giovedì 8 aprile 2021

Mattone e specchio (Ebrahim Golestan, 1964)


Il titolo di questo film è tratto da un verso proverbiale di una poesia di Farid al- Din Attaar, un poeta persiano ucciso in un massacro durante l’invasione mongola dell’Iran nel XIII secolo. Il verso al quale il titolo si ispira recita: “Quello che i giovani vedono nello specchio, gli anziani lo vedono nel mattone grezzo”. La citazione è stata inserita non solo per dire che i dettagli della storia sono un riflesso della durezza della società che il film ritrae, o alla quale allude. Intende anche richiamare l’attenzione sui dettagli presenti parallelamente in una dimensione meno visibile, portatrice di un significato estraneo ma tangibile, e quasi complementare, di ciò che sta avvenendo: come due distinti strumenti musicali che, suonando note e tonalità differenti, producono un suono o un’aria compositi, da ascoltare, o da esprimere. Ebrahim Golestan


Gli esordi del cinema iraniano d'autore ruotano intorno alla factory di Ebrahim Golestan (Shiraz, 1922), scrittore modernista e fotografo, giornalista e traduttore, convertito alla settima arte con lo scopo di portare nell'asfittico e primitivo panorama nazionale i più avanzati modelli stranieri. Centro di produzione di documentari per la National Iranian Oil Company, realizzatore sia di opere istituzionali sia di pellicole caratterizzate da grande libertà espressiva, luogo di incontro di importanti intellettuali e di tutte le personalità che iniziano a emergere nel mondo del cinema iraniano, quello che è il primo film studio semi-indipendente del paese passa alla storia soprattutto per "La casa è nera", un cortometraggio di non-fiction su un lebbrosario, realizzato dalla poetessa Forugh Farrokhzad, all'epoca compagna del regista-produttore (e supervisore di tutte le opere dello studio). E per "Mattone e specchio" (Khesht o Ayeneh), il primo grande lungometraggio di fiction realizzato in Iran, chiaramente influenzato dal cinema di Antonioni e dalla Nouvelle vague francese. Ma che dialoga anche, volendo, con "Detour" di Ulmer e anticipa l'iraniano quasi contemporaneo "Night of the Hunchback" (1965) di Farrokh Ghaffari, altro frequentatore della factory.

La produzione di "Mattone e specchio" inizia nella primavera del 1963 con una piccola troupe di cinque persone e senza una sceneggiatura definita. La rottura di una lente anamorfica rallenta i lavori. Il 5 giugno 1963, mentre l'equipaggio attende la spedizione di un nuovo obiettivo dalla Francia, si leva una protesta contro l'arresto dell'ayatollah Khomeini, che ritarda ulteriormente le operazioni. Le fonti sono discordanti sull'effettiva data di uscita del film. L'attendibile Ehsan Khoshbakht riporta il 1964 come anno della prima proiezione mondiale e il 1966 della prima iraniana, e non il comunemente riferito 1965.

Restaurato dalla Cineteca di Bologna con la supervisione dell'ultranovantenne regista, che ha anche reintegrato alcune scene tagliate, "Mattone e specchio" è stato proiettato a Venezia Classici nel 2018 ed è ora disponibile su Raiplay, a questo link.*




Il film crea da subito un'atmosfera seducente, immortalando in uno splendido bianco e nero - a cura di Soleiman Minasian - le insegne luminose che contrastano il buio della notte di Teheran. L'autoradio del taxista Hashem (Zakaria Hashemi) trasmette un racconto - la voce è quella del regista - fortemente letterario e poetico ("Il crepuscolo silente si scioglieva nell'oscurità dei rami secchi..."), simbolicamente su un cacciatore e le sue prede; ma il protagonista cambia stazione preferendo spot pubblicitari. 

L'inquietudine aumenta quando una donna avvolta da un chador nero - interpretata da Forugh Farrokhzad, inquadrata però solo di sfuggita - abbandona una neonata (figlia del fratello del regista) nel taxi e si dilegua nell'oscurità. Hashem prende in braccio l'infante e va alla vana ricerca della madre. Si ritrova dapprima in un cantiere abbandonato, dove una donna che vive tra le macerie assicura che nessuno è passato da lì. Poi in una locanda, in cui qualcuno lo sgrida per essere arrivato in ritardo e colleghi filosofeggianti scherzano sulla sua presunta paternità, mettono in dubbio la sua versione, gli sconsigliano di andare dalla polizia. 


Keshavarz nei panni del medico aggredito

L'uomo si reca lo stesso al commissariato. Mentre attende il suo turno, è la volta di un medico che lamenta di essere stato aggredito e derubato. Con rassegnazione fatalista, gli agenti gli rispondono che non possono fare molto e il dottore se ne va senza sporgere denuncia. Sentiamo poco della deposizione di Hashem, ma la risposta è che una neonata non può passare la notte al commissariato: dovrà tenerla con sé e portarla l'indomani all'orfanotrofio.

Queste due sequenze sono emblematiche dello stile moderno del regista, che si prende tutti i tempi necessari per spezzare il ritmo del racconto e consentire ai non protagonisti di rubare la scena, lasciandoli cimentare in lunghi monologhi ancora fortemente letterari - nella tipica tradizione orale persiana - e in assoli attoriali di bravura. Nella locanda ascoltiamo voli pindarici su storia e letteratura; alla stazione di polizia assistiamo al dimenarsi di un uomo irrequieto, che però forse mente. E Golestan lancia giovani attori che faranno la storia del cinema nazionale, come Parviz Fanizadeh, Jamshid Mashayekhi e Mohammed Ali Keshavarz (il medico). Inoltre, la camera-stylo del regista decide di volta in volta cosa inquadrare e cosa lasciare fuori campo, quale dialogo far sentire chiaramente e quale mantenere in sottofondo, in barba a ogni convenzione.

All'uscita dal commissariato, Hashem è atteso dalla sua compagna Taji (Taji Ahmadi). Lei vorrebbe tanto passare la notte insieme, lui invece lascerebbe lei e la bambina da soli. Discutono sul loro rapporto di coppia; infine prendono un taxi. L'autore si concentra sui luoghi esterni attraversati dai personaggi; questi ultimi sono spesso fuori inquadratura o ai margini della stessa.

Il tassista fa la predica a Hashem, non sapendo che è un collega


Giungono infine a casa di lui, dove passeranno la notte. A tali momenti il film dedica ben trentadue minuti - girati in cinque settimane di riprese - seguendo il passo della vita attimo dopo attimo, momenti morti compresi. Taji si rivela molto affettuosa con la bambina, mentre Hashem è decisamente più distaccato, più preoccupato degli sguardi dei vicini che dei suoi ospiti. Taji vuole tenere la luce accesa; trascina Hashem verso di sé e, fuori campo, fanno l'amore. Mentre diventa mattino, la coppia ragiona sul proprio futuro. Per Taji potrebbero convivere e accudire insieme la bambina che li ha uniti, ma Hashem è contrario. I toni cambiano, Taji ha uno scatto d'ira e alla fine Hashem è molto più conciliante, le concede di restare nell'appartamento per tutto il giorno, mentre egli esce con la bambina, va all'orfanotrofio e attende il suo turno.

All'istituto, Hashem assiste al lamento straziante di una donna stigmatizzata dalla comunità poiché non riesce ad avere figli, e che si imbottisce la pancia di vecchi stracci per simulare la gravidanza. All'uomo viene invece chiesto di recarsi in tribunale per far attestare che la bambina non ha identità, prima di riportarla all'orfanotrofio.

Nel tribunale, sito in un edificio la cui facciata è ricca di statue in rilievo che Golestan immortala con rapidi stacchi di montaggio, Hashem chiede a un uomo in giacca e cravatta di aiutarlo a scrivere una lettera al giudice, poiché egli è semi-analfabeta. Nell'apice dell'assurdo kafkiano del film, l'interlocutore anziché assisterlo gli fa l'ennesima predica, oltre a chiedergli di continuo sigarette e fiammiferi.

Stacco in controtempo. Taji è a casa, Hashem fa ritorno, ancora preoccupato di non essere visto dai vicini. Dov'è la bambina? Non lo sapremo più. Mentre i due escono, Hashem dice di averla lasciata all'orfanotrofio. Cessato il rumore provocato da un gruppo di fabbri che lavorano in strada e da un corteo funebre, Taji ribadisce che sognava di tenere la piccola e accusa Hashem di non essere sufficientemente adulto. Gli chiede di accompagnarla in macchina all'istituto. Nel taxi si rinfacciano i rispettivi tradimenti. 

Giunti all'orfanotrofio, entra solo Taji. Si ritrova al cospetto di bambini felici che giocano insieme; ha l'istinto di andare verso di loro, poi si trattiene e cambia espressione. Raggiunge le culle dei neonati, cui il regista dedica tanti primi piani. Qualcuno sorride e saltella come fosse pronto a evadere dalle sbarre del letto, altri piangono; le infermiere fanno iniezioni e flebo. Lo spaccato, in stile documentaristico, rimanda inevitabilmente a "La casa è nera". La sequenza si conclude con Taji che appoggia sconsolata la schiena alla parete di un corridoio, mentre la macchina da presa si allontana da lei con una carrellata all'indietro. 

