È appena uscito, per Bulzoni Editore, “Abbas Kiarostami – Le forme dell'immagine”, sul grande maestro del cinema mondiale scomparso nel 2016. Il testo di Elio Ugenti, dottore di ricerca presso l'Università Roma Tre, si concentra soprattutto sull'intermedialità della sua arte e, per primo, analizza anche gli ultimissimi lavori del cineasta (e video artista, e fotografo ecc.). Accordando la preminenza al lato visivo, ma sondando anche aspetti narratologici. Un testo dal taglio accademico, che appaga anche i semplici appassionati svelando aspetti mai indagati, o non facili da decifrare.
Elio Ugenti ha concesso al blog questa intervista.
La prima domanda è d'obbligo, dato il tema del blog. Nel tuo libro sembra emergere un Abbas Kiarostami poco inquadrato nella cultura del suo paese di origine. Già in copertina compare il film realizzato in Giappone. Eppure negli anni 90 e dintorni il cinema iraniano sembrava una scuola, un movimento i cui artefici condividevano finalità simili. Hai voluto restituire la giusta universalità all’autore, o la tua scelta prende le mosse da altre considerazioni?
Sul piano metodologico,
l’opera di un regista può essere studiata da numerose prospettive.
Si può dare un taglio culturalista, per esempio, che tenga conto del
contesto sociale e culturale in cui il regista si muove, oppure
scegliere di focalizzare l’attenzione su aspetti differenti. Ad
esempio il libro di Dario Cecchi “Abbas Kiarostami: immaginare la
vita” si apre con un capitolo intitolato proprio “Come essere
iraniano?”, riprendendo una celebre questione posta da Alain
Bergala.
Io credo che Kiarostami, la cui ‘persianità’ (se così si può dire) indubbiamente emerge sotto molti aspetti e in numerosi film, sia da sempre molto vicino alle tendenze del cinema europeo. Racconta l’Iran in profondità, ma sempre guardando a modelli estetici che vengono dall'Europa, come il Neorealismo e le nouvelle vague. Credo, inoltre, che il modello di cinema tracciato da Kiarostami abbia avuto importanti ripercussioni sul piano internazionale, ma sia meno seguito dalle nuove generazioni di cineasti iraniani, per le quali ha più influenza Jafar Panahi, che – almeno da “Il cerchio” in poi – ha dettato le linee di un cinema fortemente politico che risulta maggiormente utile a indagare – e denunciare – la situazione socio-culturale iraniana di questi anni. Panahi, tra l’altro, ha iniziato la sua carriera collaborando con Kiarostami, che è autore delle sceneggiature de “Il palloncino bianco” e di “Oro rosso”.
Si può dire che Kiarostami ha praticato un cinema meno politico, o politico in modo diverso, se è vero per esempio che nei primi film, fino a “Dov’è la casa del mio amico”, denuncia il dispositivo scolastico e altri dispositivi di potere all’interno del suo Paese.
Io credo che Kiarostami, la cui ‘persianità’ (se così si può dire) indubbiamente emerge sotto molti aspetti e in numerosi film, sia da sempre molto vicino alle tendenze del cinema europeo. Racconta l’Iran in profondità, ma sempre guardando a modelli estetici che vengono dall'Europa, come il Neorealismo e le nouvelle vague. Credo, inoltre, che il modello di cinema tracciato da Kiarostami abbia avuto importanti ripercussioni sul piano internazionale, ma sia meno seguito dalle nuove generazioni di cineasti iraniani, per le quali ha più influenza Jafar Panahi, che – almeno da “Il cerchio” in poi – ha dettato le linee di un cinema fortemente politico che risulta maggiormente utile a indagare – e denunciare – la situazione socio-culturale iraniana di questi anni. Panahi, tra l’altro, ha iniziato la sua carriera collaborando con Kiarostami, che è autore delle sceneggiature de “Il palloncino bianco” e di “Oro rosso”.
Si può dire che Kiarostami ha praticato un cinema meno politico, o politico in modo diverso, se è vero per esempio che nei primi film, fino a “Dov’è la casa del mio amico”, denuncia il dispositivo scolastico e altri dispositivi di potere all’interno del suo Paese.
