giovedì 31 maggio 2018

Killing Mad Dogs, Bahram Beizai (2001)

A dieci anni dai problemi censori che avevano coinvolto il precedente, straordinario "The Travellers", il factotum Bahram Beizai ottiene i permessi governativi e i finanziatori privati per riesumare una sua vecchia sceneggiatura e produrre, montare, dirigere un nuovo lungometraggio: "Killing Mad Dogs" (Sagkoshi).



Teheran, passato prossimo. La scrittrice Golrokh Kamali torna in città dopo tanto tempo per provare a saldare i debiti del marito, apparentemente causati da un socio dedito al riciclaggio internazionale. In un'odissea tra pericolosi malavitosi (più o meno occulti) riuscirà nella missione, scoprendo però una dolorosa realtà diversa dalle apparenze. Materiale buono per concludere il suo ultimo romanzo, "Uccidere cani rabbiosi".

Metafore autobiografiche (anche nei tempi di ambientazione del racconto) sull'artista costretto ad affilare gli artigli per rivendicare il proprio orgoglio e vendicare i torti subiti; ma declinate al femminile. Assumendo sempre più il ruolo di protagonista unica della vicenda, Golrokh Kamali emerge, sgomitando, con l'astuzia e con le maniere forti, in un mondo in cui le questioni finanziarie sono, ben più che le altre, esclusivo appannaggio maschile. Un mondo morso dalla piaga del debito e dal denaro che tutto corrompe.


Rispetto ad altre opere del regista, il piano realistico domina per lunghi tratti, in un film dalla durata anomala nel contesto della produzione nazionale (oltre 135 minuti). Suggestioni differenti emergono soprattutto nel finale. Il risultato è riuscito, ma meno sorprendente del solito. La cornice di genere, che ricorda i film in voga nel paese negli anni settanta, facilita la fruizione e l'accoglienza, conducendo a quattro premi al Fajr di Teheran.

Prolisso e a volte un po' frenetico, "Killing Mad Dogs" ha momenti fortemente scenografici, come la sequenza nel cantiere edile, ma vanta soprattutto un cast da applausi capitanato dalla protagonista Mozhdeh Shamsai, che tratteggia un personaggio in crescendo per consapevolezza e forza.

Per una spiegazione del sistema creditizio iraniano, si veda la recensione di Michela Manetti.


mercoledì 23 maggio 2018

Travellers, Bahram Beizai (1991)

Bahram Beizai è l'autore di uno dei film-simbolo del cinema iraniano: "Bashù il piccolo straniero", per altro unico suo lavoro conosciuto in Italia. Questo, essendo non perfettamente allineato con le esigenze di propaganda bellica, viene bloccato per tre anni, fino alla fine del conflitto con l'Iraq (esce nel 1989). Si tratta di uno stop forzato anche per la carriera del regista, che negli anni 90 riparte quasi da zero, a due decadi dal debutto. Quattro sono gli anni di lavoro necessari per la realizzazione di un film ambiziosissimo e davvero suggestivo, inedito e pressoché invisibile da noi, come "Travellers" (Mosaferan), summa del realismo mitico già palesato in altre, meno note pellicole.




Una famiglia si dirige in automobile verso Teheran per una cerimonia nuziale. I membri dell'equipaggio si presentano uno a uno allo spettatore, ma una di loro rivela che tutti moriranno prima di arrivare a destinazione. La casa che li attende è addobbata a festa, ma lentamente la notizia della tragedia si insinua e porta il lutto. Solo l'anziana matriarca confida in uno specchio (che per la tradizione protegge i viaggiatori) mai trovato all'interno della vettura incidentata.

L'autore sfoggia un repertorio tecnico e un bagaglio culturale sterminati, tra echi felliniani nei movimenti circolari della macchina da presa, primi piani obliqui da realismo socialista sovietico, movenze e messa in scena da teatro persiano classico (il tazieh, che prevede ad esempio che lo spettatore conosca la storia prima che la performance cominci), fino ai chiari omaggi all'amato cinema giapponese: impossibile non pensare a "La cerimonia" di Nagisa Oshima; la sequenza della sposa che si presenta in banco, tra gli ospiti listati in nero, è altrettanto straniante. Il finale mistico, poi, lascia a bocca aperta.

La critica all'istituzione del matrimonio, coi suoi rituali ottusi, non passa inosservata. Inoltre la prassi censoria del periodo impone che le felicitazioni debbano essere rivolte solo ai parenti dei martiri di guerra, non a semplici sposi. Morale: Beizai dovrà abbandonare la regia per dieci anni. Si dedicherà alle sceneggiature e al montaggio, ma soprattutto al palcoscenico.





mercoledì 16 maggio 2018

Panahi assente ma bene accolto a Cannes

Il direttore di Cannes Thierry Frémaux aveva lanciato un invito: Le autorità iraniane riceveranno una lettera da parte nostra e da parte delle autorità francesi per autorizzare Jafar Panahi a lasciare il territorio, presentare il suo lavoro e poter rientrare nel suo Paese”. La risposta del ministro della cultura iraniano Abbas Salehi era sembrata possibilista: 'Il lavoro di Panahi può essere visto in diversi festival, in vari paesi, il che gli permette di vincere numerosi premi, ma una decisione finale non è stata ancora presa. C'è ancora tempo per vedere cosa accadrà.'



Al momento non è accaduto nulla, la presentazione di "3 Faces" (Se rokh) è avvenuta con Panahi contumace. Chissà che non cambi qualcosa in caso di premio...

Già, perché il film è piaciuto assai. E pure alla stampa italiana. Sul Corriere della Sera, Paolo Mereghetti affibbia tre stelle su quattro, perché 'Panahi esalta il fascino del cinema', 'con la sua abituale sapienza', ' lasciando lo spettatore senza risposte ma con tante domande su cui riflettere'.

Emiliano Morreale su Repubblica riassume così la trama

Un video sul telefonino mostra una ragazzina che, disperata perché la famiglia l'ha data in sposa impedendole la carriera di attrice, e lamentando di non aver ricevuto risposta ai suoi appelli all'attrice Behnaz Jafari, si uccide. Ma il filmato non è chiaro, e Jafari (che interpreta se stessa nel film) lascia il set per scoprire se si tratta di un video autentico o di uno scherzo. Accanto a lei, al volante, Panahi stesso, che fa da spalla e da interprete ai vari incontri, in un paesino al confine con la Turchia.

E commenta: 'È un apologo in linea con la lezione del maestro Kiarostami e del suo interrogarsi sul senso e i limiti della rappresentazione', 'In maniera lineare e con toni da disincantata commedia, Panahi intavola una parabola che è una metafora della reclusione (anche della propria) e anche, a pensarci bene, una satira del maschilismo'

Aggiungiamo che Behnaz Jafari si è vista anche in un film uscito in Italia: "Lavagne" di Samira Makhmalbaf



Fulvia Caprara de La Stampa fa lodi sperticate: 'Diciamo subito che è un film meraviglioso', mentre Alberto Crespi, per tanti anni a L'Unità, su Facebook sentenzia: 'Molti cineasti con grandi mezzi a disposizione e totale libertà d’azione dovrebbero studiarsi a fondo il cinema di Jafar Panahi, iraniano da anni perseguitato in patria. Panahi fa film con due lire e pochissime persone, ma con una quantità (e qualità) di idee che ad altri basterebbero per un’intera filmografia. Oggi a Cannes “Se rokh”, il suo ennesimo gioiello.' Per Steno Solinas de Il Giornale "3 Faces" è  'asciutto, poetico, coinvolgente'. Solo per Andrea Chimento de Il Sole 24 Ore 'è ricco di spunti importanti, ma vittima di troppe ridondanze narrative e di molti momenti davvero prolissi'.

Il film ha un distributore italiano! "Cinema" di Valerio De Paolis dovrebbe portarlo nelle sale già quest'anno.




mercoledì 9 maggio 2018

Farhadi non scalda Cannes (e rischia di non uscire in sala)

Accoglienza tiepida per "Todos lo saben", il film di apertura di Cannes 71, girato in Spagna da Asghar Farhadi e interpretato da Penelope Cruz, Javier Bardem e Ricardo Darin.