Hashem bighellona all'esterno. Quando si ferma davanti alla vetrina di un negozio di televisori, è in onda una trasmissione in cui lo stesso uomo che non gli aveva prestato aiuto in tribunale propugna ipocritamente l'empatia e la collaborazione tra le persone, come unica via per costruire una società prospera: Come disse il sommo poeta: A te, che per l'altrui sciagura non provi dolore, non può essere dato nome di Uomo. Infine Hashem torna al taxi. Sul sedile del passeggero trova la borsetta di Taji e la apre. Dentro c'è il biberon, che egli lascia sul sedile insieme alla borsa. Si avvia poi nel traffico tra le luci tenui del giorno, mentre un'altra donna con qualcosa in braccio è salita sul taxi davanti al suo.



Creando un'atmosfera tesa e claustrofobica, "Mattone e specchio" riflette sull'esistenza umana come le migliori opere artistiche mondiali coeve. Per tutto il film si ha la sensazione di una grande diffidenza reciproca, mentre la modernizzazione di un paese millenario lascia macerie fisiche (il rudere a inizio film) e morali e diseguaglianze socio-culturali. ll protagonista è costretto a un moto frenetico per risolvere il problema imprevisto. Le foto dei muscoli da body builder che ha appeso in casa e gli esercizi ginnici palesano la sua forza, ma le macchie sulla pelle sembrano smascherarne la debolezza, che comunque è emersa con la comparsa della bambina, palesando la sua immaturità e l'incertezza verso il futuro del tormentato rapporto di coppia, che non vuole rendere pubblico (e che potrebbe rimandare alla difficile relazione tra Golestan e Farrokhzad). Hashem è forte in mezzo alla folla, debole nel confronto a due, inascoltato dalle istituzioni. Ma tra i due è Taji la persona realmente determinata, una sognatrice che non vuole abdicare alla disillusione e che vive la relazione amorosa in maniera totalizzante. Li circondano personaggi che sembrano avere la propria verità individuale in tasca, da imporre agli altri ma senza riuscire a comunicare e senza coerenza nei propri comportamenti.

Probabile primo film iraniano con l'audio in presa diretta, "Mattone e specchio" rivela al paese che il cinema può essere anche cultura e non solo intrattenimento, pur raccogliendo inizialmente recensioni contrastate e poche occasioni di proiezioni pubbliche. Di importanza inarrivabile e indiscussa, non mi pare possa però vantare molte opere ad esso direttamente ispirate. Ci vorrà il nipote del regista, Mani Haghihi, per un omaggio esplicito in "A Dragon Arrives!" (2016), i cui protagonisti inseguono le tracce del tecnico del suono del suono di "Mattone e specchio", scomparso. Ebrahim Golestan invece realizzerà un solo altro lungometraggio di fiction, presto chiuderà lo studio, forse per problemi con la censura del regime monarchico, e lascerà il paese per trasferirsi in Inghilterra.


*Sulla stessa piattaforma è presente il cortometraggio del regista "Le colline di Marlik"






































 















 













sabato 27 febbraio 2021

Baran (Majid Majidi, 2001)




A fine 2019, per il sondaggio sui migliori film del decennio ho contattato, tra gli altri, la professoressa Natalia Tornesello, autrice del volume "Il cinema persiano". La docente, dopo avermi fornito la lista, mi ha scritto di sua iniziativa: Tra i film visti negli anni precedenti mi sono rimasti nel cuore e nella mente due veri capolavori. Si tratta di "Bashu, il piccolo straniero" (1989) diretto da Bahram BeizaiBaran (2001) diretto da Majid Majidi

A uno dei capisaldi indiscussi della cinematografia nazionale, la professoressa affianca dunque l'opera di un regista popolare - più all'estero che in Italia - e pluripremiato, ma non così vezzeggiato dalla critica.

Majid Majidi nasce a Teheran nel 1959. Dopo un apprendistato presso il Circolo artistico per l'organizzazione della propaganda islamica, dove fa anche l'attore e ha modo di collaborare ai film giovanili di Mohsen Makhmalbaf,  passa alla storia per essere stato il primo regista iraniano a raggiungere la shortlist degli Oscar per il miglior film straniero con "I bambini del cielo" (1997), ultimo successo internazionale del mitico istituto pedagogico Kanun. Manterrà sempre, anche nel recente "Sun Children", di nuovo in corsa per gli Oscar, una chiara etica religiosa, caratterizzata dall'attenzione per i drammi degli umili, spesso bambini o adolescenti. Assumerà inoltre posizioni alquanto istituzionali, tanto da essere chiamato a dirigere un kolossal su Maometto.

Con "Baran" (2001), Majidi affronta i temi del caporalato e dell'immigrazione. Una didascalia in apertura annuncia in particolare il dramma dell'Afghanistan, che dice essere cominciato con l'invasione sovietica del 1979, proseguito con il duro regime dei talebani e con la siccità. Attualmente - conclude la didascalia - l'Iran ospita 1,5 milioni di profughi. Il tema non è insolito nel cinema iraniano, essendo affrontato più volte dalla famiglia Makhmalbaf e, l'anno prima del film di Majidi, da "Djomeh" di Hassan Yektapanah


Il cantiere multietnico di Teheran in cui è ambientato il film è diretto dal caporale Memar con piglio paternalistico. L'uomo ha toni burberi, paga discrezionalmente e in ritardo le maestranze, ma è capace anche di slanci di generosità. Il protagonista Latif è invece un ragazzo azero iraniano diciassettenne, sveglio e furbo, che svolge lavori scarsamente impegnativi, come fare la spesa o preparare il tè per gli operai. Gli piace scherzare, facendo anche arrabbiare i colleghi, e lo fa perfino quando l'afgano Najaf ha un incidente che gli costa la frattura a un piede e l'impossibilità di continuare a lavorare. Al posto dell'infortunato arriva quello che viene presentato come suo figlio, di nome Rahmat. Sembra un ragazzo gracile; non parla, il suo accompagnatore Soltan risponde alle domande per lui. Giunge anche un'ispezione, con l'intento di capire quanti afgani irregolari lavorino nel cantiere.

Latif insegna al nuovo arrivato a portare sulla schiena i sacchi di calce, ma uno di questi è troppo pesante e il lavoratore  lo rovescia, "imbiancando" un collega. Ne segue un parapiglia, cui Memar mette fine affidando a Rahmat le mansioni di Latif, spostato a fare il manovale. Quest'ultimo si vendica in vari modi con Soltan e Rahmat, che dal canto suo risistema e abbellisce il vano adibito a cucina - separato dal resto del cantiere da una tenda - mentre gli operai si godono l'ottima qualità del tè e del cibo.


Ad un tratto, mentre il separé è mosso dal vento, Latif intravede, specchiata, l'ombra di Rahmat che si pettina i lunghi capelli e capisce che si tratta di una ragazza. L'impossibilità, dovuta alle regole censorie, di mostrare il capo femminile scoperto produce così una delle sequenze più poetiche e memorabili del cinema iraniano tutto.

La prima svolta è giunta a un terzo del film. Latif inizia a essere gentile con la ragazza, si veste a festa, la spia felice, sorridente, con la testa tra le nuvole. Tuttavia, se prima tutti la trattavano bene, ora qualcuno le è ostile. Con questo schematismo ingiustificato di sceneggiatura, il regista porta a compimento la metamorfosi di Latif, che può ergersi a difensore dell'amata.

L'incanto però non dura molto: la ragazza viene catturata dagli ispettori fuori dal cantiere, nonostante i tentativi di Latif di impedirne l'arresto (la sua corsa al ralenti rimanda al finale de "I bambini del cielo"). Per evitare ulteriori problemi, il caporale riscatta i detenuti, ma decide di licenziare tutti gli afgani. Con la seconda svolta nel racconto, inizia l'andirivieni di Latif, che cerca in tutti i modi di portare soldi alla famiglia della ragazza, come pretesto per rivederla, rimediandoli in modi disparati e consegnandoli adducendo pretesti vari. Quando vende il proprio documento, l'acquirente strappa vistosamente la fototessera, a simboleggiare come il giovane sia disposto a rinunciare a tutto, anche alla sua identità.


Latif e la ragazza qualche volta si intravedono unilateralmente. Egli la scorge mentre lei serve cibo nel campo profughi e quando lavora raccogliendo massi dal fiume, dove cade e sbatte la schiena, mentre Latif non cede all'impulso di intervenire in soccorso. Origliando dietro alla porta di casa sua, scopre che si chiama Baran. Ed è proprio sulla soglia che finalmente i loro occhi si incrociano, mentre la giovane è avvolta nel chador e si schermisce chiudendo la porta. Tutto il film, a ben vedere, è un emozionante gioco voyeristico di sguardi, unidirezionali o incrociati, obliqui e attraverso gli usci.