Il Kiarostami degli ultimi anni mi pare un artista letteralmente inafferrabile. Se da un lato molti lavori si trovano facilmente in rete, dall’altro occorre spostarsi per vedere, ad esempio, le videoinstallazioni. Inoltre l’unico spettacolo teatrale da lui realizzato, il tradizionale tazieh, non ha avuto repliche. E allo stesso modo la sua arte, che non è mai stata ‘commerciale’, si è fatta quasi ostica per lo spettatore comune. Sei d’accordo? E come spieghi tale direzione intrapresa?
Credo che tutto ciò nasca dalla sua volontà di testare le possibilità del suo cinema attraverso forme espressive differenti. Poter visionare le sue opere dei primi anni Duemila (quelle installate, per intenderci) è stato uno dei problemi con cui mi sono scontrato da subito. Ho visto tutti i lavori di cui parlo nel libro, tranne il tazieh, su cui infatti non mi sbilancio nell’analisi critica. Tuttavia non sempre ho potuto vederli nella versione installata, e questo fa la differenza per quel che riguarda il rapporto con lo spazio circostante.
Questo libro nasce da lontano. Ho iniziato a lavorare su Kiarostami a partire dalla mia tesi di laurea magistrale con l’intenzione di voler raccontare anche quella parte della sua produzione che risulta pressoché invisibile. Nel 2010 ho contattato Babak Karimi (montatore iraniano che insegna al Centro Sperimentale di Cinematografia), che mi ha fornito il contatto (fondamentale) di Elisa Resegotti, co-curatrice della mostra “Roads of Kiarostami” insieme ad Alberto Barbera, con cui è iniziato da quel momento un bel rapporto di amicizia. Elisa ha messo a mia disposizione tutto il materiale che possedeva, e posso dire che senza di lei il mio lavoro non sarebbe stato possibile.
Gli ultimi film per la sala realizzati da Kiarostami ("Copia conforme" e "Qualcuno da amare") risentono, secondo me, dell’esperienza di Kiarostami come artista visivo. Devo ammettere che, se avessi conosciuto Kiarostami a partire dagli ultimi lavori per il cinema, forse non mi sarei innamorato del suo cinema così come è stato guardando i suoi film degli anni Novanta, ma andando ad approfondire e ad analizzare il suo percorso da artista visivo, ho rintracciato una grande coerenza espressiva che caratterizza anche l’ultima parte della sua carriera.
Quando diversi anni fa ho visto in anteprima "Qualcuno da amare" per recensirlo, ho capito meglio anche il senso di "Copia conforme". Questi due film costituiscono indiscutibilmente un dittico.
Per quanto riguarda gli ultimissimi lavori, invece, sono felice di aver potuto vedere “24 Frames”. Poco prima della chiusura del libro ho saputo che sarebbe stato proiettato a Firenze, quando ormai non speravo più di riuscire a vederlo per poterne scrivere. È stata una fortuna perché è un film che permette di concludere il discorso su quella “estetica della con-fusione” di cui parlo nel terzo capitolo. Questo film è una sorta di testamento artistico che mette tra loro a confronto linguaggi differenti, analogamente a quanto avveniva in “Roads of Kiarostami”, seppure attraverso differenti scelte formali.
Il vento ci porterà via (1999) |
Sotto il tuo microscopio non passano, se non di sfuggita, due film importanti come “Close-Up” e “Sotto gli ulivi”, che sono i più apertamente metacinematografici. Il motivo è che questo aspetto è già stato ampiamente sviscerato, o c’è dell’altro?
Io ho cercato di isolare
quelli che rappresentano, secondo me, dei momenti di svolta nella
carriera di Kiarostami. Posto "Dov'è la casa del mio amico?"
come il punto iniziale di questo percorso, il primo momento di svolta
è per me "Il vento ci porterà via". Lungo questo asse,
secondo me è un punto intermedio è rappresentato più da "E la vita continua" che da "Sotto gli ulivi", e da questo
derivano le mie scelte di campo.
