domenica 6 dicembre 2020

Golnar (Kambuzia Partovi, 1988)

Post in memoria di Kambuzia Partovi, personalità versatile e amata del cinema iraniano, che ci ha lasciati prematuramente lo scorso 24 novembre. Era ricoverato per problemi cardiaci ed ha contratto il COVID-19.
Attivo anche nel teatro, Partovi ha diretto importanti film come "Border Cafè" (2005) e documentari televisivi. Da sceneggiatore, ha firmato tra gli altri il "Maometto" di Majidi, il celebre "I'm Taraneh, 15" di Rasul Sadrameli e "Come pietra paziente" di Atiq Rahimi.


Come autore di film per l'infanzia, realizzati a inizio carriera, Partovi è stato uno dei più influenti. Tra questi figura "Golnar", sua opera prima; una delicata fiaba con attori in carne ossa e pupazzi zoomorfi.
Il titolo è il nome di battesimo della protagonista, una fanciulla di campagna che vive coi nonni. Un giorno il vento le porta via il fazzoletto azzurro che era di sua madre. La giovane si perde nella foresta, finché non trova riparo in un casolare di legno abitato da una coppia di orsi. Mentre Signor Orso la costringe a lavorare, con Signora Orsa nasce un certo affetto. Intanto una simpatica rana ficcanaso dispensa consigli e aiuta Golnar a fuggire. Dopo aver cucinato, tagliato i tronchi degli alberi, essersi ammalata, ricordato con nostalgia momenti di vita del villaggio, la bambina infatti si nasconde in una cesta portata in spalla da Signor Orso. Intanto il fazzoletto, trasportato da un ruscello, viene ritrovato dai nonni, che stavano perdendo la speranza di rivederla. È il preludio al ritorno a casa.

Con canzoni dalle melodie gradevoli e una fattura tecnica di lampante semplicità - dovuta forse a una certa povertà di mezzi - che però ispira simpatia, "Golnar" è un'opera che, a differenza di altri lavori della cinematografia nazionale di diversa produzione, non usa i pargoli per parlare agli adulti dei problemi sociali, ma si rivolge esclusivamente ai più piccoli, incantandoli.




Dal backstage del film, Jafar Panahi  ha realizzato la propria tesi di laurea in cinema. Sono così iniziate una lunga amicizia e una collaborazione culminata con "Closed Curtain" (2013, diretto e interpretato da entrambi), transitata per "The Fish" (1988-1991, regia di Kambuzia con l'assistenza di Jafar) e per il successo internazionale de "Il cerchio" (2000, regia di Panahi, sceneggiatura di Partovi da un soggetto dell'amico).


"Golnar" è disponibile su IMVBOX con sottotitoli.


giovedì 5 novembre 2020

Colossi statunitensi del web contro un canale di film iraniani per l'America Latina


La segnalazione ci arriva da Nicola Pezzella, follower di Cinema Iraniano nonché autore di alcune recensioni del blog, e residente in Messico: a fine settembre Twitter ha sospeso, per la seconda volta, l'account di Hispan TV, il mezzo di informazione iraniano che trasmette, tra l'altro, una miriade di film doppiati in spagnolo castigliano, venezuelano e messicano. Una rete decisamente istituzionale, che non a caso trasmette dal Venezuela, paese alleato della Repubblica Islamica. 

Le dirette di Hispan TV su Youtube sono visibili in tutto il mondo, ma anche questa piattaforma - spiega sempre Nicola - aveva più volte sospeso il canale. Il pretesto principale è stata la violazione dei diritti d'autore: una scusa che non sta in piedi perché si tratta di contenuti propri, compresi i film prodotti direttamente da studios di proprietà statale iraniana. Film alquanto allineati, ma talvolta di qualità e importanza spprezzabili. La televisione ha aperto un nuovo canale chiamato HTV, ma ad ogni soppressione spariscono i contenuti, e ricaricare centinaia di documentari, film e altri video richiede molto tempo.

Twitter invece ha sospeso l'account, minacciando di fare lo stesso con eventuali account futuri, con un'altra motivazione principale, invero anch'essa già utilizzata da Youtube: Hispan TV trasmetterebbe informazioni non veritiere. Fake news, diffuse in particolare col notiziario.

Anche Facebook e Google - rivela la venezuelana Telesur - hanno messo nel mirino Hispan TV, il cui direttore Ali Ejarehdar ha buon gioco nell'affermare che le società tecnologiche statunitensi agiscono in conformità con le politiche "ostili" del governo di Washington.

Insomma, ancora una volta il cinema iraniano si ritrova al centro di dispute geopolitiche, in compagnia di  altri mass media.

mercoledì 14 ottobre 2020

Le nuove tendenze del cinema iraniano

Mio intervento al simposio "PASSAGGIO A EST tra Oriente e Occidente" organizzato da Associazione Culturale inAsia e Tenstar Community, Verona 1 ottobre 2020. 

Con contributi di Samì Gharib e Abbas Gharib, che racconta un gustoso aneddoto su Jafar Panahi.






venerdì 18 settembre 2020

Una introduzione. Farhadi per il pubblico italiano

La parola a Khorshid Shekarie Aureh, studentessa dell'istituto Gobetti Volta di Bagno a Ripoli (FI). Khorshid ha raccontato la storia del cinema persiano ai suoi compagni di scuola, soffermandosi in particolare su Asghar Farhadi, di cui ha svelato alcuni interessanti aspetti culturali di non facile comprensione per gli spettatori italiani, giovani e meno giovani. Quello che segue è un breve resoconto delle sue presentazioni.


About Elly


Ho cominciato dalla collocazione geografica dell'Iran, facendo poi una carrellata sulla storia del cinema persiano dal 1962, quando con “La casa è nera” Forough Farrokhzad ha dato in qualche modo inizio alla Nuovelle Vague, facendo un cinema diverso dal commerciale filmfarsi. Ho scritto sulla lavagna i nomi dei registi (ad esempio Golestan e Mehrjui) divisi per epoca, poi ho parlato dei cambiamenti che ci sono stati con la Rivoluzione, dal vestiario alle trame, dai temi agli interessi dei registi. Credo che i film d'autore non siano più una forma di svago per il pubblico. Ci sono stati mutamenti sottili che hanno permesso di veicolare un messaggio diverso. Ho citato in particolare la famiglia Makhmalbaf, poi Panahi - soprattutto “Taxi Teheran” che era un film abbastanza conosciuto e che ha suscitato domande dalla classe. Poi ho parlato di Ghobadi e infine mi sono concentrata su Farhadi, affrontando “About Elly”, “Una separazione” e “Il cliente”.

Di “Una separazione” ho proiettato alcune scene, mentre di “About Elly” e “Il cliente” ho mostrato solo il trailer, perché non avevo delle copie sottotitolate in italiano e sarebbe stato troppo scomodo tradurre a voce sul momento. Dopo i trailer ho raccolto un giro di domande: i ragazzi erano stupiti del fatto che in Iran esistessero il cinema e i film! Ma anche se ne fossero stati al corrente, quello di Farhadi è comunque un cinema pieno di dettagli della cultura iraniana che portano il pubblico italiano a farsi delle domande. 

Farhadi mette al centro la società iraniana. Come però ha egli stesso evidenziato nelle conferenze, parte dall'individuo, dalla coppia e dal nucleo familiare, per poi espandersi a tutta la società. I personaggi sono neutri, non possiamo identificare degli antagonisti, dei buoni e dei cattivi: il regista lascia tanti punti interrogativi per il pubblico.