L'inseguimento del povero Latif si conclude con la partenza di Baran per l'Afghanistan. Egli le dà una mano a caricare il camion con gli oggetti che le sono caduti; la ragazza gli concede finalmente un sorriso, perde una scarpa, Latif la aiuta a indossarla. Baran, che fino ad ora si è coperta solo il capo, cala sul volto il burqa, indumento tipico afgano, e si avvia. Latif sorride. Simbolicamente la pioggia - che in persiano si dice "baran" - cancella l'orma della ragazza e così si completa un finale splendido e indimenticabile.

La linda bellezza di una regia per altri versi ordinaria eleva una sceneggiatura che può apparire forzata nella prima, decisiva svolta. È sufficiente la presenza di una ragazza - che per altro non profferisce una sola parola per tutto il film (e questo sicuramente accresce il suo fascino misterioso) - perché il protagonista si innamori perdutamente, oltre a mettere la testa a posto e a scoprire il proprio lato romantico? Lo storico del cinema iraniano Hamid Naficy solleva il tema dell'ambiguità sessuale - che potrebbe essere la risposta a questa domanda retorica -, notando tra l'altro che "Latif" significa "delicato" o "bello". Il ragazzo sarebbe attratto irresistibilmente dall'aspetto androgino di Rahmat/Baran.

Wikipedia francese rileva inoltre diversi riferimenti alle tradizioni letterarie e mistiche persiane.
Ma, al di là dei vari livelli di lettura, "Baran" resta una delle opere più toccanti del regista, impreziosita dalle due sequenze da antologia di cui dicevamo.

Uscito al cinema doppiato in italiano, poi in dvd, per anni è sparito dai radar. Ora, ogni tanto, viene trasmesso da TV2000.

Curiosità: ho trovato una foto recente di Zahra Bahrami, la donna che interpreta Baran (gli attori del film sono tutti non professionisti).






















domenica 7 febbraio 2021

Fish & Cat (Shahram Mokri, 2013)



Classe 1978, laurea in cinema con specializzazione in regia alla Soore University di Teheran, Sharham Mokri è un autentico outsider della settima arte iraniana, di cui sta rinnovando la tradizione prerivoluzionaria rappresentata da un cinema di genere ma al contempo d'autore, il cui principale esponente è Masud Kimiai. Non a caso il rinomato "The Deer" del 1974 è omaggiato nell'ultima opera di Mokri, "Careless Crime".

È con il suo secondo lungometraggio, Fish & Cat (Mahi va gorbeh), che nel 2013 Mokri si affaccia alla ribalta internazionale, tornando da Venezia Orizzonti con il Premio speciale dopo aver stupito la platea, che non si aspetta un lavoro così insolito e geniale. Innanzi tutto si tratta di un horror (slasher), un genere che nel panorama persiano non è raro: è rarissimo. Curiosamente, negli anni successivi vi ci sono cimentati diversi registi iraniani, ma in produzioni estere (qui un esempio).

Ma ciò che lascia positivamente sbalorditi è la struttura del film: un'unica ripresa di 134 minuti, con incedere a passo d'uomo, che annulla ogni coerenza temporale mostrando le medesime scene più volte da diverse angolazioni, come se fossero successive a se stesse. Come in un'opera di Esher, dichiarata fonte di ispirazione del regista - anche sceneggiatore -, che ripeterà il prodigio tecnico e teorico con meno originalità nel successivo "Invasion".

Con la collaborazione di Mahmoud Kalari, uno dei più grandi e versatili direttori della fotografia iraniani, e del resto della troupe, Mokri ha provato con gli attori per un mese il suo perfetto meccanismo geometrico non euclideo, filmato nelle regioni del nord del paese, in riva al Caspio.

Le didascalie iniziali annunciano che si tratta di una storia vera, accaduta nel 1998. Dopo la scomparsa di alcuni studenti nella zona, un ristorante è stato chiuso per "violazione del codice sanitario" e i gestori arrestati con l'accusa di servire carne non commestibile, probabilmente umana. In questo modo l'incipit anticipa l'orrore, cui non assisteremo mai coi nostri occhi (magari anche per comprensibili ragioni di autocensura che, come spesso accade, contribuiscono al fascino della pellicola), ma di cui saremo sempre allertati. Al contempo, lo spoiler toglie mistero e ci consente di concentrarci anche su altri aspetti dell'opera.

Di certo, ci accorgiamo da subito di quanto siano inquietanti e minacciosi i due ristoratori interpretati da Babak Karimi e Saeed Ebrahimifar. Il film si chiama "Pesce e gatto" - dal nome dei due aquiloni della vittima e dal testo del brano che una band suona nel finale - tuttavia i due personaggi mi hanno ricordato iconograficamente il Gatto e la Volpe di alcuni adattamenti cinematografici di "Pinocchio". 

Ma procediamo in ordine cronologico (almeno nella recensione!). Un ragazzo scende dall'automobile con cui, assieme ai suoi amici, sta andando a un'esibizione di aquiloni sul lago. Si avvicina al ristorante, che esala un puzzo di carne rancida, per ottenere indicazioni stradali da Babak. Questi, piuttosto che rispondere puntualmente, gli chiede i documenti e fa una sorta di interrogatorio. Quindi, a parte, conviene con il socio che sia più prudente lasciare andare i giovani. I due ristoratori si addentrano nell'adiacente foresta, l'uno con un sacchetto contenente carne sanguinolenta, l'altro con una tanica in cerca di benzina.

Tra il bosco e il campeggio dei ragazzi in riva al lago si produce il loop temporale per cui assistiamo, più volte: alle discussioni tra i due soci sulle torbide vicende del collaboratore Hamid; alla vicenda del padre di Kambiz, tuttora ossessionato dal suo amore di gioventù; al censimento degli aquiloni, con Parviz che non trova la lampada per illuminare il suo, mentre invece Parvaneh ha perso i sui compact disc. Ci imbattiamo in due misteriosi gemelli vestiti uguali, uno privo del braccio destro, l'altro del sinistro, e in altri personaggi con strane storie da raccontare. Seguiamo il confronto tra i ristoratori e la guardia Asadi su una perdita d'acqua che allaga il locale e sulle trappole disseminate un po' ovunque. Ci spaventiamo quando una ragazza segue Babak nella foresta, e per le calzature che spuntano seminascoste dalle foglie.




Nel tortuoso, ciclico ripetersi con variazioni della trama, la cinepresa talvolta abbandona un personaggio per seguirne un altro, anche in lunghe camminate che corrispondono a cali drammatici talvolta un po' lunghi ed estenuanti, che preludono però a una nuova crescita della tensione. Il commento musicale di Christophe Rezai, a prevalente base di archi, ha la stessa funzione ed è piuttosto convenzionale, ma molto efficaci sono le sovrapposizioni sonore, ad esempio con la "Sonata al chiaro di luna" di Beethoven o "50mila" di Nina Zilli. Il sound design è a cura di Parviz Abnar.

Dalla situazione di stallo, determinata dal cortocircuito temporale, si esce solo negli ultimi minuti grazie alla comparsa di due nuovi personaggi, Hamid e Maral. Rispettivamente, il carnefice e la vittima. Si approda così al magnifico finale con Maral che racconta in voice over e al passato la propria morte, mentre una band suona dal vivo la "title track" e gli aquiloni aleggiano sopra lo specchio d'acqua.

Possiamo speculare liberamente sul fatto che i vari frammenti di racconto siano prodotti dell'inconscio, elucubrazioni mentali dei personaggi. Questi ultimi però appaiono per lo più come pedine al servizio di progetto d'insieme, senza spessore psicologico, se non nel toccante incontro tra Parviz e la sua vecchia fiamma che ora vive a Lione, è sposata ed è incinta; egli è al corrente delle novità perché la segue in incognito su Facebook (che in Iran è bloccato, ma raggiungibile tramite una VPN).




Per una analisi esaustiva sulle acrobazie intellettuali del film rimando al blog di Mohammad Vahdani, in persiano ma ben comprensibile anche in traduzione automatica. Mi sento invece anch'io di escludere, con Antonello Sacchetti, una lettura dell'opera come metafora politica delle difficoltà dei giovani iraniani.

Amato ovunque dai cinefili più curiosi, "Fish & Cat" mi risulta essere stato distribuito in patria senza tagli (del resto eliminare qualche scena avrebbe significato snaturarlo, essendo privo di montaggio) ed è celebrato come un  esempio di cinema nazionale giovanile cui guardare per emanciparsi da vecchi modelli. Infine, è stato meritatamente votato nel nostro sondaggione come uno dei migliori film iraniani del decennio passato.








mercoledì 6 gennaio 2021

Botox (Kaveh Mazaheri, 2020)


Dopo l'Orso d'oro a Berlino ottenuto da "There Is no Evil" di Mohammad Rasoulof , in un anno ricco di soddisfazioni per il cinema iraniano sono giunti anche i riconoscimenti di Miglior film e Miglior sceneggiatura al Torino Film Festival per "Botox" di Kaveh Mazaheri. Il regista è al debutto nel lungometraggio di fiction, dopo una robusta gavetta contrassegnata da cortometraggi e documentari, spesso con donne protagoniste.

