venerdì 18 settembre 2020

Una introduzione. Farhadi per il pubblico italiano

La parola a Khorshid Shekarie Aureh, studentessa dell'istituto Gobetti Volta di Bagno a Ripoli (FI). Khorshid ha raccontato la storia del cinema persiano ai suoi compagni di scuola, soffermandosi in particolare su Asghar Farhadi, di cui ha svelato alcuni interessanti aspetti culturali di non facile comprensione per gli spettatori italiani, giovani e meno giovani. Quello che segue è un breve resoconto delle sue presentazioni.


About Elly


Ho cominciato dalla collocazione geografica dell'Iran, facendo poi una carrellata sulla storia del cinema persiano dal 1962, quando con “La casa è nera” Forough Farrokhzad ha dato in qualche modo inizio alla Nuovelle Vague, facendo un cinema diverso dal commerciale filmfarsi. Ho scritto sulla lavagna i nomi dei registi (ad esempio Golestan e Mehrjui) divisi per epoca, poi ho parlato dei cambiamenti che ci sono stati con la Rivoluzione, dal vestiario alle trame, dai temi agli interessi dei registi. Credo che i film d'autore non siano più una forma di svago per il pubblico. Ci sono stati mutamenti sottili che hanno permesso di veicolare un messaggio diverso. Ho citato in particolare la famiglia Makhmalbaf, poi Panahi - soprattutto “Taxi Teheran” che era un film abbastanza conosciuto e che ha suscitato domande dalla classe. Poi ho parlato di Ghobadi e infine mi sono concentrata su Farhadi, affrontando “About Elly”, “Una separazione” e “Il cliente”.

Di “Una separazione” ho proiettato alcune scene, mentre di “About Elly” e “Il cliente” ho mostrato solo il trailer, perché non avevo delle copie sottotitolate in italiano e sarebbe stato troppo scomodo tradurre a voce sul momento. Dopo i trailer ho raccolto un giro di domande: i ragazzi erano stupiti del fatto che in Iran esistessero il cinema e i film! Ma anche se ne fossero stati al corrente, quello di Farhadi è comunque un cinema pieno di dettagli della cultura iraniana che portano il pubblico italiano a farsi delle domande. 

Farhadi mette al centro la società iraniana. Come però ha egli stesso evidenziato nelle conferenze, parte dall'individuo, dalla coppia e dal nucleo familiare, per poi espandersi a tutta la società. I personaggi sono neutri, non possiamo identificare degli antagonisti, dei buoni e dei cattivi: il regista lascia tanti punti interrogativi per il pubblico.

Facciamo degli esempi. In “Una separazione”, le dinamiche tra Nader e Simin (i protagonisti) e tra Razieh e Hojjat (la badante e suo marito) sono diverse. Anche perché appartengono a ceti sociali differenti (mentre i personaggi di "About Elly" sono omogenei). Ma anche lo stesso Hojjat, apparentemente “cattivo”, irascibile, ha tantissimi lati umani, pur provando rancore quando scopre che la moglie va a lavorare a casa di un uomo che non è della sua famiglia. Un namahram, si dice in persiano. Non possiamo dire che questo personaggio abbia torto o ragione, Farhadi ne fa vedere il lato umano.

Ho fatto vedere la scena in cui Razieh chiama il mullah per chiedere se può curare il padre di Nader. Durante la proiezione, in molti non hanno capito di cosa si trattasse. Mi sono soffermata sul concetto di namahram, spiegando quali sono le persone che possono avere un contatto diretto - in questo caso i familiari della donna e i fratelli del marito. Nessun altro uomo può entrare in contatto con lei: il fatto è che doveva lavare l'anziano e cambiargli il pannolone. Essendo l'uomo vecchio e malato, non le è stato proibito. Il fatto che poi, al termine della sequenza, la figlia di Razieh aggiunga spontaneamente “non lo dico a papà”, secondo me dipende dal fatto che le due appartengono a una famiglia religiosa di ceto medio-basso della capitale. Molte cose che Razieh dice nel corso del film non posso essere totalmente capite, forse, dal pubblico italiano o occidentale. Ad esempio quando Nader la accusa di aver rubato del denaro da un cassetto, il modo in cui lei reagisce è tipico di una persona molto devota. Ho notato che nella traduzione italiana non sono riportate tutte le personalità religiose su cui lei giura, ma in ogni caso l'elenco è molto significativo. Inoltre, in diverse scene del film giurano sul Corano. È una cosa abbastanza comune in Iran, ma comunque ha il suo peso; quando si giura sul Libro Sacro bisogna essere molto sicuri. Questo la dice lunga sulla fede di questa famiglia, ma forse chi non conosce bene la realtà iraniana non coglie appieno la drammatica serietà di tali giuramenti.