Facciamo degli esempi. In “Una separazione”, le dinamiche tra Nader e Simin (i protagonisti) e tra Razieh e Hojjat (la badante e suo marito) sono diverse. Anche perché appartengono a ceti sociali differenti (mentre i personaggi di "About Elly" sono omogenei). Ma anche lo stesso Hojjat, apparentemente “cattivo”, irascibile, ha tantissimi lati umani, pur provando rancore quando scopre che la moglie va a lavorare a casa di un uomo che non è della sua famiglia. Un namahram, si dice in persiano. Non possiamo dire che questo personaggio abbia torto o ragione, Farhadi ne fa vedere il lato umano.

Ho fatto vedere la scena in cui Razieh chiama il mullah per chiedere se può curare il padre di Nader. Durante la proiezione, in molti non hanno capito di cosa si trattasse. Mi sono soffermata sul concetto di namahram, spiegando quali sono le persone che possono avere un contatto diretto - in questo caso i familiari della donna e i fratelli del marito. Nessun altro uomo può entrare in contatto con lei: il fatto è che doveva lavare l'anziano e cambiargli il pannolone. Essendo l'uomo vecchio e malato, non le è stato proibito. Il fatto che poi, al termine della sequenza, la figlia di Razieh aggiunga spontaneamente “non lo dico a papà”, secondo me dipende dal fatto che le due appartengono a una famiglia religiosa di ceto medio-basso della capitale. Molte cose che Razieh dice nel corso del film non posso essere totalmente capite, forse, dal pubblico italiano o occidentale. Ad esempio quando Nader la accusa di aver rubato del denaro da un cassetto, il modo in cui lei reagisce è tipico di una persona molto devota. Ho notato che nella traduzione italiana non sono riportate tutte le personalità religiose su cui lei giura, ma in ogni caso l'elenco è molto significativo. Inoltre, in diverse scene del film giurano sul Corano. È una cosa abbastanza comune in Iran, ma comunque ha il suo peso; quando si giura sul Libro Sacro bisogna essere molto sicuri. Questo la dice lunga sulla fede di questa famiglia, ma forse chi non conosce bene la realtà iraniana non coglie appieno la drammatica serietà di tali giuramenti.

Altrettanto interessante è la prima scena, in cui il regista inquadra i volti di Nader e Simin senza far vedere il giudice. Secondo me significa che aveva l'intenzione di concentrarsi sui personaggi e sulla coppia, mostrando le loro emozioni insieme, non prima dell'uno poi dell'altra, o viceversa. Credo però che il concetto di separazione assuma connotati più generali, al di là della storia della coppia principale. Anzi è proprio questo il tema centrale. Il film parla di separazioni tra le classi sociali, del conflitto che si produce tra Razieh e Hojjat; di varie separazioni che si stanno consumando a livello sociale all'interno del paese, sia tra persone religiose che non credenti.

Una separazione

Ne “Il cliente” è interessante l'inserimento del teatro – i protagonisti Emad e Rana sono entrambi attori - perché contribuisce alla sceneggiatura del film. Emad è una persona che recita anche giù dal palco. Infatti ha inizialmente un tono sostenuto, ma si spoglia di questa maschera al cospetto di una situazione grave e inaspettata che lo manda in collera.

Quando Emad rifiuta di mangiare il cibo comprato coi soldi del presunto stupratore, magari lo spettatore italiano può pensare che sia per una questione religiosa, ma non è del tutto vero. Infatti in Iran c'è molto la cultura dei “soldi puliti” e dei “soldi sporchi”, e questo si vede chiaramente anche  dal modo in cui le persone parlano. Per una persona che vuole guadagnare soldi per raggiungere onestamente un livello di vita appagante, la parola che si usa è nan-e halal, cioè pane halal, lecito. Il concetto di nan-e halal non ha solo a che vedere con il cibo: quando qualcuno dice di voler arrivare ad avere nan-e halal, significa che vuole conseguire uno status sociale rispettabile, che vuole arrivare a guadagnare denaro pulito.
Questo aspetto si può in qualche modo notare anche in “Una separazione”, quando la famiglia di Nader va a casa di Razieh per convincerla ad accettare il risarcimento. Nell'audio originale, Razieh usa il termine pul-e haram, con cui si intende il guadagnare soldi con un lavoro “sporco”. Ma in questo caso Razieh usa tale espressione per riferirsi alla sua menzogna rispetto all'aborto. Qui il concetto è più legato alla religione, a qualcosa di cattivo che potrebbe succedere se lei accettasse quei soldi. Spesso tradizione e religione si intrecciano e non è facile capire l'origine dei comportamenti; anche un iraniano non musulmano, o un musulmano non praticante, può avere degli atteggiamenti tipici, uguali a quelli di un connazionale musulmano osservante. È ovvio che questo non accade sempre, però alcuni aspetti della religione si sono talmente integrati nella cultura che non si riesce più a distinguerli. 

Farhadi e Shahab Hosseini sul set de Il cliente


Tornando invece a “About Elly”, una cosa che i miei compagni di scuola non hanno ben compreso è l'atteggiamento di Sepideh nei confronti del personaggio tornato dalla Germania, interpretato da Shahab Hosseini. Mi hanno chiesto: perché è così importante presentare le ragazze ai ragazzi? Ho notato che in Italia queste presentazioni formali non si usano più, mentre restano attuali in Iran; sono legate alla cultura tradizionale e non alla religione. Forse dipende dal fatto che gli uomini non si sentono ancora molto sicuri nelle relazioni amorose. È una cosa che ho notato anche tra i miei amici e familiari.









 


venerdì 4 settembre 2020

The Wasteland - Dashte Khamoush (Ahmad Bahrami, 2020)


In questi primi giorni di Mostra di Venezia Dashte Khamoush è senza dubbio il film che ci ha colpito maggiormente, si tratta un lavoro estremamente politico e umano, e dal punto di vista formale pregevolissimo. È il racconto di una piccolissima comunità di dimenticati al confine nord iraniano; nel mezzo del deserto circa una ventina di persone - uomini, donne e bambini - lavorano in una fornace che produce mattoni ancora in modo tradizionale. Famiglie di etnie diverse faticano nella fabbrica e il capo sembra essere in grado di risolvere i loro problemi. Lotfollah, un quarantenne nato proprio nell'opificio, è il sorvegliante, ma funge anche da tramite tra operai e proprietario. In un giorno qualunque quest’ultimo ha chiesto a Lotfollah di riunire il personale davanti al suo ufficio perché deve annunciare una novità importante.

Il film ci mostra le azioni ripetitive nella fornace, lo scopo dell'attività è la produzione di mattoni identici e l’impatto di questo luogo e del lavoro meccanico ha evidentemente reso gli operai esseri umani disillusi e docili. La ripetizione è una delle caratteristiche principali del film, che è ambientato nel corso di un’intera giornata; la gestione del tempo è fondamentale in un'opera che, un po’ come "Satantango" di Bela Tarr, presenta una sequenza che si ripropone più volte e ci permette a poco a poco di scoprire sempre qualcosa di più della storia. Si tratta del momento in cui il padrone comunica agli operai il futuro del mattonificio; nel tempo che intercorre tra il reiterarsi di questa sequenza c’è il lavoro e ci sono i colloqui personali tra capo e maestranze in cui ognuno dice la sua verità, come avveniva in "Rashomon" di Kurosawa. Riferimenti altissimi per un film importante che ha nella forma un aspetto di grande interesse: il regista gira in 4:3 in un bianco/nero che ci riporta indietro nel tempo e che rinchiude i personaggi in un formato ristretto. Sostanzialmente girato solo con panoramiche per accentuare questa ripetizione dei movimenti, senza primi piani e con solo quattro leggerissime zoomate durante la famosa riunione: fare un film oggi con sole panoramiche è un'impresa che Bahrami compie con apparente semplicità, riuscendo comunque a creare empatia coi personaggi.