A suggerire all'autore il soggetto di "Botox" sono stati alcuni elementi reali: una persona di sua conoscenza che ha ispirato il personaggio di Akram, l'enorme lago salato (e non ghiacciato, come potrebbe sembrare) di  Hoz-e Soltan, la scoperta che molte donne iraniane coltivano funghi allucinogeni. Con perizia, Mazaheri ha messo insieme tali elementi per costruire un'opera che non si può incasellare non solo in un genere specifico, ma neanche all'interno della dicotomia commedia-dramma, né attribuirle una messa in scena realistica o surreale-onirica. Pure gli accostamenti a modelli stranieri appaiono forzati, né il cinema persiano ha prodotto opere simili, anche se a volte si ritrovano altrove analoghi riferimenti, ad esempio, al diffuso ricorso alla chirurgia estetica, all'emigrazione all'estero, alla rivalsa femminile verso una società patriarcale. 

Il film si apre con Akram, una donna con evidenti problemi mentali, che guarda come ipnotizzata un episodio di "Willy il Coyote e Beep Beep". Presto conosciamo gli altri protagonisti: sua sorella Azam e suo fratello Emad. La prima caldeggia la piantagione di funghi, con l'aiuto di un ingegnere con cui ha una relazione molto amichevole (forse la censura impedisce al regista di esplicitarla come amorosa). Il secondo vorrebbe emigrare in Germania; possiede anche un'auto con targa tedesca. Quando, sul tetto innevato dell'abitazione, Emad prende in giro Akram, questa lo fa ruzzolare giù con un calcio e lo riduce in fin di vita. La sequenza, che giunge dopo circa 21 minuti, oltre a segnare la svolta nella trama, è una delle migliori del film: una long-take di 4 minuti con inquadratura fissa e frontale, in cui risalta il taglio obliquo dell'immagine creato dal tetto spiovente.




Come era inerte con suo marito moribondo la protagonista del cortometraggio "Retouch" (2017) dello stesso autore, così Azam non fa nulla per salvare suo fratello. Peggio: si premura di soffocarlo per dargli il colpo di grazia. Lo fa in cucina, in un'altra splendida inquadratura frontale in cui Akram, nella stanza adiacente, si massaggia i piedi, affaticati per aver trascinato il corpo, mentre la macchina da presa filma dal corridoio, con la parete a creare un effetto split screen.
Per quanto riguarda invece l'occultamento del cadavere, lo stesso Emad aveva segnalato il lago salato come luogo in cui, ai tempi dello scià, la polizia politica faceva sparire i dissidenti, poiché sovrasta una palude.

È solo dopo 42 minuti che conosciamo l'attività principale di Azam: lavora in un centro estetico. Qui scopriamo anche, per bocca di Akram, che quest'ultima ha 11 anni in più di sua sorella.
Nel frattempo, la minore giustifica più volte la sparizione di Emad derubricandola a caso di emigrazione clandestina, mentre è sempre più palese che Akram non si è resa conto di quanto accaduto, nonostante abbia avuto parte attiva. Finché un giorno, al bazar, non immagina di essere a Berlino, in una sequenza in cui lo stile del film muta; la macchina da presa, mobile, e il montaggio restituiscono un senso di onirico, o meglio di allucinatorio. È solo il prodromo alla ricomparsa di Emad, con cui il film si chiude.

Abbiamo assistito per tutto il tempo ai deliri di Akram? I funghi hanno agito su tutti i personaggi (e... sullo spettatore)? O forse il registro non era realistico come appariva, e un uomo morto ha potuto ridestarsi come Willy il Coyote si schianta e si rialza senza colpo ferire? Non mancano certo gli elementi metaforici, in un film che sin dal titolo opta per un simbolo di manipolazione della realtà e del tempo che passa. Come spiega il registanel processo di iniezione del botox, succede di fatto qualcosa che dà alla persona l’illusione di essere giovane. Infatti uccidendo e paralizzando temporaneamente alcuni muscoli, puoi raggiungere il tuo sogno. 

Immerso in suggestivi paesaggi bianchi e lividi, "Botox" è un film che spiazza, anche se a volte sembra farlo in modo troppo freddo, calcolato. Quasi insostenibile è il cinismo coi cui Azar commette un omicidio - ben oltre l'omissione di soccorso: inizialmente si preoccupa solo dello stendino su cui Emad cade, trascina poi il corpo senza spaventarsi per le telefonate che riceve e per il suono del campanello della porta d'ingresso, conclude l'uccisione con tutte le sue forze, infine occulta la salma.
Se Akram, a modo suo, pensa sempre a Emad - dice di averlo visto, nota il suo cappello sul capo della sorella, pronuncia "ti amo" in tedesco, chiede quali regali porterà al suo ritorno - Azar non ha il minimo ripensamento, non un rimorso, mai il dispiacere per il fratello morto; solo un pianto nervoso, alcuni giorni dopo il delitto, di ritorno dal lago: il montaggio però stacca molto presto, per non darci la possibilità di sapere quanto la contrizione sia durevole e profonda, né se è dovuta al dolore per la perdita di una persona cara, o al senso di colpa, o alla situazione stressante. Questa mancanza di spiegazioni, specie sull'origine di tanta cattiveria verso un parente stretto (ucciso solo perché contrario a investire soldi nella piantagione?), se è giustificata in un cortometraggio, può apparire invece gratuita in un'opera drammaturgicamente complessa.



Sempre sul piano dello svolgimento narrativo, il film sconta un alcune ripetizioni un po' meccaniche, se è vero che diverse sequenze si concludono o con una reazione manesca di Akram - come se la confusione mentale, anche per quanto successo, la mandasse in un cortocircuito, che sfocia poi in violenza - o con un rimprovero di Azar alla sorella, la quale, col suo ritardo mentale e il suo candore da bambina, rischia di far scoprire l'inganno.

Certo è però che siamo al cospetto di un regista esordiente di assoluto talento e grande consapevolezza: seguiremo senza indugio Kaveh Mazaheri nei suoi cimenti futuri. Merita infine una standing ovation Sussan Parvar, attrice comica che qui interpreta magistralmente un personaggio delicato e non solo buffo - anzi - come quello di Akram.







domenica 6 dicembre 2020

Golnar (Kambuzia Partovi, 1988)

Post in memoria di Kambuzia Partovi, personalità versatile e amata del cinema iraniano, che ci ha lasciati prematuramente lo scorso 24 novembre. Era ricoverato per problemi cardiaci ed ha contratto il COVID-19.
Attivo anche nel teatro, Partovi ha diretto importanti film come "Border Cafè" (2005) e documentari televisivi. Da sceneggiatore, ha firmato tra gli altri il "Maometto" di Majidi, il celebre "I'm Taraneh, 15" di Rasul Sadrameli e "Come pietra paziente" di Atiq Rahimi.


Come autore di film per l'infanzia, realizzati a inizio carriera, Partovi è stato uno dei più influenti. Tra questi figura "Golnar", sua opera prima; una delicata fiaba con attori in carne ossa e pupazzi zoomorfi.
Il titolo è il nome di battesimo della protagonista, una fanciulla di campagna che vive coi nonni. Un giorno il vento le porta via il fazzoletto azzurro che era di sua madre. La giovane si perde nella foresta, finché non trova riparo in un casolare di legno abitato da una coppia di orsi. Mentre Signor Orso la costringe a lavorare, con Signora Orsa nasce un certo affetto. Intanto una simpatica rana ficcanaso dispensa consigli e aiuta Golnar a fuggire. Dopo aver cucinato, tagliato i tronchi degli alberi, essersi ammalata, ricordato con nostalgia momenti di vita del villaggio, la bambina infatti si nasconde in una cesta portata in spalla da Signor Orso. Intanto il fazzoletto, trasportato da un ruscello, viene ritrovato dai nonni, che stavano perdendo la speranza di rivederla. È il preludio al ritorno a casa.

Con canzoni dalle melodie gradevoli e una fattura tecnica di lampante semplicità - dovuta forse a una certa povertà di mezzi - che però ispira simpatia, "Golnar" è un'opera che, a differenza di altri lavori della cinematografia nazionale di diversa produzione, non usa i pargoli per parlare agli adulti dei problemi sociali, ma si rivolge esclusivamente ai più piccoli, incantandoli.