Il regista ha così spiegato la genesi del film:

Quindici anni fa in Spagna vidi foto di un bambino affisse sui muri, era scomparso, la famiglia lo stava cercando: lì è nata la prima idea del film. Era da tempo che volevo girare in un piccolo paese e in mezzo alla natura, lontano dal frastuono della città. Ho scritto la storia in persiano, pensando a Penélope e a Javier, poi è stata tradotta. Volevo rispecchiare uno spaccato di vita della Spagna, vita contadina intendo.

Operazione riuscita? Secondo le prime recensioni della stampa italiana, non benissimo. Paolo Mereghetti sul Corriere della Sera assegna due stellette su quattro, meno che a qualsiasi altro Farhadi schedato sul celebre Dizionario. Per il critico milanese 'L'inizio sembra una citazione da "La donna che visse due volte, poi prosegue come fosse in un film di Altman, per diventare alla fine una specie di giallo [...con] colpi di scena fin troppo melodrammatici che finiscono per appesantire il racconto. Per Maurizio Cabona del Messaggero 'stavolta il suo stile scabro concede spazio a qualche immagine da spot pubblicitario di alimentari di alta gamma [...]'

Molto più positiva la valutazione de L'Avvenire. Per Alessandra De Luca - il cui articolo riporta diverse interessanti dichiarazione del'autore - 'soprattutto nella seconda parte del film, Farhadi fa esplodere i suoi arabeschi da sceneggiatore mettendo a confronto coscienza e menzogna'.

Arianna Finos su Repubblica non fa una recensione, ma parla del film come dell'apertura ideale della Croisette, grazie alla presenza di attori glamour in un contesto non hollywoodiano. Il suo articolo lancia però un campanello d'allarme per gli amanti della sala cinematografica: 'in gran parte del mondo, se Netflix riuscirà come sembra ad acquisirlo, "Everybody Knows" si vedrà in tv o su tablet'.

In una giornata non trionfale, le parole più liete per il regista arrivano dalla Cruz: 'Ricevere la telefonata di Farhadi è stata una delle sorprese più belle che abbia ricevuto in tutta la mia carriera. Lo ammiro moltissimo, è un uomo buono, brillante, con una sensibilità fuori dal comune'.


mercoledì 2 maggio 2018

Captain Khorshid, Naser Taghvai (1987)



Naser Taghvai è uno dei maggiori esponenti della prima Nouvelle vague iraniana, che si sviluppa negli anni 60 e 70. In questi anni dirige l'importante "Tranquillity in the Presence of Others" (1973), tratto da Gholamhossein Saedi come il quasi contemporaneo "The Cow" di Dariush Mehrjui. Parallelamente lavora per la televisione dove realizza, tra le altre cose, documentari sulla popolazione multietnica che abita le sponde del Golfo Persico e sulla poetessa (e documentarista) Forough Farrokhzad.

Superata la censura dello scià, che colpisce il film sopra citato, Taghvai sopravvive artisticamente anche alla rivoluzione del 1979. Poco prolifico, con "Captain Khorshid" (Nakhoda Khorshid) firma comunque una pellicola classificata dalla rivista "Film" tra le migliori della storia del cinema iraniano.

Dell'esperienza  giovanile, ritroviamo sia l'interesse per la letteratura (e il cinema persiano non è certo noto nel mondo per gli adattamenti), sia l'ambientazione. "Captain Khorshid" è tratto da "Avere e non avere" di Ernest Hemingway, già portato sullo schermo da Howard Hawks per l'interpretazione di Humphrey Bogart e Lauren Bacall; "Acque del sud" il titolo italiano. Taghvai sposta la vicenda da Cuba al Golfo Persico e ne fa un film prettamente maschile. Il motivo è che, date le nuove regole censorie sul velo obbligatorio per le donne, come dice il regista "è diventato impossibile girare film sull'era Pahlavi", dove è collocata questa storia.


Khorshid è lo skipper di una piccola imbarcazione, senza un braccio ma con tanta energia, dedito al contrabbando di sigarette. Quando un carico viene sequestrato dalle autorità e dato alle fiamme, i problemi economici lo spingono ad accettare la proposta, di un nuovo arrivato, di aiutare i criminali a espatriare. L'affare si complica in maniera tragica.

La messa in scena è classica, ma esemplare per come organizza i  movimenti di più attori nella stessa inquadratura. Le trovate visive non mancano: personalità che sbarcano portate in spalla dai locali, un uomo che indossa un sacchetto in testa, e via dicendo, Gli ultimi venti minuti, sul mare, denotano una tensione e una tenuta drammatica rimarchevoli, con venature western. Ma proprio per questo il film è stato poco esportabile. E se lo spettatore estero ha reclamato e continua a reclamare maggiore originalità, non è necessariamente il capriccio di chi insegue l'esotico.

domenica 29 aprile 2018

Qualcuno da amare, Abbas Kiarostami (2012)




Alla prima trasferta giapponese, Kiarostami si cala nella cultura locale in punta di piedi, senza operare sostanziali variazioni stilistiche rispetto al cinema che gli è più congeniale e affidandosi al punto di vista di uno dei tre personaggi principali: il professor Watanabe, interpretato da Tadashi Okuno, non professionista che ha fatto per cinquant'anni la comparsa senza pronunciare un parola, e che si ritrova a ricoprire un ruolo di primo piano a quanto pare a sua insaputa.
Dietro il volto di un anziano professore in pensione che si è occupato di sociologia e che ancora lavora come traduttore e conferenziere non è difficile intravedere la prospettiva di un affermato cineasta alle prese con l'autunno della propria carriera e con un soggetto - invero esile, debolissimo - che non padroneggia a dovere a causa della distanza culturale e generazionale che lo separa dalla location (poco conta un precedente mediometraggio dedicato a Ozu) e dagli altri due personaggi principali, una studentessa che si prostituisce e il suo irascibile fidanzato - un giovane meccanico - il più complesso e meno decifrabile del trio.

Tutto si svolge in meno di ventiquattro ore, la pellicola divisa in due parti di pressoché ugual durata. La prima notturna, la seconda alla luce del sole, con ambientazione costantemente in interni, siano essi quelli di un appartamento, siano quelli di un abitacolo tipicamente kiarostamiano. Anche i controcampi delle sequenze in automobile sono soggettive dall'interno della vettura. Ed è qui che il regista, affidandosi per non rischiare al proprio inconfondibile mestiere, si dimostra maggiormente a suo agio e crea momenti di indubbia suggestione (grazie anche ai giochi di luce di Katsumi Yanagijima, sulla falsariga di quanto fatto da Luca Bigazzi in "Copia Conforme"). È davvero un piacere ritrovare quei sottilissimi giochi di sguardo che rimandano al Kiarostami migliore, momenti perduti nelle opere recenti (inedite da noi) del cineasta, ultimamente alla ricerca di un linguaggio maggiormente sperimentale ed esasperato (si pensi all'uso sistematico del fuori campo, che qui è invece solo uno stilema all'interno di una gamma più articolata). Ma anche in "Copia conforme", vicenda di una coppia adulta priva del punto di vista del "terzo incomodo" che qui ritroviamo, e lavoro ben più intellettualistico di quest'ultimo, mancavano quelle reiterate interpellazioni dell'adulto rivolte al bambino o all'adolescente (e allo spettatore) che hanno fatto grande il cinema del Kiarostami più celebrato.


Ma al di là del senso di "déjà vu in altro luogo", che queste sequenze pur buone restituiscono, le note dolenti riguardano praticamente tutto il resto. Dicevamo di un soggetto inconsistente, sceneggiato in maniera altrettanto risibile, tra sospetti anacronismi (possibile che in Giappone si usino ancora così tanto le segreterie telefoniche?) e fiacche trovate tappabuchi (ad esempio la barzelletta sui millepiedi). Da chi ha realizzato copioni di estrema efficacia per sé e per i propri allievi non possiamo accettare una storiella improbabile e poco sviluppata, e un finale tranciante, di maniera, decisamente più irrisolto che sanamente aperto.
Distribuito da Lucky Red dopo quasi un anno dalla presentazione a Cannes 2012, e con un titolo italiano che annulla il riferimento al brano jazz "Like Someone in Love", "Qualcuno da amare" è indicato solo per pochi fan irriducibili che ancora non si rassegnano al declino di uno dei maggiori artisti contemporanei. E che magari, se non grideranno al capolavoro, daranno la colpa alla lontananza dall'Iran.
 
