a scaldarli. Vorrebbe incontrare le donne che ha amato e che sono riuscite a dare un senso alla sua vita rendendola felice. Fissa quindi un appuntamento per le due nella sala da ballo in cui insegna. A presentarsi sono quattro donne che, metaforicamente, rappresentano quattro tipologie differenti d’amore.

Intervallato da sfibranti momenti di danza, il primo racconto è dedicato ad una hostess di volo (Mariam). Il discorso si muove su due concezioni contrastanti. John crede nella massima –faccio l’amore dunque esisto- mentre la donna accetta passivamente il suo stato remissivo: - sono oggetto d’amore dunque esisto-. Paradossalmente, l’entità femminile ne esce vincitrice nel meccanismo schiavizzante che la vede succube e nel contempo regina venerata. Il pensiero di essere amata le basta e non è vinta da necessità carnali. L’uomo, invece, trafigge con frecce imbevute di lussuria il pensiero cartesiano e svela la sua natura ferina. A Farzana, artista bizzarra, è dedicato il secondo ricordo/racconto incentrato sulla fase dell’innamoramento. La giovane ragazza ammette di non essere capace di amare. Ciò che prova quando il sentimento è contraccambiato è una caduta in un vortice ordinario di noie. L’abitudine porta con sé gli strascichi della fine. -Ogni amore è la conseguenza di eventi fortuiti-, questo è il pensiero che avvolge la terza storia. Secondo Makhmalbaf, la casualità dell’affezione rende più sincera l’intensità del rapporto. Ricercare l’amore sarebbe come rincorrere una delicata sagoma che ci mostra la nuca. Scoprirne il volto scatenerebbe sensazioni contrastanti e compromettenti e siglerebbe un declassamento della spontaneità nel sentimento. 


La parte più interessante dell’intero film è sicuramente quella finale. Malohat proprio come John ha portato avanti quattro storie d’amore contemporaneamente. Il tradimento s’insinua nei rapporti umani ed è il ponte che lega gli uomini alle donne. L’amore subisce l’ennesima sconfitta e si macchia dei peccati terreni.

Alle immagini ricorrenti dello specchio e del vaso irrorato d’acqua, il cinema di Mohsen Makhmalbaf aggiunge quella del cronometro che, come strumento del tempo, ha la funzione di acciuffare i secondi, i minuti e le ore di felicità del protagonista.

Sesso e filosofia ha un’ottima fotografia ma è un film di momenti, alcuni ben rappresentati, altri meno.


Articolo di Alessandro Arpa