Dal backstage del film, Jafar Panahi  ha realizzato la propria tesi di laurea in cinema. Sono così iniziate una lunga amicizia e una collaborazione culminata con "Closed Curtain" (2013, diretto e interpretato da entrambi), transitata per "The Fish" (1988-1991, regia di Kambuzia con l'assistenza di Jafar) e per il successo internazionale de "Il cerchio" (2000, regia di Panahi, sceneggiatura di Partovi da un soggetto dell'amico).


"Golnar" è disponibile su IMVBOX con sottotitoli.


giovedì 5 novembre 2020

Colossi statunitensi del web contro un canale di film iraniani per l'America Latina


La segnalazione ci arriva da Nicola Pezzella, follower di Cinema Iraniano nonché autore di alcune recensioni del blog, e residente in Messico: a fine settembre Twitter ha sospeso, per la seconda volta, l'account di Hispan TV, il mezzo di informazione iraniano che trasmette, tra l'altro, una miriade di film doppiati in spagnolo castigliano, venezuelano e messicano. Una rete decisamente istituzionale, che non a caso trasmette dal Venezuela, paese alleato della Repubblica Islamica. 

Le dirette di Hispan TV su Youtube sono visibili in tutto il mondo, ma anche questa piattaforma - spiega sempre Nicola - aveva più volte sospeso il canale. Il pretesto principale è stata la violazione dei diritti d'autore: una scusa che non sta in piedi perché si tratta di contenuti propri, compresi i film prodotti direttamente da studios di proprietà statale iraniana. Film alquanto allineati, ma talvolta di qualità e importanza spprezzabili. La televisione ha aperto un nuovo canale chiamato HTV, ma ad ogni soppressione spariscono i contenuti, e ricaricare centinaia di documentari, film e altri video richiede molto tempo.

Twitter invece ha sospeso l'account, minacciando di fare lo stesso con eventuali account futuri, con un'altra motivazione principale, invero anch'essa già utilizzata da Youtube: Hispan TV trasmetterebbe informazioni non veritiere. Fake news, diffuse in particolare col notiziario.

Anche Facebook e Google - rivela la venezuelana Telesur - hanno messo nel mirino Hispan TV, il cui direttore Ali Ejarehdar ha buon gioco nell'affermare che le società tecnologiche statunitensi agiscono in conformità con le politiche "ostili" del governo di Washington.

Insomma, ancora una volta il cinema iraniano si ritrova al centro di dispute geopolitiche, in compagnia di  altri mass media.

mercoledì 14 ottobre 2020

Le nuove tendenze del cinema iraniano

Mio intervento al simposio "PASSAGGIO A EST tra Oriente e Occidente" organizzato da Associazione Culturale inAsia e Tenstar Community, Verona 1 ottobre 2020. 

Con contributi di Samì Gharib e Abbas Gharib, che racconta un gustoso aneddoto su Jafar Panahi.






venerdì 18 settembre 2020

Una introduzione. Farhadi per il pubblico italiano

La parola a Khorshid Shekarie Aureh, studentessa dell'istituto Gobetti Volta di Bagno a Ripoli (FI). Khorshid ha raccontato la storia del cinema persiano ai suoi compagni di scuola, soffermandosi in particolare su Asghar Farhadi, di cui ha svelato alcuni interessanti aspetti culturali di non facile comprensione per gli spettatori italiani, giovani e meno giovani. Quello che segue è un breve resoconto delle sue presentazioni.


About Elly


Ho cominciato dalla collocazione geografica dell'Iran, facendo poi una carrellata sulla storia del cinema persiano dal 1962, quando con “La casa è nera” Forough Farrokhzad ha dato in qualche modo inizio alla Nuovelle Vague, facendo un cinema diverso dal commerciale filmfarsi. Ho scritto sulla lavagna i nomi dei registi (ad esempio Golestan e Mehrjui) divisi per epoca, poi ho parlato dei cambiamenti che ci sono stati con la Rivoluzione, dal vestiario alle trame, dai temi agli interessi dei registi. Credo che i film d'autore non siano più una forma di svago per il pubblico. Ci sono stati mutamenti sottili che hanno permesso di veicolare un messaggio diverso. Ho citato in particolare la famiglia Makhmalbaf, poi Panahi - soprattutto “Taxi Teheran” che era un film abbastanza conosciuto e che ha suscitato domande dalla classe. Poi ho parlato di Ghobadi e infine mi sono concentrata su Farhadi, affrontando “About Elly”, “Una separazione” e “Il cliente”.

Di “Una separazione” ho proiettato alcune scene, mentre di “About Elly” e “Il cliente” ho mostrato solo il trailer, perché non avevo delle copie sottotitolate in italiano e sarebbe stato troppo scomodo tradurre a voce sul momento. Dopo i trailer ho raccolto un giro di domande: i ragazzi erano stupiti del fatto che in Iran esistessero il cinema e i film! Ma anche se ne fossero stati al corrente, quello di Farhadi è comunque un cinema pieno di dettagli della cultura iraniana che portano il pubblico italiano a farsi delle domande. 

Farhadi mette al centro la società iraniana. Come però ha egli stesso evidenziato nelle conferenze, parte dall'individuo, dalla coppia e dal nucleo familiare, per poi espandersi a tutta la società. I personaggi sono neutri, non possiamo identificare degli antagonisti, dei buoni e dei cattivi: il regista lascia tanti punti interrogativi per il pubblico.

Facciamo degli esempi. In “Una separazione”, le dinamiche tra Nader e Simin (i protagonisti) e tra Razieh e Hojjat (la badante e suo marito) sono diverse. Anche perché appartengono a ceti sociali differenti (mentre i personaggi di "About Elly" sono omogenei). Ma anche lo stesso Hojjat, apparentemente “cattivo”, irascibile, ha tantissimi lati umani, pur provando rancore quando scopre che la moglie va a lavorare a casa di un uomo che non è della sua famiglia. Un namahram, si dice in persiano. Non possiamo dire che questo personaggio abbia torto o ragione, Farhadi ne fa vedere il lato umano.

Ho fatto vedere la scena in cui Razieh chiama il mullah per chiedere se può curare il padre di Nader. Durante la proiezione, in molti non hanno capito di cosa si trattasse. Mi sono soffermata sul concetto di namahram, spiegando quali sono le persone che possono avere un contatto diretto - in questo caso i familiari della donna e i fratelli del marito. Nessun altro uomo può entrare in contatto con lei: il fatto è che doveva lavare l'anziano e cambiargli il pannolone. Essendo l'uomo vecchio e malato, non le è stato proibito. Il fatto che poi, al termine della sequenza, la figlia di Razieh aggiunga spontaneamente “non lo dico a papà”, secondo me dipende dal fatto che le due appartengono a una famiglia religiosa di ceto medio-basso della capitale. Molte cose che Razieh dice nel corso del film non posso essere totalmente capite, forse, dal pubblico italiano o occidentale. Ad esempio quando Nader la accusa di aver rubato del denaro da un cassetto, il modo in cui lei reagisce è tipico di una persona molto devota. Ho notato che nella traduzione italiana non sono riportate tutte le personalità religiose su cui lei giura, ma in ogni caso l'elenco è molto significativo. Inoltre, in diverse scene del film giurano sul Corano. È una cosa abbastanza comune in Iran, ma comunque ha il suo peso; quando si giura sul Libro Sacro bisogna essere molto sicuri. Questo la dice lunga sulla fede di questa famiglia, ma forse chi non conosce bene la realtà iraniana non coglie appieno la drammatica serietà di tali giuramenti.

Altrettanto interessante è la prima scena, in cui il regista inquadra i volti di Nader e Simin senza far vedere il giudice. Secondo me significa che aveva l'intenzione di concentrarsi sui personaggi e sulla coppia, mostrando le loro emozioni insieme, non prima dell'uno poi dell'altra, o viceversa. Credo però che il concetto di separazione assuma connotati più generali, al di là della storia della coppia principale. Anzi è proprio questo il tema centrale. Il film parla di separazioni tra le classi sociali, del conflitto che si produce tra Razieh e Hojjat; di varie separazioni che si stanno consumando a livello sociale all'interno del paese, sia tra persone religiose che non credenti.

Una separazione

Ne “Il cliente” è interessante l'inserimento del teatro – i protagonisti Emad e Rana sono entrambi attori - perché contribuisce alla sceneggiatura del film. Emad è una persona che recita anche giù dal palco. Infatti ha inizialmente un tono sostenuto, ma si spoglia di questa maschera al cospetto di una situazione grave e inaspettata che lo manda in collera.