Pubblicato su Ondacinema il 25/04/2013
 
 

domenica 22 aprile 2018

Ingredienti per un film iraniano formato export


Nove ingredienti per un film iraniano da festival o da corsa agli Oscar (anche se poi arriva Asghar Farhadi e smentisce tutti):

- presenza della troupe all'interno del film
- miseria, sfortuna, povertà
- ricerca spasmodica di un paio di scarpe, una mela, una pera, un pesce
- sfruttamento di donne e bambini
- suicidio dovuto ad afasia e noia
- attori non professionisti
- natura selvaggia in villaggi e campagne
- avere il film censurato
- terremoti, alluvioni, peste, talebani

Vignetta parodistica a opera di Mahmoud M. 

Quello con la bacchetta non sembra proprio Abbas Kiarostami?

mercoledì 18 aprile 2018

Modest Reception, Mani Haghighi (2012)



Mani Haghighi, nipote del decano della Persia cinematografica Ebrahim Golestan, è un habitué del festival di Berlino. E, dato che parliamo della passerella che ha ospitato spesso l'opera di Jafar Panahi e ha fatto da trampolino alla straordinaria carriera di Asghar Farhadi, è possibile che Haghighi, per altro collaboratore di Farhadi di vecchia data (per esempio attore in "About Elly", dove ha messo a repentaglio le facoltà uditive di Golshifteh Farahani), diventi il prossimo nome di spicco del cinema iraniano a livello mondiale. Possibile, ma non così probabile: le strizzate d'occhio al film di genere americano potrebbero generare una curiosità più limitata, nonostante una personalità autoriale fuori discussione.

Non posso però sbilanciarmi troppo: prima di "Modest Reception" (Paziraie sadeh) avevo visto il solo "A Dragon Arrives!", opera misteriosa e davvero suggestiva, che ha avuto anche una fugacissima distribuzione italiana. Prima o poi dovrò recensirla. Anche l'ultimo "The Pig" è stato accolto molti bene alla Berlinale. "Modest Reception" narra di una coppia (lo stesso Haghighi e l'altra attrice farhadiana Taraneh Alidoosti, meno dolce del solito), che si aggira in auto per montagne innevate, carica di sacchi pieni di banconote, che elargisce senza motivo a persone bisognose, in cambio di richieste bizzarre, filmando i fortunati/malcapitati con un Iphone.

Questo strano road movie ha tutte le peculiarità e i limiti del film che punta sull'originalità del soggetto. Sfida lo spettatore a interrogarsi sull'identità dei protagonisti e sui motivi delle loro gesta. Dicono di essere fratelli, poi sposi, saranno davvero in una di queste relazioni? Lei ha sul serio commesso dei crimini? A tratti si potrebbe pensare che facciano beneficenza disinteressata, ma presto emerge un certo sadismo, specie in lui. E gli interlocutori, più che rapportarsi all'evento di una fortuna piovuta dal celo, devono dimostrare se, per soldi, sono disposti a commettere atti empi, blasfemi, umilianti.

Un cinema come questo può irritare per l'intento apertamente teorico e provocatorio, ma di sicuro smuove l'interesse di chi è propenso a porsi domande e non si accontenta di storie ampiamente risapute.

venerdì 30 marzo 2018

Libro: Abbas Kiarostami - Le forme dell'immagine, di Elio Ugenti (2018). Intervista all'autore

È appena uscito, per Bulzoni Editore, “Abbas Kiarostami – Le forme dell'immagine”, sul grande maestro del cinema mondiale scomparso nel 2016. Il testo di Elio Ugenti, dottore di ricerca presso l'Università Roma Tre, si concentra soprattutto sull'intermedialità della sua arte e, per primo, analizza anche gli ultimissimi lavori del cineasta (e video artista, e fotografo ecc.). Accordando la preminenza al lato visivo, ma sondando anche aspetti narratologici. Un testo dal taglio accademico, che appaga anche i semplici appassionati svelando aspetti mai indagati, o non facili da decifrare.

Elio Ugenti ha concesso al blog questa intervista.

La prima domanda è d'obbligo, dato il tema del blog. Nel tuo libro sembra emergere un Abbas Kiarostami poco inquadrato nella cultura del suo paese di origine. Già in copertina compare il film realizzato in Giappone. Eppure negli anni 90 e dintorni il cinema iraniano sembrava una scuola, un movimento i cui artefici condividevano finalità simili. Hai voluto restituire la giusta universalità all’autore, o la tua scelta prende le mosse da altre considerazioni?


Sul piano metodologico, l’opera di un regista può essere studiata da numerose prospettive. Si può dare un taglio culturalista, per esempio, che tenga conto del contesto sociale e culturale in cui il regista si muove, oppure scegliere di focalizzare l’attenzione su aspetti differenti. Ad esempio il libro di Dario Cecchi “Abbas Kiarostami: immaginare la vita” si apre con un capitolo intitolato proprio “Come essere iraniano?”, riprendendo una celebre questione posta da Alain Bergala.

Io credo che Kiarostami, la cui ‘persianità’ (se così si può dire) indubbiamente emerge sotto molti aspetti e in numerosi film, sia da sempre molto vicino alle tendenze del cinema europeo. Racconta l’Iran in profondità, ma sempre guardando a modelli estetici che vengono dall'Europa, come il Neorealismo e le nouvelle vague. Credo, inoltre, che il modello di cinema tracciato da Kiarostami abbia avuto importanti ripercussioni sul piano internazionale, ma sia meno seguito dalle nuove generazioni di cineasti iraniani, per le quali ha più influenza Jafar Panahi, che – almeno da “Il cerchio” in poi – ha dettato le linee di un cinema fortemente politico che risulta maggiormente utile a indagare – e denunciare – la situazione socio-culturale iraniana di questi anni. Panahi, tra l’altro, ha iniziato la sua carriera collaborando con Kiarostami, che è autore delle sceneggiature de “Il palloncino bianco” e di “Oro rosso”.

Si può dire che Kiarostami ha praticato un cinema meno politico, o politico in modo diverso, se è vero per esempio che nei primi film, fino a “Dov’è la casa del mio amico”, denuncia il dispositivo scolastico e altri dispositivi di potere all’interno del suo Paese.


Il Kiarostami degli ultimi anni mi pare un artista letteralmente inafferrabile. Se da un lato molti lavori si trovano facilmente in rete, dall’altro occorre spostarsi per vedere, ad esempio, le videoinstallazioni. Inoltre l’unico spettacolo teatrale da lui realizzato, il tradizionale tazieh, non ha avuto repliche. E allo stesso modo la sua arte, che non è mai stata ‘commerciale’, si è fatta quasi ostica per lo spettatore comune. Sei d’accordo? E come spieghi tale direzione intrapresa?

Credo che tutto ciò nasca dalla sua volontà di testare le possibilità del suo cinema attraverso forme espressive differenti. Poter visionare le sue opere dei primi anni Duemila (quelle installate, per intenderci) è stato uno dei problemi con cui mi sono scontrato da subito. Ho visto tutti i lavori di cui parlo nel libro, tranne il tazieh, su cui infatti non mi sbilancio nell’analisi critica. Tuttavia non sempre ho potuto vederli nella versione installata, e questo fa la differenza per quel che riguarda il rapporto con lo spazio circostante.