"The Wastland" è ovviamente un film importante sul lavoro, che racconta l’assenza di diritti. I dipendenti sono operai senza studi, senza futuro e ovviamente senza coesione sociale, vedono nel capo l’unico sbocco per cambiare qualcosa della loro povera esistenza: la pensione per il più anziano, la libertà per uno dei curdi, un futuro per una donna senza marito, qualcosa di diverso per un uomo di quarant'anni che ha visto solo la fabbrica in tutta la sua vita.

Ahmad Bahrami è un regista iraniano quasi cinquantenne che ha iniziato tardi con il cinema. Dopo aver partecipato nel 2010 a un workshop di Abbas Kiarostami, esordisce nel 2017 con il lungometraggio "Panah" - anche questo ambientato nel cuore del deserto iraniano - che racconta la vita di un piccolo villaggio che dipende dagli sforzi di un ragazzino pronto ad aiutare il prossimo. Con quest’ultimo film Bahrami continua a lavorare sul deserto persiano e con personaggi ai margini: i lavoratori senza documenti sono immigrati azeri o curdi. Le motivazioni del regista vengono dalla sua famiglia: il padre ha lavorato in fabbrica ed è andato in pensione dopo trent’anni di fatiche. Per il regista iraniano questo è un omaggio al genitore e a tutti coloro che, in ogni parte del mondo, lavorano duramente.

Dashte Khamoush, che in italiano vuol dire “terra desolata”, racconta una storia di oggi ma è sostanzialmente un film senza tempo perché non dà delle coordinate temporali e assomiglia terribilmente a molti altri lungometraggi visti negli anni. Siamo in Iran ma potremmo essere in molte regioni remote del mondo. Ci fa anche pensare al nostro passato. Crediamo sia giusto che il cinema si interroghi sulle periferie della terra e su una realtà lavorativa senza diritti e senza futuro. Lo sfruttamento del lavoro è uno dei mali di questo mondo e il bisogno di coesione sociale dei lavoratori è sempre più necessario.

Recensione di Claudio Casazza

giovedì 3 settembre 2020

Libro: Visioni di contrabbando - Il cinema inarrestabile di Jafar Panahi (Claudio Zito, 2020)


Nel 2016 ho aperto il blog e la pagina Facebook “Cinema Iraniano” per un motivo: da internauta mi sarebbe piaciuto trovare in rete qualcosa di simile, che però non c'era. È stato e resta un piacere, e anche una sorpresa, vedere tante persone che seguono il blog e gli account collegati.

Ma ancora prima, molto prima del 2016, avrei voluto leggere una monografia su uno dei miei registi preferiti: Jafar Panahi. Nessuno l'aveva scritta e già allora pensavo di farlo io. Ce l'ho fatta a distanza di anni: “Visioni di contrabbando – Il cinema inarrestabile di Jafar Panahi” esce oggi per Digressioni Editore. Spero e mi auguro che possa suscitare altrettanto interesse.

Per qualche giorno è possibile acquistarlo a prezzo scontato:
https://digressioni.com/prodotto/visioni-di-contrabbando/?fbclid=IwAR0bRKAG8E9GlRnLITKDa0Yf_wvQb_X22qZ0qCafbgYqOLs9BrMsBD92J3o

Grazie a tutte e a tutti coloro che vorranno leggerlo!

martedì 14 luglio 2020

I migliori film iraniani degli anni 80

Sondaggio condotto tra 17 critici della rivista “Film” di Teheran e pubblicato nel volume del 1990 “L'Iran e i suoi schermi”.
I primi tre classificati sono con l'attrice Susan Taslimi.



1. Bashù il piccolo straniero – Bahram Beizai
2. Madian (La giumenta) - Ali Zhekan
3. Shayad Vaghti Deegar (Forse un'altra volta) – Bahram Beizai
4. Captain Khorshid – Naser Taghvai
5. Il corridore – Amir Naderi
6. Marg Yazdgerd (La morte di Yazdgerd) – Bahram Beizai
7. Acqua, vento e sabbia – Amir Naderi
8. Hamun - Dariush Mehrjui
9. The Tenants - Dariush Mehrjui
10. Dov'è la casa del mio amico – Abbas Kiarostami

venerdì 10 luglio 2020

Intervista su Offside

Nuova diretta Facebook (e altri canali) di Antonello Sacchetti, che mi ha intervistato l'1 luglio sul film di Jafar Panahi.




L’invito dell’Oscar Academy alla regista Narges Abyar scatena proteste

Cinque professionisti dell'industria cinematografica di origine iraniana sono stati invitati il 30 giugno a far parte dell'American Academy of Motion Picture Arts and Sciences, l'ente che sceglie i vincitori degli Oscar: Narges Abyar, Samira Makhmalbaf, Ali Abbasi, Elhum Shakerifar e il compositore di colonne sonore Sattar Oraki.

La scelta di Narges Abyar ha scatenato la rabbia di alcuni professionisti iraniani dell'industria cinematografica, che chiedono all'Accademia di ritirare l'invito: "La selezione di Narges Abyar equivale a un avallo della censura di tutti i cineasti indipendenti e impegnati, equivalente alla convalida della repressione degli artisti iraniani, in esilio nel proprio paese in condizioni di povertà e silenzio solo perché non accetterebbero di cooperare con il regime", afferma la petizione online (in parte in inglese) di un gruppo di professionisti iraniani dell'industria cinematografica, che ha raccolto finora 1.500 firme.



Nata a Teheran nel 1970, Abyar inizia come scrittrice, pubblicando una trentina di opere per bambini e adulti, prima di intraprendere la carriera cinematografica. Il suo film del 2016 "Breath" (Nafas) è stato il candidato ufficiale dell'Iran per la categoria Miglior film straniero sia ai 75° Golden Globe Awards sia ai 90° Academy Awards. Sebbene il film non sia stato selezionato per nessuno dei due premi, Abyar è stata la prima donna in assoluto ad essere stata scelta dall'Iran per rappresentare il paese agli Academy Awards.

Un importante regista iraniano, che ha richiesto l'anonimato per motivi di sicurezza, ha riferito a Kayhan Life, un sito sulla comunità iraniana nel mondo, che Abyar avrebbe fatto una visita ufficiale alla famigerata prigione Evin di Teheran, per celebrare l'anniversario dell'apertura del suo cinema, accompagnando funzionari della magistratura e il capo delle carceri dell'Iran.  "Diversi cineasti di fama internazionale sono stati incarcerati in questa prigione in passato, tra cui Jafar Panahi e Mohammad Rasoulof, e documentaristi come Mohammad Nourizad stanno ancora scontando un periodo in prigione", ha osservato il regista.

Hassan Ronaghi, un blogger che era detenuto nella prigione di Evin durante la visita di Abyar, ha twittato: “Narges Abyar è tra una manciata di cineasti che poterono visitare la prigione nel 2014. I detenuti nel blocco 7, incluso me, hanno contestato la sua visita […]. In conseguenza non ho potuto ricevere visitatori per un mese. […]”

Un altro noto regista iraniano che attualmente attende una pena detentiva che lo rimetterà in prigione a Evin ha dichiarato a Kayhan Life: “In Iran non possiamo criticare apertamente gli Oscar per aver invitato Narges Abyar. La nostra è una protesta silenziosa. Nessuna persona nell'industria cinematografica [iraniana] si è congratulata con lei per essere stata invitata ad entrare all'Accademia. Il nostro silenzio mostra il nostro disprezzo per questa scelta."