Quando Emad rifiuta di mangiare il cibo comprato coi soldi del presunto stupratore, magari lo spettatore italiano può pensare che sia per una questione religiosa, ma non è del tutto vero. Infatti in Iran c'è molto la cultura dei “soldi puliti” e dei “soldi sporchi”, e questo si vede chiaramente anche  dal modo in cui le persone parlano. Per una persona che vuole guadagnare soldi per raggiungere onestamente un livello di vita appagante, la parola che si usa è nan-e halal, cioè pane halal, lecito. Il concetto di nan-e halal non ha solo a che vedere con il cibo: quando qualcuno dice di voler arrivare ad avere nan-e halal, significa che vuole conseguire uno status sociale rispettabile, che vuole arrivare a guadagnare denaro pulito.
Questo aspetto si può in qualche modo notare anche in “Una separazione”, quando la famiglia di Nader va a casa di Razieh per convincerla ad accettare il risarcimento. Nell'audio originale, Razieh usa il termine pul-e haram, con cui si intende il guadagnare soldi con un lavoro “sporco”. Ma in questo caso Razieh usa tale espressione per riferirsi alla sua menzogna rispetto all'aborto. Qui il concetto è più legato alla religione, a qualcosa di cattivo che potrebbe succedere se lei accettasse quei soldi. Spesso tradizione e religione si intrecciano e non è facile capire l'origine dei comportamenti; anche un iraniano non musulmano, o un musulmano non praticante, può avere degli atteggiamenti tipici, uguali a quelli di un connazionale musulmano osservante. È ovvio che questo non accade sempre, però alcuni aspetti della religione si sono talmente integrati nella cultura che non si riesce più a distinguerli. 

Farhadi e Shahab Hosseini sul set de Il cliente


Tornando invece a “About Elly”, una cosa che i miei compagni di scuola non hanno ben compreso è l'atteggiamento di Sepideh nei confronti del personaggio tornato dalla Germania, interpretato da Shahab Hosseini. Mi hanno chiesto: perché è così importante presentare le ragazze ai ragazzi? Ho notato che in Italia queste presentazioni formali non si usano più, mentre restano attuali in Iran; sono legate alla cultura tradizionale e non alla religione. Forse dipende dal fatto che gli uomini non si sentono ancora molto sicuri nelle relazioni amorose. È una cosa che ho notato anche tra i miei amici e familiari.









 


venerdì 4 settembre 2020

The Wasteland - Dashte Khamoush (Ahmad Bahrami, 2020)


In questi primi giorni di Mostra di Venezia Dashte Khamoush è senza dubbio il film che ci ha colpito maggiormente, si tratta un lavoro estremamente politico e umano, e dal punto di vista formale pregevolissimo. È il racconto di una piccolissima comunità di dimenticati al confine nord iraniano; nel mezzo del deserto circa una ventina di persone - uomini, donne e bambini - lavorano in una fornace che produce mattoni ancora in modo tradizionale. Famiglie di etnie diverse faticano nella fabbrica e il capo sembra essere in grado di risolvere i loro problemi. Lotfollah, un quarantenne nato proprio nell'opificio, è il sorvegliante, ma funge anche da tramite tra operai e proprietario. In un giorno qualunque quest’ultimo ha chiesto a Lotfollah di riunire il personale davanti al suo ufficio perché deve annunciare una novità importante.

Il film ci mostra le azioni ripetitive nella fornace, lo scopo dell'attività è la produzione di mattoni identici e l’impatto di questo luogo e del lavoro meccanico ha evidentemente reso gli operai esseri umani disillusi e docili. La ripetizione è una delle caratteristiche principali del film, che è ambientato nel corso di un’intera giornata; la gestione del tempo è fondamentale in un'opera che, un po’ come "Satantango" di Bela Tarr, presenta una sequenza che si ripropone più volte e ci permette a poco a poco di scoprire sempre qualcosa di più della storia. Si tratta del momento in cui il padrone comunica agli operai il futuro del mattonificio; nel tempo che intercorre tra il reiterarsi di questa sequenza c’è il lavoro e ci sono i colloqui personali tra capo e maestranze in cui ognuno dice la sua verità, come avveniva in "Rashomon" di Kurosawa. Riferimenti altissimi per un film importante che ha nella forma un aspetto di grande interesse: il regista gira in 4:3 in un bianco/nero che ci riporta indietro nel tempo e che rinchiude i personaggi in un formato ristretto. Sostanzialmente girato solo con panoramiche per accentuare questa ripetizione dei movimenti, senza primi piani e con solo quattro leggerissime zoomate durante la famosa riunione: fare un film oggi con sole panoramiche è un'impresa che Bahrami compie con apparente semplicità, riuscendo comunque a creare empatia coi personaggi.

"The Wastland" è ovviamente un film importante sul lavoro, che racconta l’assenza di diritti. I dipendenti sono operai senza studi, senza futuro e ovviamente senza coesione sociale, vedono nel capo l’unico sbocco per cambiare qualcosa della loro povera esistenza: la pensione per il più anziano, la libertà per uno dei curdi, un futuro per una donna senza marito, qualcosa di diverso per un uomo di quarant'anni che ha visto solo la fabbrica in tutta la sua vita.

Ahmad Bahrami è un regista iraniano quasi cinquantenne che ha iniziato tardi con il cinema. Dopo aver partecipato nel 2010 a un workshop di Abbas Kiarostami, esordisce nel 2017 con il lungometraggio "Panah" - anche questo ambientato nel cuore del deserto iraniano - che racconta la vita di un piccolo villaggio che dipende dagli sforzi di un ragazzino pronto ad aiutare il prossimo. Con quest’ultimo film Bahrami continua a lavorare sul deserto persiano e con personaggi ai margini: i lavoratori senza documenti sono immigrati azeri o curdi. Le motivazioni del regista vengono dalla sua famiglia: il padre ha lavorato in fabbrica ed è andato in pensione dopo trent’anni di fatiche. Per il regista iraniano questo è un omaggio al genitore e a tutti coloro che, in ogni parte del mondo, lavorano duramente.

Dashte Khamoush, che in italiano vuol dire “terra desolata”, racconta una storia di oggi ma è sostanzialmente un film senza tempo perché non dà delle coordinate temporali e assomiglia terribilmente a molti altri lungometraggi visti negli anni. Siamo in Iran ma potremmo essere in molte regioni remote del mondo. Ci fa anche pensare al nostro passato. Crediamo sia giusto che il cinema si interroghi sulle periferie della terra e su una realtà lavorativa senza diritti e senza futuro. Lo sfruttamento del lavoro è uno dei mali di questo mondo e il bisogno di coesione sociale dei lavoratori è sempre più necessario.

Recensione di Claudio Casazza

giovedì 3 settembre 2020

Libro: Visioni di contrabbando - Il cinema inarrestabile di Jafar Panahi (Claudio Zito, 2020)


Nel 2016 ho aperto il blog e la pagina Facebook “Cinema Iraniano” per un motivo: da internauta mi sarebbe piaciuto trovare in rete qualcosa di simile, che però non c'era. È stato e resta un piacere, e anche una sorpresa, vedere tante persone che seguono il blog e gli account collegati.

Ma ancora prima, molto prima del 2016, avrei voluto leggere una monografia su uno dei miei registi preferiti: Jafar Panahi. Nessuno l'aveva scritta e già allora pensavo di farlo io. Ce l'ho fatta a distanza di anni: “Visioni di contrabbando – Il cinema inarrestabile di Jafar Panahi” esce oggi per Digressioni Editore. Spero e mi auguro che possa suscitare altrettanto interesse.

Per qualche giorno è possibile acquistarlo a prezzo scontato:
https://digressioni.com/prodotto/visioni-di-contrabbando/?fbclid=IwAR0bRKAG8E9GlRnLITKDa0Yf_wvQb_X22qZ0qCafbgYqOLs9BrMsBD92J3o

Grazie a tutte e a tutti coloro che vorranno leggerlo!

martedì 14 luglio 2020

I migliori film iraniani degli anni 80

Sondaggio condotto tra 17 critici della rivista “Film” di Teheran e pubblicato nel volume del 1990 “L'Iran e i suoi schermi”.
I primi tre classificati sono con l'attrice Susan Taslimi.



1. Bashù il piccolo straniero – Bahram Beizai
2. Madian (La giumenta) - Ali Zhekan
3. Shayad Vaghti Deegar (Forse un'altra volta) – Bahram Beizai
4. Captain Khorshid – Naser Taghvai
5. Il corridore – Amir Naderi
6. Marg Yazdgerd (La morte di Yazdgerd) – Bahram Beizai
7. Acqua, vento e sabbia – Amir Naderi
8. Hamun - Dariush Mehrjui
9. The Tenants - Dariush Mehrjui
10. Dov'è la casa del mio amico – Abbas Kiarostami

venerdì 10 luglio 2020

Intervista su Offside

Nuova diretta Facebook (e altri canali) di Antonello Sacchetti, che mi ha intervistato l'1 luglio sul film di Jafar Panahi.




L’invito dell’Oscar Academy alla regista Narges Abyar scatena proteste

Cinque professionisti dell'industria cinematografica di origine iraniana sono stati invitati il 30 giugno a far parte dell'American Academy of Motion Picture Arts and Sciences, l'ente che sceglie i vincitori degli Oscar: Narges Abyar, Samira Makhmalbaf, Ali Abbasi, Elhum Shakerifar e il compositore di colonne sonore Sattar Oraki.