Questo libro nasce da lontano. Ho iniziato a lavorare su Kiarostami a partire dalla mia tesi di laurea magistrale con l’intenzione di voler raccontare anche quella parte della sua produzione che risulta pressoché invisibile. Nel 2010 ho contattato Babak Karimi (montatore iraniano che insegna al Centro Sperimentale di Cinematografia), che mi ha fornito il contatto (fondamentale) di Elisa Resegotti, co-curatrice della mostra “Roads of Kiarostami” insieme ad Alberto Barbera, con cui è iniziato da quel momento un bel rapporto di amicizia. Elisa ha messo a mia disposizione tutto il materiale che possedeva, e posso dire che senza di lei il mio lavoro non sarebbe stato possibile.
Gli ultimi film per la sala realizzati da Kiarostami ("Copia conforme" e "Qualcuno da amare") risentono, secondo me, dell’esperienza di Kiarostami come artista visivo. Devo ammettere che, se avessi conosciuto Kiarostami a partire dagli ultimi lavori per il cinema, forse non mi sarei innamorato del suo cinema così come è stato guardando i suoi film degli anni Novanta, ma andando ad approfondire e ad analizzare il suo percorso da artista visivo, ho rintracciato una grande coerenza espressiva che caratterizza anche l’ultima parte della sua carriera.
Quando diversi anni fa ho visto in anteprima "Qualcuno da amare" per recensirlo, ho capito meglio anche il senso di "Copia conforme". Questi due film costituiscono indiscutibilmente un dittico.
Per quanto riguarda gli ultimissimi lavori, invece, sono felice di aver potuto vedere “24 Frames”. Poco prima della chiusura del libro ho saputo che sarebbe stato proiettato a Firenze, quando ormai non speravo più di riuscire a vederlo per poterne scrivere. È stata una fortuna perché è un film che permette di concludere il discorso su quella “estetica della con-fusione” di cui parlo nel terzo capitolo. Questo film è una sorta di testamento artistico che mette tra loro a confronto linguaggi differenti, analogamente a quanto avveniva in “Roads of Kiarostami”, seppure attraverso differenti scelte formali.


Il vento ci porterà via (1999)


Sotto il tuo microscopio non passano, se non di sfuggita, due film importanti come “Close-Up” e “Sotto gli ulivi”, che sono i più apertamente metacinematografici. Il motivo è che questo aspetto è già stato ampiamente sviscerato, o c’è dell’altro?


Io ho cercato di isolare quelli che rappresentano, secondo me, dei momenti di svolta nella carriera di Kiarostami. Posto "Dov'è la casa del mio amico?" come il punto iniziale di questo percorso, il primo momento di svolta è per me "Il vento ci porterà via". Lungo questo asse, secondo me è un punto intermedio è rappresentato più da "E la vita continua" che da "Sotto gli ulivi", e da questo derivano le mie scelte di campo.

Ho escluso il tema del metacinema, così come il discorso sulla continuità all’interno della Trilogia di Koker*, perché mi portavano un po' fuori strada rispetto al percorso che avevo immaginato progettando questo libro. Inoltre sono stati ben affrontati, anche in Italia, nei lavori di Marco Dalla Gassa, Pietro Montani e Dario Cecchi. Mi interessava sondare una via di analisi differente, che ha escluso tra gli altri quei due film, di cui riconosco la grandezza e l'importanza. "Close-Up" rientra probabilmente fra i tre film di Kiarostami che più amo.



L’ultimo capitolo è un’intervista a Elisa Resegotti. Lei sostiene che Kiarostami sia stato, nell’ordine, regista, fotografo, videoartista, poeta. Condividi questa particolare graduatoria?

Io credo davvero, per quel che riguarda Kiarostami, nella “estetica della con-fusione” di cui parlo nel libro, riprendendo questa espressione da Raymond Bellour. Kiarostami è sempre stato fotografo, e la fotografia ha influenzato il suo cinema per il lavoro di composizione delle inquadrature, così come il cinema ha influenzato gli immaginari delle sue fotografie (non fosse altro che perché le location sono le stesse, come spiegato anche da Elisa Resegotti nell’intervista). Quando poi Kiarostami decide di approcciare la videoarte (o meglio direi il “cinema installato”), quest'ultima influenza la produzione cinematografica successiva. Io credo di poter considerare Kiarostami un artista intermediale, per cui stabilire una gerarchia è complicato.

Capsico comunque il discorso di Elisa: del resto il cinema ha sempre trainato la fama di Kiarostami e ha rappresentato, probabilmente, l’apice della sua espressione artistica.


È possibile secondo te individuare un erede di Kiarostami, o qualcuno che porti avanti un lavoro di ricerca analogo?

Faccio fatica a trovarlo. Come dicevo, si tratta di un autore influenzato dalle tendenze europee del cinema moderno, come lo intendono Jacques Aumont o Giorgio De Vincenti, e dunque è complesso comprendere quanto il suo segno abbia inciso su autori che seguono questo modello stilistico più di altri autori che rientrano nella famiglia della “modernità cinematografica”. In Iran, invece, come detto, credo che la sua linea sia stata poco seguita.


Infine, per curiosità, hai avuto modo di visionare gli spot pubblicitari che ha realizzato in gioventù, o sono ancora inaccessibili?

Gli spot no. Ho visto delle grafiche, dei manifesti pubblicitari. Sono riuscito a vederli perché degli studenti iraniani dell’Università Roma Tre li hanno trovati facendo ricerche su Google in lingua persiana e me li hanno mostrati. Non ci ho mai lavorato, ma a livello di composizione del quadro direi che ci sono delle corrispondenze significative con il resto dell'opera dell'autore.



Dimenticavo una domanda, anche se in parte hai già risposto. Nel libro non dai giudizi di valore. I film e le opere che hai scelto di analizzare sono gli stessi che ami di più, o ne indicheresti altri?
Il film che mi ha fatto innamorare del cinema di Kiarostami è stato “Il vento ci porterà via”, e credo che rimanga il mio preferito. Ero uno studente al primo o secondo anno di università, non conoscevo Kiarostami ma ero un grande appassionato di Werner Herzog.

Quando Herzog è venuto a Torino, alla Scuola Holden, per un workshop che ho avuto la fortuna di poter frequentare, qualcuno gli ha rivolto una domanda sul suo rapporto con la poesia. Lui, nel rispondere, ha detto a un certo punto: “Quello che per me è il più grande cineasta vivente, Abbas Kiarostami, è anche un grande poeta”. Mi sono detto, allora, che non potevo non conoscere colui che Herzog reputava il più grande cineasta vivente! Ho iniziato a colmare la lacuna guardando proprio “Il vento ci porterà via”, e sono rimasto letteralmente folgorato da questo film.

È per questo motivo che ho deciso di aprire il mio libro analizzando proprio la prima sequenza de “Il vento ci porterà via”, perché in fondo quelle sono le prime immagini di Kiarostami con le quali mi sono confrontato.



*La Trilogia di Koker comprende "Dov'è la casa del mio amico", "E la vita continua" e "Sotto gli ulivi"

giovedì 15 marzo 2018

Nuovo film di Asghar Farhadi, ultimi aggiornamenti

Non sarà un film iraniano, ma una coproduzione tra Spagna, Francia e Italia (Lucky Red). Poco importa: non vediamo l’ora di scoprire “Todos lo saben”, il nuovo film del bi-Oscar Asghar Farhadi, con Penelope Cruz, Javier Bardem e Ricardo Darin.

Il progetto è in dirittura d’arrivo. Le ultime notizie rivelano la data di uscita in Francia: 9 maggio 2018, guarda caso in pieno festival di Cannes, dove sono già stati presentati e premiati “Il passato” e “Il cliente”… Sarà in concorso?
Già annunciata anche l’uscita argentina. Nel paese di Darin il film verrà distribuito il prossimo 13 settembre. Per esperienza, pensiamo sia difficile che in Italia arrivi molto prima di questa data.

Prima dell’inizio delle riprese, avevano abbandonato la produzione i fratelli Pedro e Agustin Almodovar (El Deseo), lamentando incomprensioni col regista. L’ufficio stampa del film aveva fornito una versione diversa: il disaccordo era con la compagnia francese (Memento), in tema di budget.