Ho escluso il tema del metacinema, così come il discorso sulla continuità all’interno della Trilogia di Koker*, perché mi portavano un po' fuori strada rispetto al percorso che avevo immaginato progettando questo libro. Inoltre sono stati ben affrontati, anche in Italia, nei lavori di Marco Dalla Gassa, Pietro Montani e Dario Cecchi. Mi interessava sondare una via di analisi differente, che ha escluso tra gli altri quei due film, di cui riconosco la grandezza e l'importanza. "Close-Up" rientra probabilmente fra i tre film di Kiarostami che più amo.
L’ultimo capitolo è un’intervista a Elisa Resegotti. Lei sostiene che Kiarostami sia stato, nell’ordine, regista, fotografo, videoartista, poeta. Condividi questa particolare graduatoria?
Io credo davvero, per quel che riguarda Kiarostami, nella “estetica della con-fusione” di cui parlo nel libro, riprendendo questa espressione da Raymond Bellour. Kiarostami è sempre stato fotografo, e la fotografia ha influenzato il suo cinema per il lavoro di composizione delle inquadrature, così come il cinema ha influenzato gli immaginari delle sue fotografie (non fosse altro che perché le location sono le stesse, come spiegato anche da Elisa Resegotti nell’intervista). Quando poi Kiarostami decide di approcciare la videoarte (o meglio direi il “cinema installato”), quest'ultima influenza la produzione cinematografica successiva. Io credo di poter considerare Kiarostami un artista intermediale, per cui stabilire una gerarchia è complicato.
Capsico comunque il discorso di Elisa: del resto il cinema ha sempre trainato la fama di Kiarostami e ha rappresentato, probabilmente, l’apice della sua espressione artistica.
È possibile secondo te individuare un erede di Kiarostami, o qualcuno che porti avanti un lavoro di ricerca analogo?
Faccio fatica a trovarlo. Come dicevo, si tratta di un autore influenzato dalle tendenze europee del cinema moderno, come lo intendono Jacques Aumont o Giorgio De Vincenti, e dunque è complesso comprendere quanto il suo segno abbia inciso su autori che seguono questo modello stilistico più di altri autori che rientrano nella famiglia della “modernità cinematografica”. In Iran, invece, come detto, credo che la sua linea sia stata poco seguita.
Infine, per curiosità, hai avuto modo di visionare gli spot pubblicitari che ha realizzato in gioventù, o sono ancora inaccessibili?
Gli spot no. Ho visto delle grafiche, dei manifesti pubblicitari. Sono riuscito a vederli perché degli studenti iraniani dell’Università Roma Tre li hanno trovati facendo ricerche su Google in lingua persiana e me li hanno mostrati. Non ci ho mai lavorato, ma a livello di composizione del quadro direi che ci sono delle corrispondenze significative con il resto dell'opera dell'autore.
Dimenticavo una domanda, anche se in parte hai già risposto. Nel libro non dai giudizi di valore. I film e le opere che hai scelto di analizzare sono gli stessi che ami di più, o ne indicheresti altri?
Il film che mi ha fatto innamorare del cinema di Kiarostami è stato “Il vento ci porterà via”, e credo che rimanga il mio preferito. Ero uno studente al primo o secondo anno di università, non conoscevo Kiarostami ma ero un grande appassionato di Werner Herzog.
Quando Herzog è venuto a Torino, alla Scuola Holden, per un workshop che ho avuto la fortuna di poter frequentare, qualcuno gli ha rivolto una domanda sul suo rapporto con la poesia. Lui, nel rispondere, ha detto a un certo punto: “Quello che per me è il più grande cineasta vivente, Abbas Kiarostami, è anche un grande poeta”. Mi sono detto, allora, che non potevo non conoscere colui che Herzog reputava il più grande cineasta vivente! Ho iniziato a colmare la lacuna guardando proprio “Il vento ci porterà via”, e sono rimasto letteralmente folgorato da questo film.
È per questo motivo che ho deciso di aprire il mio libro analizzando proprio la prima sequenza de “Il vento ci porterà via”, perché in fondo quelle sono le prime immagini di Kiarostami con le quali mi sono confrontato.
*La Trilogia di Koker comprende "Dov'è la casa del mio amico", "E la vita continua" e "Sotto gli ulivi"
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