La scelta di Narges Abyar ha scatenato la rabbia di alcuni professionisti iraniani dell'industria cinematografica, che chiedono all'Accademia di ritirare l'invito: "La selezione di Narges Abyar equivale a un avallo della censura di tutti i cineasti indipendenti e impegnati, equivalente alla convalida della repressione degli artisti iraniani, in esilio nel proprio paese in condizioni di povertà e silenzio solo perché non accetterebbero di cooperare con il regime", afferma la petizione online (in parte in inglese) di un gruppo di professionisti iraniani dell'industria cinematografica, che ha raccolto finora 1.500 firme.



Nata a Teheran nel 1970, Abyar inizia come scrittrice, pubblicando una trentina di opere per bambini e adulti, prima di intraprendere la carriera cinematografica. Il suo film del 2016 "Breath" (Nafas) è stato il candidato ufficiale dell'Iran per la categoria Miglior film straniero sia ai 75° Golden Globe Awards sia ai 90° Academy Awards. Sebbene il film non sia stato selezionato per nessuno dei due premi, Abyar è stata la prima donna in assoluto ad essere stata scelta dall'Iran per rappresentare il paese agli Academy Awards.

Un importante regista iraniano, che ha richiesto l'anonimato per motivi di sicurezza, ha riferito a Kayhan Life, un sito sulla comunità iraniana nel mondo, che Abyar avrebbe fatto una visita ufficiale alla famigerata prigione Evin di Teheran, per celebrare l'anniversario dell'apertura del suo cinema, accompagnando funzionari della magistratura e il capo delle carceri dell'Iran.  "Diversi cineasti di fama internazionale sono stati incarcerati in questa prigione in passato, tra cui Jafar Panahi e Mohammad Rasoulof, e documentaristi come Mohammad Nourizad stanno ancora scontando un periodo in prigione", ha osservato il regista.

Hassan Ronaghi, un blogger che era detenuto nella prigione di Evin durante la visita di Abyar, ha twittato: “Narges Abyar è tra una manciata di cineasti che poterono visitare la prigione nel 2014. I detenuti nel blocco 7, incluso me, hanno contestato la sua visita […]. In conseguenza non ho potuto ricevere visitatori per un mese. […]”

Un altro noto regista iraniano che attualmente attende una pena detentiva che lo rimetterà in prigione a Evin ha dichiarato a Kayhan Life: “In Iran non possiamo criticare apertamente gli Oscar per aver invitato Narges Abyar. La nostra è una protesta silenziosa. Nessuna persona nell'industria cinematografica [iraniana] si è congratulata con lei per essere stata invitata ad entrare all'Accademia. Il nostro silenzio mostra il nostro disprezzo per questa scelta."

"Il film di Narges Abyar "Track 143" è stato proiettato nell'ufficio della Guida Suprema Khamenei con la regista presente", ha osservato il regista. “Oltre ad Abyar, erano presenti anche suo marito, Mohammad Hossein Ghaemi, che produce i suoi film, e diverse altre persone associate alla pellicola. Alla fine del film, che parla della guerra Iran-Iraq [1980-88], Khamanei ha detto all’autrice "Hai fatto un ottimo lavoro”. Non ricordo che la Guida abbia mai elogiato nessun altro regista".

“Track 143” è un adattamento dal suo romanzo “The Third Eye”, che racconta la storia di una donna e dei suoi figli durante la guerra Iran-Iraq (1980-88). Abyar ha anche realizzato svariati documentari e cortometraggi, principalmente sulla guerra Iran-Iraq.

Nei giorni scorsi un certo numero di iraniani sui social media ha condiviso una fotografia che la immortala mentre fa visita a Khamenei in ospedale a seguito di un intervento alla prostata nel settembre 2014. Diversi hanno notato che Abyar e suo marito erano tra un piccolo gruppo di persone che potevano visitarlo in ospedale, possibilità da cui furono esclusi alcuni funzionari del governo. Sui social network si vocifera che Ghaemi abbia stretti legami con i servizi segreti.




Narges Abyar è stata ospite a Roma nel 2018 nella rassegna “Tre donne: un altro cinema iraniano”, insieme a Ida Panahandeh e a una storica sostenitrice dei diritti civili come Rakhshan Banietemad.


Altre voci ,di segno opposto, all'interno dell'Iran hanno criticato gli Academy Awards per aver invitato Samira Makhmalbaf, da anni esule (che sta incontrando problemi anche in merito al suo status di rifugiata in Gran Bretagna).

Il quotidiano oltranzista di Teheran, Kayhan, ha condannato gli Oscar per il loro "razzismo e pregiudizio politico". Il documento descriveva l'invito a unirsi agli Academy Awards come "una semplice formalità per compiacere le persone credulone".

“Samira Makhmalbaf non ha alcun lavoro credibile nella sua filmografia. Ha realizzato il suo ultimo film diciott’anni fa”, ha aggiunto Kayhan. In realtà dodici, non diciotto.


Fonti:

Il post ricalca in gran parte il seguente articolo:

Qui c’è la petizione:

Io ho appreso la notizia dalla pagina Facebook della regista Mania Akbari:


martedì 2 giugno 2020

Videointervista: I Makhmalbaf

I Makhmalbaf: l'avventurosa storia di una famiglia di cineasti

Una videointervista di Antonello Sacchetti.



domenica 10 maggio 2020

Intervista a Elisabetta Colla - Taxidrivers.it

La rivista Taxidrivers ha da poco pubblicato un dossier di ben venti pagine sul cinema iraniano, disponibile gratuitamente a questo indirizzo: 

Qui invece l'editoriale:


Abbiamo intervistato Elisabetta Colla, che ha curato la direzione artistica dello speciale insieme al direttore di Taxidrivers Vincenzo Patanè. Ringraziamo Elisabetta per le risposte, molto approfondite!



Cos’è Taxidrivers? Ci puoi descrivere la rivista?

Taxidrivers.it è una rivista indipendente di cinema dal 2006. Da sempre specializzata in cinema d’autore, Taxidrivers.it promuove  il meglio del cinema italiano e internazionale, attraverso la copertura  giornalistica e le recensioni dei film in uscita e la partecipazione dei suoi collaboratori a kermesse cinematografiche e importanti Festival internazionali come  Cannes,  Berlino, la Mostra del Cinema di Venezia, il Festival di Locarno,  il Torino Film Festival, la Festa del Cinema di Roma e altre importanti manifestazioni di cinema,  rispetto alle quali svolge una copertura giornalistica quanto più possibile attenta e completa, con recensioni, dossier ed interviste ai più interessanti registi del momento. Fra le altre attività, Taxidrivers.it realizza periodicamente alcuni dossier monografici su temi di attualità cinematografica e sociale.  


Perché un dossier sul cinema iraniano e in che senso “Pulsante e resistente”?

I motivi per i quali abbiamo deciso di incentrare questo dossier sul cinema iraniano sono vari: innanzitutto perché, come abbiamo scritto nel titolo dell’editoriale, si tratta di un ‘cinema pulsante e resistente’, vitalissimo, che ha resistito a regimi conservatori e retrivi, laici e religiosi, che hanno cercato in tutti i modi di censurarlo, prima e dopo la rivoluzione e, purtroppo, anche oggi. Infatti, e questa è l’altra forte motivazione del nostro focus su cinema e Iran, il regista Mohammad Rasoulof, vincitore dell’Orso d’Oro a Berlino 2020, con il film “There is no evil”, è stato condannato dalla corte rivoluzionaria iraniana a un anno di prigione, al divieto di lavorare come regista per due anni per ‘propaganda contro il governo’ ed all’impossibilità per due anni di uscire dal paese o partecipare a qualsiasi attività sociale o politica. Proprio al regista Rasoulof, Taxidrivers.it ha voluto dedicare la copertina del dossier e, con lui, a tutti coloro che lottano contro le censure in nome dell’arte e della libertà di espressione.


In poche parole, come cambia il cinema iraniano dagli anni 70 a oggi, passando per il periodo di Kiarostami e Makhmalbaf?