Il cliente: da Cannes al secondo Oscar per Farhadi

 Fonti: Internet Movie Data Base, Iran Cinema News
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martedì 13 marzo 2018

Un'enciclopedia digitale del cinema iraniano

Gli organizzatori del Fajr International Film Festival lanceranno il nuovo sito Web “Cicinema, The Digital Encyclopedia on Iranian Cinema”, in concomitanza con l'inizio della 36a edizione del FIFF in aprile.

‘L'enciclopedia sul cinema iraniano andrà online su www.cicinema.com e www.irancinenews.com’, ha dichiarato il creatore del sito web Iraj Taghipour. ‘Il regista e sceneggiatore Reza Mirkarimi, da quando è direttore del festival, ha apportato una serie di novità in sede di politica culturale e programmazione. L'idea era di mettere in luce il ruolo fondamentale dell’evoluzione tecnologica nel cinema e nei media in Iran dall'inizio del XIX secolo fino ai giorni nostri. L'obiettivo finale era quello di pubblicizzare e commercializzare film iraniani per un pubblico più ampio a livello mondiale. Abbiamo compiuto i passi necessari a tal fine negli ultimi due festival. Ora pianifichiamo di completare la seconda fase del nostro nuovo progetto nel corso di questa edizione.’

 
Un film del direttore del Fajr R. Mirkarimi
 
‘Non ci sono molti archivi e risorse in lingua inglese sui film iraniani Ora si aggiungerà un'enciclopedia che è stata realizzata da ricercatori, giornalisti e esperti di tecnica cinematografica. Tra l’altro, non c'è nemmeno un'enciclopedia in lingua persiana sul cinema iraniano. Certo, ci sono alcuni siti Web e database privati, ma non sono completi e affidabili nelle informazioni sulla produzione e nell’analisi dei film, non vantano interviste e archivi digitalizzati con riflessioni tecniche e teoriche di critici e ricercatori cinematografici, non hanno un archivio altrettanto vasto.’

Taghipour ha proseguito affermando: ‘Lanceremo cicinema.com per colmare la lacuna. Abbiamo raccolto e archiviato informazioni su 4.000 film, che è circa il numero totale di film prodotti finora in Iran. Abbiamo anche raccolto e archiviato informazioni su 6.500 cortometraggi. Il sito Web ora ha un database completo con circa 10.500 film iraniani’

Inoltre l’artefice del progetto ha dichiarato: ‘Il problema più grande nel lancio del sito web è stata l'assenza di informazioni generali su determinati film, anche sotto forma di titoli di testa o di coda. La maggior parte di questi film mostrava in apertura solo un certificato rilasciato dal Ministero della Cultura, nient’altro. Non avevamo nessun altro posto dove andare per ottenere maggiori informazioni sui cast e sulle troupe. Questo anche per i film prodotti e distribuiti nella rete di home entertainment. Un altro problema era che questi film non erano registrati in nessun archivio. Non siamo riusciti a vederli da nessuna parte e questo ha reso il nostro lavoro molto più difficile.’

Il direttore di www.cicinema.com ha spiegato: ‘Ci è voluto un team di 70 ricercatori e tecnici per avviare il sito web. Abbiamo chiesto aiuto a molte organizzazioni, tra cui l'Iranian Cinema Organization, la Farabi Cinema Foundation, l'Iranian Youth Cinema Association, il Centro per lo sviluppo del cinema documentario e sperimentale, il National Film Archive, il direttore del FIFF Reza Mirkarimi e una miriade di altri soggetti privati.

Ogni film avrà informazioni suddivise in 17 categorie. Lo studioso Jamal Omid ci ha aiutato molto, ci ha lasciato consultare le sue serie di libri sul cinema iraniano. Abbiamo usato i suoi testi come riferimento per i film prodotti fino al 2009. Da quel momento, abbiamo utilizzato le nostre risorse. Tutti i film prodotti dal Kanun, l'Istituto per lo sviluppo intellettuale dei bambini e degli adolescenti, hanno palesato le stesse criticità. Avevano alcuni nomi nei credits, ma nessun'altra informazione.

Dobbiamo ancora raggiungere un accordo con l'IRIB. Hanno una vasta collezione di film nei loro esaustivi archivi. Hanno usato metodi moderni per archiviare. Il numero di film schedati, oltre a serie TV, documentari e simili è uguale al numero totale di film prodotti e archiviati a livello nazionale. Vogliamo firmare un accordo di cooperazione con loro perché hanno svolto un lavoro meraviglioso nel completamento del database.’

Secondo Taghipour, in una prima fase verrà solo lanciato online il sito con il database dei film, poi le biografie. Una seconda fase includerà i premi vinti nei festival internazionali. il sito web verrà testato la settimana prossima, con la speranza di andare online durante l'imminente Fajr.

‘Il sito conterrà anche la cronistoria del cinema iraniano’, ha dicharato, aggiungendo: ‘Si inizia dalla prima macchina fotografica acquistata dall'Iran nel 1897 e dalle prime immagini cinematografiche filmate tre anni dopo nel 1900, fino a molti altri importanti eventi e sviluppi.’

Il primo film iraniano Abi and Rabi

Taghipour ha ringraziato Reza Mirkarimi e gli organizzatori del Festival e ha detto: ‘Mirkarimi ci ha aiutato a completare il progetto in circa sette mesi. Altrimenti, ci sarebbero voluti sei anni per essere dove siamo ora. Dobbiamo questo successo alle sue eccellenti capacità di gestione e programmazione, nonché dedizione e supporto. La versione precedente del sito Web aveva una sola sezione di notizie in inglese. Questa era la principale fonte di riferimento per i nostri lettori anglofoni. Mirkarimi ci ha aiutato a migliorare e aggiornare il sito web. Ora tutte le notizie e i dati sul sito saranno in inglese. Presto saranno disponibili anche in persiano e in altre lingue.’

Taghipour ha anche espresso rammarico per il ritardo del cinema iraniano in termini di marketing e incassi internazionali: ‘l'Enciclopedia non è solo un modo per condividere i risultati degli studi sull'industria e sulla storia del cinema iraniano. Questo lavoro e altri potrebbero aiutare a sviluppare e commercializzare il cinema iraniano a livello globale. I film iraniani hanno vinto premi in festival internazionali ma hanno raccolto poco nei botteghini esteri. Uniremo il nostro popolare sito web in lingua inglese www.irancinenews.com con www.cicinema.com per espandere e raggiungere un pubblico globale più ampio. La concezione del database è un'opportunità unica per pensare all'attuale convergenza tra produzione cinematografica, marketing e screening

Per ulteriori informazioni, è possibile visitare il sito Web del festival all'indirizzo www.fajriff.com o inviare un email all'indirizzo info@fajriff.com.
La 36a edizione del Fajr International Film Festival si terrà a Teheran dal 19 al 27 aprile.

giovedì 18 gennaio 2018

Tanto Iran a Berlino

Che il cinema iraniano sia molto presente nei festival internazionali non è una novità. Ma Berlino è una delle vetrine più prestigiose in assoluto, e porta bene ai colori persiani, avendo già consacrato  opere come About Elly, “Una separazione”, “Taxi Teheran”. Pertanto, essendo la presenza iraniana quest’anno considerevole, la notizia è da rimarcare. Anche se il nuovo film, spagnolo, di Asghar Farhadi,  sarà evidentemente indirizzato altrove (Cannes?).

Per primo è stato annunciato "Pig" di Mani Haghighi (già presente nel 2016 con “A Dragon Arrives!”). “Pig” sarà nel concorso ufficiale, in lizza per l’Orso d’oro. La sinossi recita:


Hassan è arrabbiato. Da tempo non è in grado di fare un film. La sua star preferita non può aspettare e intende lavorare con altri registi. Sua moglie non è più innamorata di lui. Sua figlia è cresciuta ed è ora indipendente dalla famiglia. Sua madre è invecchiata e sta perdendo la memoria. Una sconosciuta attraente lo segue ovunque vada e pretende che Hassan la scritturi nei suoi film. Peggio ancora, un killer si aggira in tutta la città per uccidere registi, tuttavia, finora ha ignorato Hassan. Hassan è indignato: non è forse il più importante regista di questa città? Quindi, perché l'assassino non lo segue? Quando il nome di Hassan viene discusso nei social network come principale sospettato degli omicidi commessi, le circostanze diventano intollerabili. Ora Hassan deve pensare a un piano intelligente per riabilitare il suo onore ....