"Il film di Narges Abyar "Track 143" è stato proiettato nell'ufficio della Guida Suprema Khamenei con la regista presente", ha osservato il regista. “Oltre ad Abyar, erano presenti anche suo marito, Mohammad Hossein Ghaemi, che produce i suoi film, e diverse altre persone associate alla pellicola. Alla fine del film, che parla della guerra Iran-Iraq [1980-88], Khamanei ha detto all’autrice "Hai fatto un ottimo lavoro”. Non ricordo che la Guida abbia mai elogiato nessun altro regista".

“Track 143” è un adattamento dal suo romanzo “The Third Eye”, che racconta la storia di una donna e dei suoi figli durante la guerra Iran-Iraq (1980-88). Abyar ha anche realizzato svariati documentari e cortometraggi, principalmente sulla guerra Iran-Iraq.

Nei giorni scorsi un certo numero di iraniani sui social media ha condiviso una fotografia che la immortala mentre fa visita a Khamenei in ospedale a seguito di un intervento alla prostata nel settembre 2014. Diversi hanno notato che Abyar e suo marito erano tra un piccolo gruppo di persone che potevano visitarlo in ospedale, possibilità da cui furono esclusi alcuni funzionari del governo. Sui social network si vocifera che Ghaemi abbia stretti legami con i servizi segreti.




Narges Abyar è stata ospite a Roma nel 2018 nella rassegna “Tre donne: un altro cinema iraniano”, insieme a Ida Panahandeh e a una storica sostenitrice dei diritti civili come Rakhshan Banietemad.


Altre voci ,di segno opposto, all'interno dell'Iran hanno criticato gli Academy Awards per aver invitato Samira Makhmalbaf, da anni esule (che sta incontrando problemi anche in merito al suo status di rifugiata in Gran Bretagna).

Il quotidiano oltranzista di Teheran, Kayhan, ha condannato gli Oscar per il loro "razzismo e pregiudizio politico". Il documento descriveva l'invito a unirsi agli Academy Awards come "una semplice formalità per compiacere le persone credulone".

“Samira Makhmalbaf non ha alcun lavoro credibile nella sua filmografia. Ha realizzato il suo ultimo film diciott’anni fa”, ha aggiunto Kayhan. In realtà dodici, non diciotto.


Fonti:

Il post ricalca in gran parte il seguente articolo:

Qui c’è la petizione:

Io ho appreso la notizia dalla pagina Facebook della regista Mania Akbari:


martedì 2 giugno 2020

Videointervista: I Makhmalbaf

I Makhmalbaf: l'avventurosa storia di una famiglia di cineasti

Una videointervista di Antonello Sacchetti.



domenica 10 maggio 2020

Intervista a Elisabetta Colla - Taxidrivers.it

La rivista Taxidrivers ha da poco pubblicato un dossier di ben venti pagine sul cinema iraniano, disponibile gratuitamente a questo indirizzo: 

Qui invece l'editoriale:


Abbiamo intervistato Elisabetta Colla, che ha curato la direzione artistica dello speciale insieme al direttore di Taxidrivers Vincenzo Patanè. Ringraziamo Elisabetta per le risposte, molto approfondite!



Cos’è Taxidrivers? Ci puoi descrivere la rivista?

Taxidrivers.it è una rivista indipendente di cinema dal 2006. Da sempre specializzata in cinema d’autore, Taxidrivers.it promuove  il meglio del cinema italiano e internazionale, attraverso la copertura  giornalistica e le recensioni dei film in uscita e la partecipazione dei suoi collaboratori a kermesse cinematografiche e importanti Festival internazionali come  Cannes,  Berlino, la Mostra del Cinema di Venezia, il Festival di Locarno,  il Torino Film Festival, la Festa del Cinema di Roma e altre importanti manifestazioni di cinema,  rispetto alle quali svolge una copertura giornalistica quanto più possibile attenta e completa, con recensioni, dossier ed interviste ai più interessanti registi del momento. Fra le altre attività, Taxidrivers.it realizza periodicamente alcuni dossier monografici su temi di attualità cinematografica e sociale.  


Perché un dossier sul cinema iraniano e in che senso “Pulsante e resistente”?

I motivi per i quali abbiamo deciso di incentrare questo dossier sul cinema iraniano sono vari: innanzitutto perché, come abbiamo scritto nel titolo dell’editoriale, si tratta di un ‘cinema pulsante e resistente’, vitalissimo, che ha resistito a regimi conservatori e retrivi, laici e religiosi, che hanno cercato in tutti i modi di censurarlo, prima e dopo la rivoluzione e, purtroppo, anche oggi. Infatti, e questa è l’altra forte motivazione del nostro focus su cinema e Iran, il regista Mohammad Rasoulof, vincitore dell’Orso d’Oro a Berlino 2020, con il film “There is no evil”, è stato condannato dalla corte rivoluzionaria iraniana a un anno di prigione, al divieto di lavorare come regista per due anni per ‘propaganda contro il governo’ ed all’impossibilità per due anni di uscire dal paese o partecipare a qualsiasi attività sociale o politica. Proprio al regista Rasoulof, Taxidrivers.it ha voluto dedicare la copertina del dossier e, con lui, a tutti coloro che lottano contro le censure in nome dell’arte e della libertà di espressione.


In poche parole, come cambia il cinema iraniano dagli anni 70 a oggi, passando per il periodo di Kiarostami e Makhmalbaf?