Difficile rispondere in poche parole a una domanda così importante, senza rischiare la banalizzazione, poiché il cinema iraniano autoriale ha vissuto molte vite, epoche e stagioni, attraversando diversi stili narrativi ed estetici e trasmettendo messaggi sociali e politici con strumenti e voci differenti, in costante evoluzione. Si potrebbe dire che dopo la ricerca di proprie vie espressive iniziata già prima degli anni 70, nel decennio tra il 1969 e il 1979 (la cosiddetta prima nouvelle vague), il cinema iraniano dà avvio a sperimentazioni autoriali, con la ricerca di elementi visivi e descrittivi che definiscano uno stile indipendente e non conformista, poi declinato in modi diversi dai vari cineasti, con ‘oggetti’ socialmente più vicini al sentire popolare. Alcuni autori - fra questi Amir Naderi - precorrono modalità stilistiche definite ‘neo-realiste’, quasi documentaristiche, con l’uso della camera fissa in ambito formale ed un simbolismo nascosto in storie apparentemente semplici, elementi che influenzeranno in seguito la poetica di Abbas Kiarostami, uno dei primi registi le cui opere verranno conosciute all’estero. Questa fase già evidenzia l’interesse della critica per un cinema originale e dalle caratteristiche inusuali - che rappresenta la minoranza dei film prodotti in Iran – volto a definire sempre meglio la propria identità nella seconda nouvelle vague, nata in epoca post rivoluzione islamica (in cui s’iniziano a restringere sempre più le libertà di espressione, a perseguitare i registi indipendenti e a censurarne le opere), quando già alcuni registi fuggono all’estero o rimangono fuori dal Paese. Pienamente rappresentative del periodo sono le opere di registi cult come Abbas Kiarostami - fra le altre “Dov’è la casa del mio amico?” (1987) e “Il palloncino bianco” (1995), da lui sceneggiato e primo film da regista di Jafar Panahi - segnate da un approccio sperimentale, neorealista e fortemente simbolico, anche a causa della censura già esercitata dal governo e dalle autorità religiose, che i registi utilizzano per parlare al mondo dei temi sociali e politici del Paese. Immagini simboliche veicolano problematiche sociali con la naïveté e l'immediatezza mutuate dall'infanzia: il cinema iraniano utilizza spesso come protagonisti i bambini, per superare le censure. In quest’epoca Rakhshan Banietemad è la prima regista iraniana a realizzare un film, con donne protagoniste e affrontando temi cari ai movimenti femministi: come altri cineasti, negli anni in cui la censura è stata più severa, la regista si dedica al documentario sociale. Altri registi, come Mohsen Makhmalbaf, da sempre in aperto contrasto con i vari regimi del Paese e varie volte condannato, produce film di aperta denuncia, che lo costringeranno all’esilio in Europa con la sua famiglia: la figlia Samira, classe  1980, già giovanissima diventa regista e porta i suoi film a Cannes. Dopo la caduta di Khomeini, ai regimi più rigidi si alternano quelli cosiddetti ‘riformisti’, che propongono alcune aperture, in alcuni casi funzionali o frutto di ambivalenze politiche; inoltre l’avvento di Internet rende possibile e velocizza la diffusione di film che prima riuscivano comunque ad uscire dal paese ma con maggiori rischi e difficoltà. Basti pensare alle geniali soluzioni trovate da autori come Jafar Panahi, nell’esportare clandestinamente dall’Iran con un hard disk nascosto all’interno di una torta “This is not a film”, per presentarlo al Festival di Cannes nel 2011, o nel realizzare “Taxi Teheran” o “Tre volti”, opere significative e bellissime, girate comunque di nascosto e con il solo utilizzo di una macchina, un cellulare e una videocamera. Ma ancor oggi è sempre molto difficile e frustrante per i cineasti iraniani girare, avere fondi, trovare distribuzioni, farsi conoscere internazionalmente, aggirare le censure e le pastoie della burocrazia, sostenere pressioni, minacce e boicottaggi sempre possibili, per non parlare degli arresti, multe e divieti comminati. Nuove generazioni di cineasti incarnano quella che parte della letteratura chiama la terza nouvelle vague, legata a nomi come Asghar Farhadi (“Una separazione”, “Il cliente”) con opere di tipo nuovo, su temi relativi alla famiglia, ai rapporti uomo donna, anche di grande attualità (separazione, divorzio, affidamento dei figli, tradizionalismo versus modernità), Bahman Ghobadi (“I gatti persiani”), che porta sullo schermo la ribellione e le difficoltà dei giovani artisti che vogliono esprimersi, viaggiare, cogliere al volo opportunità e non ottengono permessi né documenti se non eludendo le vie legali, o Marjane Satrapi (nata come illustratrice) che realizza la graphic novel autobiografica “Persepolis” divenuta famosa nel mondo: a causa del grande successo ottenuto in patria e all’estero, del contenuto in certi casi meno esplicito o per motivi di opportunismo politico, queste opere e i loro autori sono ammessi a viaggiare, vincono premi (anche l’Oscar come Farhadi) e partecipano ai Festival. Naturalmente c’è poi tutta la questione delle sanzioni USA e del ‘travel ban’ di Trump, che rendono la vita impossibile all’industria cinematografica iraniana (e non solo) e alla sua distribuzione, ma questa è una storia che meriterebbe più tempo. Il cinema iraniano, comunque, nonostante quanto detto sopra e benché autori indipendenti stiano boicottando il Fajr, Festival Cinematografico Internazionale di Teheran, perché ormai manovrato ed asservito, benché lavorare nella settima arte sia quasi uno ‘schivare colpi’, non si è mai fermato di fronte alle continue, enormi difficoltà, e i tantissimi giovani e talentuosi autori, donne e uomini, che scrivono e dirigono film per raccontare l’Iran, lo dimostra.


Il palloncino bianco


Nello speciale trattate sia degli autori rimasti in Iran, sia di coloro che realizzano film sull’Iran all’estero, a volte in esilio ma non sempre.  Pensate che facciano parte della stessa comunità?

Credo che solo gli iraniani rimasti in Iran possano a buon diritto rispondere a questa domanda ma azzarderei che, secondo noi, tutti gli autori che non hanno mai abbandonato ‘affettivamente’ il Paese, nel senso profondo legato al concetto tedesco di heimat, pur vivendo altrove per motivi diversi, e ne continuano a promuovere la parte più originale e indipendente della cultura e dell’arte, lottando attraverso le proprie opere contro il bieco conservatorismo e l’omologazione sociale e politica, realizzando incontri ed esponendosi a manifestazioni pubbliche e Festival in favore della libertà di espressione, anche a sostegno degli artisti rimasti in patria e perseguitati, possono essere considerati in un certo senso parte di una stessa comunità ‘ideale’, pur vivendo, di fatto, in dimensioni politiche, geografiche e storico-sociali talvolta completamente diverse.


Ampio spazio è dedicato alle autrici, al cinema al femminile. Perché questa scelta?

Le donne in Iran, nonostante gli stereotipi e le reali difficoltà incontrate, sono da sempre state volano di cambiamento e rivestono un ruolo importante nella società e nella cultura del Paese. Spesso i regimi al potere, in particolare quelli teocratici, hanno cercato di umiliarne la dignità e negarne i diritti, impedendo loro di muoversi liberamente, di svolgere lavori intellettuali (e non solo), di scegliere quando e con chi sposarsi, e volendole sottomesse a padri e mariti, ma la loro capacità di resistenza ed il desiderio di emancipazione hanno dato vita a molti movimenti di attiviste ed artiste, fra cui numerose cineaste, che hanno raccontato la condizione e le aspirazioni delle donne iraniane, contribuendo ai piccoli grandi passi fatti in Iran a favore della emancipazione. Per questo, nel dossier, abbiamo voluto dare ampio spazio alle registe e cineaste donne, che sono molte e decisamente interessanti, pur appartenendo a generazioni diverse, valorizzandole e parlando dei loro film, dei temi affrontati e dei differenti stili estetici e narrativi. Con grande lentezza il Paese ha aperto spazi alle donne (più formali che effettivi), ad esempio con l’elezione in Parlamento nel 2017 di 17 donne o con la possibilità di partecipare ad eventi sportivi (pur separate dagli uomini, pensiamo al film “Offside”, di Jafar Panahi, dove alcune giovani tifose si travestono da uomini per entrare allo stadio, come estrema istanza di libertà) e si moltiplicano le registe iraniane che esportano ai Festival Internazionali film raffinati e indipendenti, che esprimono aspirazioni femminili moderne e raccontano spaccati sociali in evoluzione. Fra le cineaste ‘senior’ che hanno girato veri e propri capolavori, si annoverano, com’è noto, Rakhshan Banietemad, nata negli anni Cinquanta, cantastorie dei miseri, che in “Nargess” affronta il tema dei rapporti uomo-donna e Shirin Neshat, fotografa, videoartista e regista iraniana, formatasi negli Stati Uniti, vincitrice, nel 2009, del Leone d’Argento alla Mostra del Cinema di Venezia con il film “Donne senza uomini”, vero e proprio manifesto sulla condizione femminile.  Seguono, per citare le più note, Marjane Satrapi, giunta al successo con la graphic novel autobiografica “Persepolis”, poi divenuta film; Samira Makhmalbaf, figlia del noto regista Mohsen Makhmalbaf, regista di “Lavagne”; Ana Lily Amirpour che realizza un originale film di genere horror western, “A Girl Walks Home Alone at Night”; Ida Panahandeh, la giovane e coraggiosa regista selezionata a Cannes 2015 con il film “Nahid”, la cui protagonista vive un dramma moderno, fra amore materno, passione per un uomo e leggi ingiuste. Se ne potrebbero citare molte altre: buona parte del dossier è dedicata a tutte loro.