"Pig" di Mani Haghighi


Altri due film iraniani hanno staccato i biglietti per la Berlinale 2018. 

“Hendi & Hormoz”, una coproduzione tra Iran e Repubblica Ceca, e “Dressage”, solo Iran, sono stati ammessi alla competizione riservata ai cortometraggi. 

Dopo "Valderama”, visto a ‘Generation 2016’ del Festival, "Hendi & Hormoz" segna anche per Abbas Amini la seconda partecipazione alla mostra. Concorrerà nella sezione ‘Generation 14plus’, dedicata a un pubblico di oltre 14 anni. 

“Hendi & Hormoz” si svolge sull'isola iraniana di Hormuz nel Golfo Persico, dove i depositi di ematite nel terreno trasformano le onde dell'oceano in rosso sangue. Hormoz, 16 anni, si è sposato con Hendi, di tre anni più giovane, dopo averle promesso che avrebbe lavorato come minatore. Ma il giovane, interpretato da Hamed Alipour ("Valderama"), si rende conto che non riesce a trovare un lavoro. Quando Hendi rimane incinta inaspettatamente, Hormoz è costretto a fare un patto sconsiderato con un contrabbandiere. 

Quello delle coproduzioni internazionali è un fenomeno in aumento, grazie anche alle aperture diplomatiche che il governo di Teheran ha effettuato negli ultimi anni.

“Dressage” di Pooya Bakoobeh racconta la storia di Golsa e dei suoi amici che, spinti principalmente dalla noia piuttosto che dall'avidità, svaligiano un negozio. 

Questi film rappresenteranno l'Iran al 68 ° Festival Internazionale del Cinema di Berlino. Inoltre “Ultima Ration, Mountain of the Sun”, una coproduzione tra Libano e Canada diretta dall’iraniano Bahar Noorizadeh è stata invitato al 13 ° programma Forum Expanded della Berlinale. 

Il 68° Festival internazionale del cinema di Berlino si svolgerà dal 15 al 25 febbraio 2018.

domenica 14 gennaio 2018

Dieci, Abbas Kiarostami (2002)



Dopo gli esperimenti del documentario "Abc Africa", Abbas Kiarostami adotta il digitale anche per la finzione. "Dieci" (Dah) è una raccolta di altrettanti episodi, numerati a mo' di conto alla rovescia, in cui la protagonista del film, alla guida della sua auto, si confronta con diversi interlocutori. I dialoghi, mediamente più concitati e 'drammatici' rispetto ad altri lavori dell'autore, sono ripresi da due videocamere fisse rivolte all'interno dell'abitacolo. Dato il tema principale - la condizione della donna nell'Iran contemporaneo -, si tratta del film più politico del regista, che sceglie insolitamente un'ambientazione urbana e una protagonista femminile. Questi aspetti denotano una palese influenza, sul maestro, dell'allievo Jafar Panahi e del suo "Il cerchio", al netto di alcune notevoli differenze stilistiche.

La trama si svolge nel traffico di Teharan. Una giovane donna separata, fotografa e pittrice, discute animatamente con suo figlio, che sembra urlarle frasi ascoltate dal padre gonfie di mentalità maschilista. La tipicamente kiarostamiana incomunicabilità tra genitori e bambini si traduce qui in aggressività del giovane.  Seguono confronti con la sorella, con un'anziana donna devota, con una prostituta, con un'amica abbandonata dall'uomo che aveva promesso di sposarla. I dialoghi sono espliciti (senza essere triviali) come mai prima nel cinema iraniano; il penultimo episodio, cui segue un epilogo in circolarità rispetto all'incipit, sfida doppiamente la censura mostrando un cranio femminile rasato e senza velo. "Sfortunamatamente qualche volta si perde" ne è l'eloquente chiosa.




Coraggioso e figlio del suo tempo, il film sconta una programmacità lontana dalla geniale complessività dei tanti capolavori, più filosofici e spirituali, inanellati dall'autore negli anni precedenti. Il digitale toglie, in pratica, lo strumento della messa a fuoco; al basso costo di produzione fa da contraltare uno svilimento nella composizione delle inquadrature, costrette a primi piani sì claustrofobici, ma che sacrificano il contesto circostante. La radicalizzazione del linguaggio, anche con l'esasperazione del fuori campo, ne fa un'opera di transizione verso le sperimentazioni degli anni seguenti. Nell'ultima fase sua vita, il Nostro si dimostrerà più a suo agio lontano dal lungometraggio tradizionale.
"Dieci" segna il ritorno, dopo cinque anni, al concorso di Cannes. La volta precedente Kiarostami era tornato a casa con la Palma d'oro, questa volta a mani vuote.
Il metodo di lavoro adottato è descritto dal regista nel documentario "10 on Ten"
L'interprete principale Mania Akbari era una non professionista, pittrice e madre separata anche nella vita reale. Qui debutta come attrice, ma passerà molto presto alla regia.







venerdì 22 dicembre 2017

Parla Rasoulof

Il quotidiano Arab News riporta un’intervista rilasciata via Skype da Mohammad Rasoulof all’agenzia francese AFP. Il regista interviene dalla sua casa di Teheran, essendo confinato in Iran in seguito al ritiro del passaporto comminatogli dalle autorità del paese. Elemento del presunto crimine il film “A Man of Integrity” (Lerd), vincitore della sezione Un Certain Regard al festival di Cannes dello scorso maggio, per i cui contenuti Rasoulof è accusato di propaganda antigovernativa e attività contro la sicurezza nazionale. Il fermo è avvenuto il 16 settembre mentre Rasoulof rientrava dal Telluride Film Festival, negli Stati Uniti.



Queste le parole del cineasta quarantacinquenne.

La corruzione è penetrata in ogni strato della società, va dal fondo della scala sociale fino alla cima della piramide del potere. Gli iraniani vorrebbero lasciarsela alle spalle ma non ci riescono, perché la corruzione è diventata un sistema. Persino i miei amici, che ne sono disgustati, non riescono a liberarsene. Si diventa oppressi e oppressori allo stesso tempo.
Personalmente non so cosa mi succederà, sono completamente all’oscuro del mio destino, ma non mi lascio abbattere da tutto ciò.

Il mio film non può essere proiettato in Iran, mentre io sto aspettando di essere processato. Gli intellettuali del mio paese o si sono arresi, o sono in prigione, o ridotti al silenzio.

Se le persone non mi sostenessero fuori dall'Iran... la mia situazione sarebbe molto peggiore. Quello che mi fa andare avanti è che la gente non mi dimentica. E che il mio film sarà visto.

La società di produzione francese ARP ha lanciato una petizione su Change.org per permettergli di lavorare, viaggiare liberamente e raggiungere la sua famiglia, che vive in Germania da qualche anno.

Di Rasoulof è stato distribuito in Italia un solo film: “L’isola di ferro” (Jazireh ahani). Nel 2010 il regista era stato arrestato insieme a Jafar Panahi e condannato a sei anni di reclusione. Pena ridotta in appello a 12 mesi di con la condizionale.

domenica 10 dicembre 2017

Il voto è segreto, Babak Payami (2001)



Nell'isola di Kish, Golfo Persico, luogo scarsamente popolato, un'urna elettorale viene paracadutata da un aereo. La metafora con cui inizia il secondo lungometraggio di Babak Payami è evidente: per un paese retto da un governo illiberale, la possibilità di cambiare lo status quo con il voto pare una grazia del cielo, un'opportunità che arriva da un altro mondo. Il regista sceglie come responsabile del seggio una donna, opzione altrettanto simbolica e non infondata, se è vero che parliamo della parte più istruita della società. Un soldato, giovane, ignorante, dedito alla repressione del contrabbando, la scorta in mezzo al deserto per raggiungere le persone e farle votare. Supererà i pregiudizi di genere e acquisirà senso civico, pur non capendo benissimo le regole del suffragio.