Difficile rispondere in poche parole a una domanda così importante, senza rischiare la banalizzazione, poiché il cinema iraniano autoriale ha vissuto molte vite, epoche e stagioni, attraversando diversi stili narrativi ed estetici e trasmettendo messaggi sociali e politici con strumenti e voci differenti, in costante evoluzione. Si potrebbe dire che dopo la ricerca di proprie vie espressive iniziata già prima degli anni 70, nel decennio tra il 1969 e il 1979 (la cosiddetta prima nouvelle vague), il cinema iraniano dà avvio a sperimentazioni autoriali, con la ricerca di elementi visivi e descrittivi che definiscano uno stile indipendente e non conformista, poi declinato in modi diversi dai vari cineasti, con ‘oggetti’ socialmente più vicini al sentire popolare. Alcuni autori - fra questi Amir Naderi - precorrono modalità stilistiche definite ‘neo-realiste’, quasi documentaristiche, con l’uso della camera fissa in ambito formale ed un simbolismo nascosto in storie apparentemente semplici, elementi che influenzeranno in seguito la poetica di Abbas Kiarostami, uno dei primi registi le cui opere verranno conosciute all’estero. Questa fase già evidenzia l’interesse della critica per un cinema originale e dalle caratteristiche inusuali - che rappresenta la minoranza dei film prodotti in Iran – volto a definire sempre meglio la propria identità nella seconda nouvelle vague, nata in epoca post rivoluzione islamica (in cui s’iniziano a restringere sempre più le libertà di espressione, a perseguitare i registi indipendenti e a censurarne le opere), quando già alcuni registi fuggono all’estero o rimangono fuori dal Paese. Pienamente rappresentative del periodo sono le opere di registi cult come Abbas Kiarostami - fra le altre “Dov’è la casa del mio amico?” (1987) e “Il palloncino bianco” (1995), da lui sceneggiato e primo film da regista di Jafar Panahi - segnate da un approccio sperimentale, neorealista e fortemente simbolico, anche a causa della censura già esercitata dal governo e dalle autorità religiose, che i registi utilizzano per parlare al mondo dei temi sociali e politici del Paese. Immagini simboliche veicolano problematiche sociali con la naïveté e l'immediatezza mutuate dall'infanzia: il cinema iraniano utilizza spesso come protagonisti i bambini, per superare le censure. In quest’epoca Rakhshan Banietemad è la prima regista iraniana a realizzare un film, con donne protagoniste e affrontando temi cari ai movimenti femministi: come altri cineasti, negli anni in cui la censura è stata più severa, la regista si dedica al documentario sociale. Altri registi, come Mohsen Makhmalbaf, da sempre in aperto contrasto con i vari regimi del Paese e varie volte condannato, produce film di aperta denuncia, che lo costringeranno all’esilio in Europa con la sua famiglia: la figlia Samira, classe  1980, già giovanissima diventa regista e porta i suoi film a Cannes. Dopo la caduta di Khomeini, ai regimi più rigidi si alternano quelli cosiddetti ‘riformisti’, che propongono alcune aperture, in alcuni casi funzionali o frutto di ambivalenze politiche; inoltre l’avvento di Internet rende possibile e velocizza la diffusione di film che prima riuscivano comunque ad uscire dal paese ma con maggiori rischi e difficoltà. Basti pensare alle geniali soluzioni trovate da autori come Jafar Panahi, nell’esportare clandestinamente dall’Iran con un hard disk nascosto all’interno di una torta “This is not a film”, per presentarlo al Festival di Cannes nel 2011, o nel realizzare “Taxi Teheran” o “Tre volti”, opere significative e bellissime, girate comunque di nascosto e con il solo utilizzo di una macchina, un cellulare e una videocamera. Ma ancor oggi è sempre molto difficile e frustrante per i cineasti iraniani girare, avere fondi, trovare distribuzioni, farsi conoscere internazionalmente, aggirare le censure e le pastoie della burocrazia, sostenere pressioni, minacce e boicottaggi sempre possibili, per non parlare degli arresti, multe e divieti comminati. Nuove generazioni di cineasti incarnano quella che parte della letteratura chiama la terza nouvelle vague, legata a nomi come Asghar Farhadi (“Una separazione”, “Il cliente”) con opere di tipo nuovo, su temi relativi alla famiglia, ai rapporti uomo donna, anche di grande attualità (separazione, divorzio, affidamento dei figli, tradizionalismo versus modernità), Bahman Ghobadi (“I gatti persiani”), che porta sullo schermo la ribellione e le difficoltà dei giovani artisti che vogliono esprimersi, viaggiare, cogliere al volo opportunità e non ottengono permessi né documenti se non eludendo le vie legali, o Marjane Satrapi (nata come illustratrice) che realizza la graphic novel autobiografica “Persepolis” divenuta famosa nel mondo: a causa del grande successo ottenuto in patria e all’estero, del contenuto in certi casi meno esplicito o per motivi di opportunismo politico, queste opere e i loro autori sono ammessi a viaggiare, vincono premi (anche l’Oscar come Farhadi) e partecipano ai Festival. Naturalmente c’è poi tutta la questione delle sanzioni USA e del ‘travel ban’ di Trump, che rendono la vita impossibile all’industria cinematografica iraniana (e non solo) e alla sua distribuzione, ma questa è una storia che meriterebbe più tempo. Il cinema iraniano, comunque, nonostante quanto detto sopra e benché autori indipendenti stiano boicottando il Fajr, Festival Cinematografico Internazionale di Teheran, perché ormai manovrato ed asservito, benché lavorare nella settima arte sia quasi uno ‘schivare colpi’, non si è mai fermato di fronte alle continue, enormi difficoltà, e i tantissimi giovani e talentuosi autori, donne e uomini, che scrivono e dirigono film per raccontare l’Iran, lo dimostra.


Il palloncino bianco


Nello speciale trattate sia degli autori rimasti in Iran, sia di coloro che realizzano film sull’Iran all’estero, a volte in esilio ma non sempre.  Pensate che facciano parte della stessa comunità?

Credo che solo gli iraniani rimasti in Iran possano a buon diritto rispondere a questa domanda ma azzarderei che, secondo noi, tutti gli autori che non hanno mai abbandonato ‘affettivamente’ il Paese, nel senso profondo legato al concetto tedesco di heimat, pur vivendo altrove per motivi diversi, e ne continuano a promuovere la parte più originale e indipendente della cultura e dell’arte, lottando attraverso le proprie opere contro il bieco conservatorismo e l’omologazione sociale e politica, realizzando incontri ed esponendosi a manifestazioni pubbliche e Festival in favore della libertà di espressione, anche a sostegno degli artisti rimasti in patria e perseguitati, possono essere considerati in un certo senso parte di una stessa comunità ‘ideale’, pur vivendo, di fatto, in dimensioni politiche, geografiche e storico-sociali talvolta completamente diverse.


Ampio spazio è dedicato alle autrici, al cinema al femminile. Perché questa scelta?

Le donne in Iran, nonostante gli stereotipi e le reali difficoltà incontrate, sono da sempre state volano di cambiamento e rivestono un ruolo importante nella società e nella cultura del Paese. Spesso i regimi al potere, in particolare quelli teocratici, hanno cercato di umiliarne la dignità e negarne i diritti, impedendo loro di muoversi liberamente, di svolgere lavori intellettuali (e non solo), di scegliere quando e con chi sposarsi, e volendole sottomesse a padri e mariti, ma la loro capacità di resistenza ed il desiderio di emancipazione hanno dato vita a molti movimenti di attiviste ed artiste, fra cui numerose cineaste, che hanno raccontato la condizione e le aspirazioni delle donne iraniane, contribuendo ai piccoli grandi passi fatti in Iran a favore della emancipazione. Per questo, nel dossier, abbiamo voluto dare ampio spazio alle registe e cineaste donne, che sono molte e decisamente interessanti, pur appartenendo a generazioni diverse, valorizzandole e parlando dei loro film, dei temi affrontati e dei differenti stili estetici e narrativi. Con grande lentezza il Paese ha aperto spazi alle donne (più formali che effettivi), ad esempio con l’elezione in Parlamento nel 2017 di 17 donne o con la possibilità di partecipare ad eventi sportivi (pur separate dagli uomini, pensiamo al film “Offside”, di Jafar Panahi, dove alcune giovani tifose si travestono da uomini per entrare allo stadio, come estrema istanza di libertà) e si moltiplicano le registe iraniane che esportano ai Festival Internazionali film raffinati e indipendenti, che esprimono aspirazioni femminili moderne e raccontano spaccati sociali in evoluzione. Fra le cineaste ‘senior’ che hanno girato veri e propri capolavori, si annoverano, com’è noto, Rakhshan Banietemad, nata negli anni Cinquanta, cantastorie dei miseri, che in “Nargess” affronta il tema dei rapporti uomo-donna e Shirin Neshat, fotografa, videoartista e regista iraniana, formatasi negli Stati Uniti, vincitrice, nel 2009, del Leone d’Argento alla Mostra del Cinema di Venezia con il film “Donne senza uomini”, vero e proprio manifesto sulla condizione femminile.  Seguono, per citare le più note, Marjane Satrapi, giunta al successo con la graphic novel autobiografica “Persepolis”, poi divenuta film; Samira Makhmalbaf, figlia del noto regista Mohsen Makhmalbaf, regista di “Lavagne”; Ana Lily Amirpour che realizza un originale film di genere horror western, “A Girl Walks Home Alone at Night”; Ida Panahandeh, la giovane e coraggiosa regista selezionata a Cannes 2015 con il film “Nahid”, la cui protagonista vive un dramma moderno, fra amore materno, passione per un uomo e leggi ingiuste. Se ne potrebbero citare molte altre: buona parte del dossier è dedicata a tutte loro.



domenica 12 aprile 2020

Ricerca 1 (Amir Naderi, 1980)




Il concetto di "attesa" (in persiano: entezar), centrale nell'Islam sciita in relazione al ritorno dell'Imam scomparso, ricorre nella prima parte della filmografia di Amir Naderi, che realizza anche un mediomedraggio con lo stesso titolo. 
In corrispondenza di due eventi traumatici ed epocali per l'Iran, come la Rivoluzione e la guerra "imposta" dall'aggressione irachena, per il regista l'attesa si declina nella ricerca delle persone che mancano all'appello e di cui si teme un destino tragico o, in altri termini, il martirio. Nascono così i documentari gemelli "Ricerca 1" (Jostoju 1) e "Ricerca 2".