La questione femminile è centrale nella pellicola, tra donne che pensano che per votare debbano ottenere il permesso del marito e ragazze che si chiedono perché bastino dodici anni per sposarsi però ne servano sedici per partecipare alle elezioni.
"Come si fa a votare con un fucile puntato?", chiede inoltre un elettore riferendosi al militare, ma con un'eloquenza che travalica la specifica scena. Lo zelo con cui una parte della società ci crede, malgrado le tante restrizioni, riflette tuttavia il clima politico di apertura che si respira durante la presidenza di Mohammad Khatami (1997-2005), prima del giro di vite intervenuto con Mahmoud Ahmadinejad (2005-2013).





Essendo il risultato di un'ampia coproduzione internazionale, "Il voto è segreto" (Raye makhfi), nato da un'idea di Mohsen Makhmalbaf (onnipresente come il prezzemolo nel cinema iraniano di inizio millennio) è stato accusato di essere un film ad uso è consumo dei festival (tra l'altro Payami vive in Canada dalla metà degli anni 80). Eppure la coppia di protagonisti, così diversi tra loro, e i piani-sequenza del regista, che diverranno estenuanti nel successivo "Il silenzio tra due pensieri", qui funzionano a meraviglia, e il Leone d'argento per la miglior regia alla mostra di Venezia nonché la messe di premi collaterali sono tutt'altro che immeritati, se è vero che il presidente della giuria Nanni Moretti avrebbe voluto assegnargli il primo premio.

La presenza di tanti italiani, nella troupe coinvolta nella lavorazione, non ha salvato l'edizione nostrana da un doppiaggio scadente.





Di recente il film "Newton" di Amit V Masurkar è stato sospettato di plagio nei confronti della pellicola di Payami. Quest'ultimo e il produttore, Marco Müller, lo hanno però completamente scagionato.




giovedì 26 ottobre 2017

Melbourne, Nima Javidi (2014)




In barba alle dichiarazioni del regista, che dice di aver riflettuto sulle responsabilità di qualunque persona e di qualunque popolo, l'incipit del suo sorprendente lungometraggio d'esordio parla chiaro: "Melbourne" si apre con una visita porta a porta per il censimento; mappatura di una e una sola nazione. L'incaricata è frenata da uno scontro fortuito in strada: altra metafora, questa volta delle difficoltà di portare a termine la disamina. 
All'appello rispondono i coniugi Amir e Sara, che affermano di star partendo per l'Australia per motivi di studio. È qui che la macchina da presa si insinua nel loro appartamento e non vi esce più fino alla penultima sequenza. 
Lo sgombero del locale e gli ultimi preparativi per la partenza vengono funestati da un evento  agghiacciante: la figlia neonata del vicino, da loro provvisoriamente ospitata, muore senza una spiegazione. Come dirlo ai genitori?




Nato nel 1980, già autore nel 2007 di due documentari ("Person" e "An Ending to an Ancient Profession", oltre che di numerosi spot pubblicitari e di sei cortometraggi, Nima Javidi, al netto dell'innocente tentativo di decontestualizzare l'ambientazione del film, spiega con estrema lucidità la genesi e lo sviluppo del progetto. Inoltre il regista, che ammette l'influenza di Alfred Hitchcock, denuncia una fonte di ispirazione ben precisa,anche legata a necessità contingenti. Riportiamo ampi estratti da sue interviste, molto utili per l'analisi dell'opera:

Circa cinque o sei anni fa andai in montagna con un gruppo di amici, tra cui una giovane coppia con un bambino poco più che neonato, e a un certo punto fui lasciato in casa con il piccolo per un breve lasso di tempo. Nonostante io facessi un po’ di rumore, il bambino sembrava non farci caso e a un certo punto mi sono chiesto se fosse ancora vivo. A quel punto ho provato a fare ancora più rumore e quello per fortuna si è svegliato. Ma è stato allora che mi sono chiesto: cosa avrei fatto se il bambino fosse invece morto? E così è nata l’idea centrale del mio film.

La scelta di ambientare tutto in interni e in un’unica location è legata al budget. Dal momento che io ero un regista al primo film non potevo presentarmi con un progetto costosissimo e sperare di trovare un produttore, e allora ho dovuto limitare il tutto a un interno pur sapendo che questo mi avrebbe causato delle difficoltà, perché è più difficile mantenere la tensione e l’attenzione dello spettatore con un film che si svolge tutto in un solo ambiente. Ho dovuto lavorare molto di più sulla sceneggiatura avendo fatto questa scelta, ma non avevo molte alternative.

[...] potevo stancare lo spettatore, quindi ho utilizzato la tecnica della sceneggiatura teatrale francese, che è basata sul fatto che il rapporto fra i personaggi presenti nella scena cambia tra di loro facendo entrare e uscire una terza persona. Entrando e uscendo un terza persona nella scena, l'attenzione si sposta da uno all'altro e questo crea varietà. È quello che è stato fatto anche in “12 uomini arrabbiati”: ho usato questa tecnica, è una sceneggiatura ambientata tutta in interni che devi poter variare con niente, facendo soltanto entrare e uscire i personaggi.





Epperò, nonostante alcune originalità (un insolito formato panoramico; l'eleganza dei titoli di testa - sui vestiti impacchettati sottovuoto - ad opera di Amir Mehran), "Melbourne" non può non rimandare al cinema di Asghar Farhadi. Più che un degnissimo allievo, Javidi sembra quasi il direttore della seconda unità di ripresa di un film del maestro, tanto è somigliante la sua pellicola.
Anzitutto, ma è il meno, per la presenza di due attori (e la bravura nel dirigere il cast): Peyman Mooadi è fresco reduce dal trionfale ruolo da protagonista di "Una separazione", Mani Haghighi era, con Moaadi, tra gli interpreti del corale "About Elly" (Sara ha invece il volto di Negar Javaherian ("A Cube of Sugar"). Attori importanti hanno scelto un regista debuttante dopo aver letto la sceneggiatura. Ed è proprio la capacità di sviluppare quest'ultima in maniera certosina e facendo montare contemporaneamente dramma e tensione, nonché il tema dell'aspirazione a emigrare per il ceto medio urbano iraniano, a ricondurre ineluttabilmente al regista premio Oscar. L'elemento del trasloco sembra addirittura anticipare "Il cliente"

Una particolarità stilistica di "Melbourne" è invece l'onnipresenza di squilli, dei telefoni e dei campanelli, perfetti nel mettere fretta e spavento ai protagonisti, ma con la funzione ulteriore di rammentare l'esistenza di una realtà circostante (non solo quella di addetti allo sgombero e parenti che si palesano) con cui devono decidere se e come confrontarsi o fuggire. Il fulcro nel film è infatti il senso di responsabilità, schivato da coloro che optano per la fuga, sia da un appartamento sia dal paese. Anche a fronte di colpe che non hanno, ma che avvertono come proprie. 

Un apparente limite è l'esplosione gratuita del conflitto (sempre farhadiano) di coppia: Sara grida al marito 'è colpa tua!' non appena viene a conoscenza del decesso della bambina, prima di fare qualunque indagine. Il che lascerebbe intendere frizioni pregresse. Tuttavia il senso della battuta sta nella ricerca del capro espiatorio, individuato poco dopo nella baby sitter, mentre la relazione coniugale tende, tra altri e bassi, a ricomporsi. 
Il discarico di colpa diventa poi definitivo nella soluzione adottata nel prefinale (dopo un grottesco tentativo di trasporto del piccolo cadavere in valigia, testimonianza dell'assurdità parossistica della situazione). Amir e Sara se ne vanno, i problemi sono di chi resta.

La lunga inquadratura conclusiva, senza stacchi, sul volto dei protagonisti, lascia il tempo allo spettatore di interrogarsi su cosa potrà succedere e su cosa avrebbe fatto al loro posto.




Presentato a Venezia71 nella sezione Settimana della critica. "Melbourne" ha vinto cinque premi nei festival internazionali.