Per "Ricerca 1" Naderi intervista - senza commentare - i parenti delle persone, per lo più ragazzini, che si sono unite ai rivoluzionari e non sono mai tornate indietro. Ma anche addetti del cimitero Behesht-e Zahra di Teheran, personale dell'obitorio, autisti delle ambulanze e dei camion dei rifiuti, e testimoni oculari dell'occorso.
Con un montaggio che spesso spezza il ritmo, influenzato dal cinema sovietico, inquadrature dei manifesti che annunciano le sparizioni sono alternate ai volti traumatizzati e alle voci dolorose dei parenti, e a lunghe sequenze senza parole,  che includono filmati di repertorio delle manifestazioni oceaniche del 1978.

Nell'ultima parte, mentre i testimoni raccontano in maniera sempre più incontrovertibile l'orrore, in un crescendo drammatico le immagini si fanno mute, rarefatte, e il paesaggio spoglio, in corrispondenza dei luoghi in cui le guardie dello scià, dopo il massacro del "venerdì nero" dell'8 settembre '78, hanno ammassato migliaia di cadaveri, gettati in un lago salato o sepolti in una discarica insieme ai feriti agonizzanti. Senza indugi morbosi sulle salme, immagini di rara potenza - di un vecchio solitario che si appoggia a un bastone, di un ragazzo lungo i binari del treno, o di animali in un paesaggio desertico - e il sonoro in primo piano, anticipano lo stile generale e persino determinate sequenze de "Il corridore" e di "Acqua, vento e sabbia".




Prodotto da un canale televisivo, "Ricerca 1" viene bloccato dalla censura per più di dieci anni, poiché immortala unicamente la repressione e non celebra l'epopea rivoluzionaria. Viene trasmesso nel 1991, dopo che i fatti mostrati sono deliberatamente retrodatati a prima della Rivoluzione.

Invece, dal canto nostro siamo ancora alla ricerca di "Ricerca 2", attualmente introvabile.




















Videointervista di Antonello Sacchetti

Ho avuto il piacere e l'onore di essere intervistato da Antonello Sacchetti, giornalista esperto di Iran, direttore di Diruz.
Ecco il video dell'intervista.



martedì 17 marzo 2020

Videointervista: Abbas Gharib, autore di "Caro Abbas Kiarostami, perché il cinema?"



Tante cose che non sapevamo su Kiarostami. Ce le ha raccontate Abbas Gharib, architetto, suo amico di vecchia data, autore del libro "Caro Abbas Kiarostami, perché il cinema?".

Il volume ripercorre dettagliatamente il workshop organizzato a Verona nel marzo 2015 dalla Tenstar Communiy, movimento culturale che negli anni ha dato voce a importanti artisti di diversa estrazione. Questa la pagina Facebook cui è possibile seguire l'attività della community:

Il resoconto è corredato da un ampio apparato fotografico e da utilissime notazioni, che aiutano a inquadrare i tanti aspetti socio-culturali e multidisciplinari toccati da Kiarostami e dagli altri ospiti, tra cui William Shimell, il protagonista di "Copia conforme"

Per acquistare il libro, occorre scrivere a s.gharib@studiogharib.net 
Prezzo 25 € spese di spedizione incluse per il territorio nazionale. 

Il maestro Abbas Gharib ci ha gentilmente concesso questa videointervista.












mercoledì 4 marzo 2020

Rasoulof convocato in carcere, si appella al coronavirus


Brutte notizie per Mohammad Rasoulof. Il regista che ha appena vinto l'Orso d'oro al Festival di Berlino è stato convocato per scontare una pena detentiva di un anno, secondo quanto riportato oggi dal suo avvocato ad Associates Press.
La condanna è per tre film accusati di essere "propaganda contro il sistema". La sentenza includeva anche l'ordine di interrompere l'attività di regista per due anni.
Rasoulof farà ricorso, appellandosi al focolaio di coronavirus in corso in Iran. Le autorità hanno già rilasciato 54.000 prigionieri in via temporanea per preoccupazioni riguardo alla diffusione del virus nel sistema carcerario del Paese.
Non vi sono state notizie immediate da parte dei media statali sulla convocazione di Rasoulof, né commenti da parte di funzionari giudiziari

sabato 29 febbraio 2020

Il male non esiste (Mohammad Rasoulof, 2020)

“In quanto esseri umani, in che misura dobbiamo essere ritenuti responsabili del nostro adempimento agli ordini? Qual è la nostra responsabilità morale?” 
Mohammad Rasoulof



Appare improvviso all'ultimo giorno di Concorso il film che potrebbe vincere la Berlinale. A dirigerlo è Mohammad Rasoulof, uno dei registi più perseguitati dal governo iraniano, infatti tutti i suoi sette film sono stati vittima della censura. Nel 2010 è stato arrestato sul set mentre lavorava al fianco di Jafar Panahi e condannato a un anno di prigione. Non è agli arresti, come molta stampa ha scritto, ma dal 2017 gli è stato ritirato il passaporto e ufficialmente gli è vietato lasciare l'Iran, proprio per questo non è qui a Berlino a presentare il suo film. I suoi produttori, presenti in terra tedesca, sostengono che stia bene e sia sereno, sicuro della scelta di non piegarsi alla censura governativa.

Come ha raccontato Rasoulof in un'intervista, il film non è stato girato in segreto ma le autorità gli hanno reso la vita più difficile, non dando permessi e creando difficoltà ogni volta. Quella del film, ha sostenuto il regista, è stata una lavorazione estremamente complessa e angosciante, ma fortunatamente portata a termine. In Iran, come tutti sappiamo, è un periodo di revanche conservatrice e il suo impatto sul cinema è  evidente: da Panahi allo stesso Rasoulof il cinema indipendente non finanziato dal governo sta diventando sempre più ridotto. La pressione governativa ha spostato molti registi ai margini, ed è quasi impossibile che Rasoulof dopo un film così politico possa tornare nel panorama ufficiale del cinema iraniano.

Passiamo a "There Is No Evil" (Sheytan vojud nadarad) che lungo l'arco di due ore e mezza ci presenta quattro racconti morali apparentemente separati ma che dialogano tra loro, non vi diciamo come perché è molto interessante scoprirlo da soli. Nelle quattro storie i personaggi, tutti legati a doppio filo, vivono interrogandosi sulla loro posizione all'interno di un regime, se opporsi o esserne in qualche modo complici. Il primo racconto ha per protagonista Heshmat, un marito e un padre esemplare, che vediamo durante la sua vita famigliare con qualcosa nel volto di molto preoccupante; la seconda storia invece riguarda Pouya, un soldato di leva a cui viene chiesto di eseguire un'esecuzione, ma non lui può neanche immaginare di uccidere un altro uomo; Javad, anche lui un militare, è il protagonista del terzo racconto, lo vediamo che torna dalla fidanzata Nana il giorno del compleanno, ma ci saranno delle sorprese in quei giorni; il quarto episodio vede Bahram, un medico che non è in grado di esercitare la professione e vive da emarginato sulle montagne, ora riceve la visita della nipote a cui deve confidare un segreto.