I corsivi sono tratti dalle seguenti interviste al regista:
https://quinlan.it/2014/08/31/intervista-nima-javidi/
http://www.storiadeifilm.it/articoli/il_cinema_iraniano_a_venezia_71_incontro_con_nima_javidi_e_payman_moaadi_per_il_film_melbourne.html





giovedì 19 ottobre 2017

E la vita continua, Abbas Kiarostami (1992)







Mi ha colpito la dignità delle persone. Quando, per girare, ho domandato di sporcare di nuovo i vestiti e le loro case, in molti hanno rifiutato. Persino i figuranti avevano preparato dei vestiti nuovi. Tutto quello che si vede nel film è troppo a posto, ma il côté documentaristico era insopportabile per quelle persone in quel momento; ho rispettato i loro desideri.







Secondo film di una trilogia detta 'di Koker', dai luoghi in cui è ambientata, o 'del terremoto'. Ma anche primo di una serie di lavori sul tema della morte. Sul piano stilistico "E la vita continua" (Zendegi va digar hich) segna l'affermazione di alcuni marchi di fabbrica di un linguaggio per cui Abbas Kiarostami diverrà celebre nel mondo, e che verrà radicalizzato nelle opere successive. Protagonista, in senso lato, di questo e dei film successivi del regista è l'abitacolo dell'automobile, punto di osservazione sul il mondo e sulle riflessioni ed emozioni dei passeggeri; cornice di scorci pittorici abbacinanti; segno indelebile di assoluta riconoscibilità dello sguardo del solo Kiarostami, che vanterà non poche imitazioni.

Altro stilema che si affaccia, afferente la struttura del racconto, è quello della dilazione*. Sappiamo immediatamente cosa è successo: la radio accesa a un casello parla di un terremoto che ha mietuto vittime, e molte strade sono interrotte. È però dopo quattro minuti che cominciamo a capire perché i due protagonisti si addentrano in quei percorsi impervi. Sono un uomo di mezza età (Farhad) e suo figlio (Puya); vanno alla ricerca di due bambini e di abitazioni, di fango e terra cotta, comparsi in un film.





Nella stessa sequenza sappiamo che si sta svolgendo una competizione calcistica per nazionali. Solo un po' alla volta scopriremo che l'adulto è un alter-ego di Kiarostami, di ritorno nei villaggi di Koker e Poshteh in cui ha girato** "Dov'è la casa del mio amico" (col senno di poi, il primo film della trilogia), funestati dal sisma mentre erano in corso i mondiali di Italia 90. È alla ricerca dei piccoli protagonisti, i fratelli Ahmadpour.

Credo che la vera guida di quel viaggio fosse il bambino e non il padre, anche se era quest'ultimo a tenere in mano il volante dell'auto. Nella filosofia orientale si dice che non si può andare in terre sconosciute senza una guida. Puya si muoveva in modo più razionale di quanto facesse il padre, accettava l'illogicità e l'instabilità del terremoto, giocava con una cavalletta, aveva sete di vita. Tra i due chi aveva il rapporto più diretto con il cinema era senz'altro il figlio, perché lo si vede ricostruire un quadro con le sue mani, quando è sdraiato dentro l'automobile. Volevo sottolineare la sensibilità dello sguardo del ragazzo, la stessa che dovrebbe avere chi si occupa di cinema.





Ora si pensi ai film precedenti del regista, praticamente tutti incentrati su un unico protagonista: qui invece lo sguardo è duplice, quattro occhi osservano la realtà circostante, due persone diverse per età e quel che ne consegue intraprendono ognuno il proprio percorso intellettuale ed emozionale attraverso l'esperienza della morte. La spontaneità del giovane lo porta a concludere il percorso per primo, l'adulto deve ancora superare alcune sovrastrutture mentali.
Questo road movie iniziatico è una delle ultime opere kiarostamiane con un bambino come co-protagonista. Dopo "E la vita continua" il regista abbandona l'istituto pedagogico Kanun di cui ha fondato la sezione cinema nel 1969.




Impressionanti carrellate laterali sulle macerie e sulla gente intenta a scavare lasciano il campo a una soggettiva, in una foresta, verso la culla di un bebè ferito e apparentemente abbandonato.
La parte centrale, che occupa un terzo di film, racconta la sosta in un villaggio largamente danneggiato e offre l'occasione per scambi più articolati con le vittime, per l'incontro con i futuri protagonisti di "Sotto gli ulivi", ma anche per un memorabile zoom che cerca la natura attraverso la finestra di una parete diroccata.
Quando riprende il percorso, l'automobile si imbatte in salite ripide su cui arranca. Alla fine del viaggio - che in realtà non finisce - avremo incontrato alcuni personaggi del film precedente, ma non i fratelli Ahmadpour; anche se un uomo ci ha assicurato di averli visti vivi.

Mostrando i paradossi di situazioni frivole in un contesto funesto - a soli cinque giorni dal sisma, l'ossessione per il calcio (elemento pluripresente nei film di Kiarostami, a partire dai primi cortometraggi), disegni simpatici su un braccio ingessato ecc. -, tra la necessità di distrarsi e il dovere di andare avanti, "E la vita continua" affronta con profondità temi alti ed essenziali.
Il discorso, come altrove in Kiarostami e in Iran, si può definire metacinematografico, seppur con declinazioni diverse rispetto a un "Close-Up" o a "Sotto gli ulivi", poiché la macchina-cinema non viene palesata. Il regista, auto-inscrivendosi nella trama, riflette su cosa sia lecito mostrare, raccontare, far sentire senza cadere nello sciacallaggio, rischio concreto per un cinema rosselliniano come il suo.

Impossibile infine non menzionare la lunga inquadratura conclusiva; tre minuti più i titoli di coda senza stacchi, per un campo lunghissimo che simboleggia le difficoltà dell'uomo e l'importanza della collaborazione per superarle. Il piano-sequenza conclusivo [...] è l'unica scena del film dove non compaiono segni del terremoto, in cui non ci sono spaccature, rotture. Il finale è così propositivo come l'inizio di ogni vita.





Incredibile l'accoglienza in patria. Il film viene massacrato dalla critica iraniana, che lo accusa di menzogna, di minimizzare la tragedia e de-umanizzare le vittime, di triviale insistenza sui bisogni primari (ma davvero la tenera sequenza di Puya che si ripara dietro un fuscello per far pipì senza essere visto sembra volgare?).
Soprattutto, l'accusa principale rivolta al film è di essere ad uso dei festival occidentali. Tra gli indizi sospetti: l'impiego del "Concerto per due corni da caccia" di Vivaldi, anziché di qualche classico della musica tradizionale persiana; un attore protagonista dalla carnagione troppo chiara per essere un iraniano credibile***; il fatto che guidi un'auto francese (una Renault 5), poco importa se vecchia, ammaccata, impolverata, in affanno su quelle strade; il fatto che Farhad mostri la locandina francese di "Dov'è la casa del mio amico".

Infine la critica più sensata, ma da contestualizzare: Farhad guarda dall'alto in basso i suoi interlocutori, con supponenza. È in effetti cercato, nel film, un confronto tra un approccio intellettuale e esterno alla tragedia e il dramma della gente umile che l'ha vissuta. Il punto di incontro è rappresentato da Puya, come si evince dall'emblematico dialogo con una madre al villaggio. La donna, che piange una figlia, si rivolge agli altri figli urlando, ma ascolta con attenzione i discorsi di Puya, ingenui ma ricchi di citazioni bibliche. Istruzione in erba e innocenza si accompagnano in lui, e raggiungono il punto di intesa con la semplicità esistenziale degli abitanti locali.

"E la vita continua" piace invece talmente tanto a Jean-Luc Godard da fargli affermare: 'La storia del cinema inizia con Griffith e finisce con Kiarostami'.


* Gli stessi titoli di testa intervengono dopo dieci minuti
** Anche se non è certo che si tratti del regista; il film mantiene l'ambiguità
*** Alberto Barbera rivela che Farhad Keradmand, attore non professionista come gli altri del cast, ha studiato architettura in Italia e parla benissimo italiano. Resta però iraniano al 100%

I corsivi sono dichiarazioni del regista.