Le quattro storie affrontano tutte il tema della pena di morte ma vanno anche molto oltre, Rasoulof si interroga su come le regole autocratiche modificano le persone fino a farne ingranaggi della macchina autoritaria e incentra il film su come cittadini responsabili abbiano una possibilità di scelta quando gli viene chiesto di eseguire ordini disumani. Il film tocca temi fortissimi come la responsabilità individuale e le scelte di disobbedienza/resistenza e ragiona sul prezzo da pagare per questo. Il regista iraniano ci racconta queste vicende dure con un cinema che ricorda più Yilmaz Güney (il grande regista curdo di “La rivolta” e “Yol”, imprigionato in Turchia per anni per le sue posizioni contro il regime) che i grandi autori iraniani. 
Rasoulof fa un film dove il conflitto con lo Stato è evidente ma lavora molto sui personaggi, sulle scelte e sui loro tormenti interiori, e qui colpisce davvero nel segno. I quattro protagonisti sono personaggi che nascondono qualcosa agli altri, che possono entrare in crisi proprio perché entra in gioco il contrasto tra la propria morale e il proprio dovere. I personaggi appaiono veri e sembrano soffocare negli interni di un auto, in un carcere, o in una casa di montagna. C’è sempre un macigno del passato che contamina i luoghi dove vivono le loro vite incerte. Questi scheletri del passato e la costruzione narrativa con colpi di scena improvvisi e molto personali ricorda un po' il cinema di Asghar Farhadi, come anche gli epiloghi spesso devastanti ma aperti. Infatti le storie sono lineari e semplici ma proprio coi loro finali bruscamente interrotti invita noi spettatori a collegarle agli episodi successivi, a cercarne legami anche nel tempo e a immaginare così come i protagonisti possano affermare la propria libertà anche in situazioni così difficili.

“There Is No Evil” è un gran film politico sulle scelte e sulle conseguenze delle proprie decisioni, ovviamente ci porta a pensare alla situazione dell'Iran attuale ma sono ragionamenti validi per tutti gli esseri umani, sia in regimi autoritari che in democrazia. Ogni giorno abbiamo la facoltà di dire no anche se le conseguenze da sostenere sono faticose. Proprio per queste ragioni crediamo che il film possa meritare premi in questa Berlinale. Lo crediamo anche perché Rasoulof è un regista che ha spesso ottenuto consensi per i suoi film politicamente impegnati, in particolare “Goodbye”, “Manuscripts Don’t Burn” e “A Man Of Integrity” che hanno ottenuto premi a Un Certain Regard di Cannes nel 2011, 2013 e 2017.

Notizia positiva per chiudere, il film è stato acquistato da Satine, un distributore italiano, perciò speriamo di vederlo prestissimo nelle sale del nostro paese.


Recensione da Berlino di Claudio Casazza, che ringraziamo immensamente.

martedì 25 febbraio 2020

Mohammad Rasoulof sul nuovo film “There Is No Evil”

La rivista Variety ha interepellato il regista. Qui l'intervista completa in inglese:




L'autore iraniano Mohammad Rasoulof, il cui sesto lungometraggio “There Is No Evil” è in competizione alla Berlinale, è uno dei registi più importanti del suo paese, anche se nessuno dei suoi film è stato proiettato in Iran, dove sono stati banditi. Nel 2011, l'anno in cui ha vinto due premi a Cannes con "Goodbye", Rasoulof è stato condannato con il collega regista Jafar Panahi a sei anni di prigione e a un divieto di 20 anni di fare il regista, per presunta propaganda anti-regime. La sua pena è stata successivamente sospesa ed è stato rilasciato su cauzione. Nel 2017 le autorità iraniane hanno confiscato il passaporto di Rasoulof al suo ritorno dal Telluride Film Festival dove era stato proiettato il suo "A Man of Integrity", sulla corruzione e l'ingiustizia in Iran. Rasoulof non sarà in grado di presenziare a Berlino.


"There Is no Evil" è costituito da quattro episodi collegati e, per dirla in modo semplicistico, si occupa della pena di morte in Iran. Sei d'accordo?

I quattro episodi del film affrontano la pena di morte, ma vanno oltre. Riguardano più in generale la disobbedienza, e la domanda: quando resisti a un sistema - quando resisti a un potere - qual è la responsabilità che ti assumi? Ti prendi la responsabilità della tua stessa resistenza, per aver detto di no? E qual è il prezzo che devi pagare per questo? Se prendo il mio esempio, posso dire che resistendo ... mi sono privato di molti aspetti della vita, ma sono contento di resistere all'assurdo ed eccessivo sistema di censura con cui conviviamo.


Quanto è stato difficile realizzare il film?

Non mi è vietato lavorare. Il problema è che loro [le autorità] sono troppo perverse per dirlo in modo così semplice. Non è che ti vietino; è che ti rendono la vita più dura ogni volta, non dando permessi e così non lasciandoti lavorare. È un sistema molto complesso. 
In termini di effettiva difficoltà, non ho modo di illustrare o spiegare la lotta che abbiamo dovuto affrontare per realizzarlo. Prima di iniziare le riprese ho ricevuto la mia [ultima] sentenza detentiva. E così, durante tutta la lavorazione, stavo aspettando le ultime informazioni dalla corte d'appello, perché speravo di vederla cambiare. Ogni mattina controllavo il telefono per vedere se sarei stato in grado di terminare le riprese di questo progetto... È stato estremamente difficile, estremamente angosciante, ma fortunatamente sono stato in grado di farcela.
Durante l'ultima settimana di riprese, mentre giravo l'ultimo dei quattro segmenti di questo film, ho ricevuto un messaggio che mi informava che l'appello confermava la sentenza, quindi ora sono condannato a un ulteriore anno di prigione. Sto ancora controllando il telefono, aspettando un altro messaggio per sapere in quale momento verrà eseguita la condanna.



Ti è ancora proibito viaggiare?

La corte ha stabilito un divieto di viaggio di due anni. Sfortunatamente, non è mai stato chiarito se il periodo di due anni inizia dalla data del verdetto nel luglio 2019 o dal momento in cui mi è stato impedito di lasciare il paese, quando sono tornato in Iran per l'ultima volta a settembre 2017. L'imposizione di tali restrizioni rivela chiaramente la natura intollerante e dispotica del governo iraniano.


Il film è stato menzionato dalla stampa iraniana quando è stato selezionato per il concorso della Berlinale?

Un paio di piccole menzioni ... Un conservatore ha esternato che Berlino non è un festival così grande, quindi non è un grosso problema. Questo è tutto. Non ho avuto alcuna reazione da parte delle autorità, ma me le aspetto.


In che modo le tensioni con Trump influenzano i registi in Iran?

C'è un contraccolpo conservatore e il suo impatto sul cinema è molto evidente. Di recente al Fajr Film Festival [a Teheran] la metà dei film presentati è stata interamente finanziata dal potere, dal governo. Più specificamente, [dall'] investimento militare che c'è dietro questo fondo... Quindi la comunità cinematografica indipendente sta diventando sempre più piccola. E la pressione che sente indica che esiste un piano specifico da parte delle forze di sicurezza e militari in Iran per usare il cinema come loro strumento.


E la tua vita da regista. L'attuale clima in Iran rende le cose più difficili per te?

Mi sta spingendo sempre più verso i margini e non mi dà altra scelta che lavorare sotto copertura e ufficiosamente. Non vedo alcuna possibilità per me di tornare nel panorama ufficiale del cinema iraniano. La perversità del sistema è che non hai via d'uscita. Qualsiasi regista indipendente, anche se si considera molto sovversivo, non ha altra scelta se non quella di lavorare su progetti finanziati da questo istituto militare e di sicurezza. Se vuoi far parte del sistema devi lavorare sui loro progetti.

lunedì 10 febbraio 2020

Sotto gli ulivi (Abbas Kiarostami, 1994)



Chiude la trilogia di Koker, composta da "Dov'è la casa del mio amico" e "E la vita continua", quello che è il primo film prodotto direttamente da Abbas Kiarosami (che cura anche sceneggiatura e montaggio), dopo il divorzio dall'istituto pedagogico Kanun.
Inventando una nuova storia, nata nel corso della lavorazione del film precedente, "Sotto gli ulivi" (Zire darakhatan zeyton) offre al regista l'occasione per una riflessione metacinematografica (approccio assente nella prima bozza della sceneggiatura) e, volendo, costituisce anche un dittico con un film esterno alla trilogia come "Close-Up".
Ma è anche il film di Kiarostami che più si avvicina a una storia d'amore, per quanto atipica, nata sulle macerie del terremoto che ha sconvolto la zona, e durante le riprese di un film. Hossein e Tahareh, marito e moglie nella 'finzione', nella 'realtà' diventano un tenero corteggiatore e una corteggiata che respinge, silente, la sua proposta di matrimonio, anche per la contrarietà della nonna - unica superstite del sisma nella famiglia della ragazza - che gli contesta l'analfabetismo e la povertà.

"Sotto gli ulivi" inizia autodenunciandosi come finzione, con il celebre (in patria) attore Mohamad Ali Keshavarz* che, guardando direttamente la macchina da presa, si presenta con nome, cognome e ruolo all'interno del film: interpreta il regista di "E la vita continua" e sta svolgendo il casting delle attrici. La prima sequenza doveva chiarire ogni equivoco: il film è una ricostruzione del set, non il set stesso. Per questa ragione nelle lavagne del ciak c'era sempre scritto "Sotto gli ulivi" e non "E la vita continua". Per lo stesso motivo la voce radiofonica che sentiamo nell'auto parla di 1993, il periodo in cui abbiamo girato "Sotto gli ulivi". Dopotutto, il bello di questa pellicola è che ogni riferimento temporale perde la sua definizione.**






La continuità della prolusione di Keshavarz è interrotta da un'aspirante attrice, ed è un primo disturbo brechtiano alla linearità del racconto.
Comincia così un labirintico gioco di rimandi tra realtà e rappresentazione. Come nota Dario Cecchi, c'è una scena nel cimitero del paesino dove, a un certo punto, il ragazzo va a 'intruppare' nella troupe che sta girando una scena e lì compare Kiarostami vero, non l'attore che fa il regista nel film. (...) In questo modo Kiarostami ragiona sulla forma-cinema e sul modo in cui il cinema afferra il tempo dell'esperienza umana e lo trasforma in qualcosa di ricco di senso.
Come nei migliori film iraniani, il gioco intellettuale non è fine a se stesso, il corpo estraneo del cinema agisce sul microcosmo della realtà locale, interagendo con le umili esistenze di chi popola quella comunità. Rimangono impressi personaggi come il primo attore selezionato, incapace di parlare alle donne senza tartagliare. Si ripresentano riflessioni deliziose e un po' naive sul senso della settima arte e delle sue ricadute sulla vita quotidiana: il protagonista maschile recita per non fare più il manovale; la controparte femminile ha indossato il vestito buono, che però è inadatto per interpretare una contadina; perché poi recitare in un film che non passa in televisione?

Percorsa la consueta strada a zig-zag, simbolo della trilogia, il film approda al memorabile finale sulle note del Concerto per oboe di Domenico Cimarosa, in una delle sequenze più celebri dell'arte kiarostamiana. Il corteggiamento avrà avuto successo? La ripresa in campo lunghissimo, come nell'epilogo di "Close-Up", preserva l'intimità dei personaggi, osservati con uno sguardo etico e discreto, mentre lo scenario del verde uliveto sembra richiamare un biblico giardino dell'Eden abitato, dopo la distruzione, da novelli Adamo ed Eva.***




Per chi giunge alla visione di "Sotto gli ulivi" conoscendo il resto della trilogia, è una sorpresa rivedere, vivo e vegeto, Babak Ahmadpoor, cercato invano in "E la vita continua", dove invece già compariva il fratello Ahmad. Altri personaggi vengono nominati, se ne sente talvolta la voce, restano però fuori campo.
La location di Koker avrebbe dovuto essere utilizzata anche per un ulteriore spin-off, ma il progetto di un quarto film non è andato in porto.

Il futuro cineasta Jafar Panahi compare nel ruolo di se stesso: è il primo assistente alla regia.

Iscritto al concorso principale di Cannes, "Sotto gli ulivi" non ottiene premi, ma consolida la fama mondiale di Kiarostami. In Iran, invece, l'accoglienza è ancora tendenzialmente negativa, con rinnovate accuse al regista di fare sciacallaggio sul terremoto e di realizzare film ad uso dei festival occidentali. Finalmente, nel 2009 la rivista "Film" inserisce "Sotto gli ulivi" tra le migliori pellicole persiane di sempre. 
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Il film si può vedere, in edizione italiana, a questo link:
https://www.youtube.com/watch?v=KHCet8DCUKg


*Kiarostami non sarà però soddisfatto della scelta e per qualche tempo smetterà di lavorare con gli attori professionisti
**Parole del regista, contenute in "Kiarostami", a cura di Alberto Barbera e Elisa Resegotti
*** È la suggessiva interpretazione di Alberto Elena, dal suo "The Cinema of Abbas Kiarostami"

giovedì 23 gennaio 2020

Il Fajr cancella la cerimonia d'apertura, gli artisti si dividono



A seguito di una serie di boicottaggi annunciati dagli artisti, tra cui quello del veterano regista Masud Kimiai, il Fajr International Film Festival, la più importante kermesse cinematografica del paese, che si tiene annualmente a Teheran, ha annunciato l'annullamento della cerimonia di apertura prevista per il prossimo 1° febbraio. Come riporta il sito Al Monitor, la decisione è stata presa il 15 gennaio, ufficialmente in solidarietà con le famiglie delle 176 persone uccise dai missili che l'8 gennaio hanno abbattuto un aereo di linea ucraino.

Tra gli importanti attori che hanno anche deciso di boicottare il festival figura Payman Moaadi, il protagonista di "Una separazione". Altri nomi comprendono Pegah Ahangarani, Sara Bahrami, Maryam Bobani e Parastoo Golestani .

Varie compagnie teatrali internazionali, che avrebbero dovuto partecipare agli eventi collaterali del festival, si sono unite al boicottaggio [tra queste l'Odin Teatret di Eugenio Barba], così come altri artisti hanno preso iniziative analoghe.

Alcuni ambienti però hanno criticato duramente la scelta, come il giornale Kayhan, o l'attore Shahab Hosseini, il protagonista de "Il cliente", secondo cui il boicottaggio sta alimentando le divisioni nel paese.


Link all'articolo integrale in inglese:
https://www.al-monitor.com/pulse/originals/2020/01/ranian-artists-boycott-fajr-festival.html#ixzz6BrYnWbdb


EDIT 139 artisti del cinema si sono schierati per il boicottaggio. Tra loro Jafar Panahi, Mohammad Rasoulof e Ali Mosaffa. Intanto l'attrice Taraneh Alidusti è stata convocata in tribunale.
https://en.radiofarda.com/a/iran-s-annual-film-festival-on-verge-of-collapse-after-boycott-by-movie-stars/30392945.html?fbclid=IwAR2_mQAKO3yawpXQcedupDgsuDg4GTbKJKkBP4Dkwt3Ve5ujs8MODaO1VAo