Altrettanto interessante è la prima scena, in cui il regista inquadra i volti di Nader e Simin senza far vedere il giudice. Secondo me significa che aveva l'intenzione di concentrarsi sui personaggi e sulla coppia, mostrando le loro emozioni insieme, non prima dell'uno poi dell'altra, o viceversa. Credo però che il concetto di separazione assuma connotati più generali, al di là della storia della coppia principale. Anzi è proprio questo il tema centrale. Il film parla di separazioni tra le classi sociali, del conflitto che si produce tra Razieh e Hojjat; di varie separazioni che si stanno consumando a livello sociale all'interno del paese, sia tra persone religiose che non credenti.

Una separazione

Ne “Il cliente” è interessante l'inserimento del teatro – i protagonisti Emad e Rana sono entrambi attori - perché contribuisce alla sceneggiatura del film. Emad è una persona che recita anche giù dal palco. Infatti ha inizialmente un tono sostenuto, ma si spoglia di questa maschera al cospetto di una situazione grave e inaspettata che lo manda in collera.

Quando Emad rifiuta di mangiare il cibo comprato coi soldi del presunto stupratore, magari lo spettatore italiano può pensare che sia per una questione religiosa, ma non è del tutto vero. Infatti in Iran c'è molto la cultura dei “soldi puliti” e dei “soldi sporchi”, e questo si vede chiaramente anche  dal modo in cui le persone parlano. Per una persona che vuole guadagnare soldi per raggiungere onestamente un livello di vita appagante, la parola che si usa è nan-e halal, cioè pane halal, lecito. Il concetto di nan-e halal non ha solo a che vedere con il cibo: quando qualcuno dice di voler arrivare ad avere nan-e halal, significa che vuole conseguire uno status sociale rispettabile, che vuole arrivare a guadagnare denaro pulito.
Questo aspetto si può in qualche modo notare anche in “Una separazione”, quando la famiglia di Nader va a casa di Razieh per convincerla ad accettare il risarcimento. Nell'audio originale, Razieh usa il termine pul-e haram, con cui si intende il guadagnare soldi con un lavoro “sporco”. Ma in questo caso Razieh usa tale espressione per riferirsi alla sua menzogna rispetto all'aborto. Qui il concetto è più legato alla religione, a qualcosa di cattivo che potrebbe succedere se lei accettasse quei soldi. Spesso tradizione e religione si intrecciano e non è facile capire l'origine dei comportamenti; anche un iraniano non musulmano, o un musulmano non praticante, può avere degli atteggiamenti tipici, uguali a quelli di un connazionale musulmano osservante. È ovvio che questo non accade sempre, però alcuni aspetti della religione si sono talmente integrati nella cultura che non si riesce più a distinguerli. 

Farhadi e Shahab Hosseini sul set de Il cliente


Tornando invece a “About Elly”, una cosa che i miei compagni di scuola non hanno ben compreso è l'atteggiamento di Sepideh nei confronti del personaggio tornato dalla Germania, interpretato da Shahab Hosseini. Mi hanno chiesto: perché è così importante presentare le ragazze ai ragazzi? Ho notato che in Italia queste presentazioni formali non si usano più, mentre restano attuali in Iran; sono legate alla cultura tradizionale e non alla religione. Forse dipende dal fatto che gli uomini non si sentono ancora molto sicuri nelle relazioni amorose. È una cosa che ho notato anche tra i miei amici e familiari.









 


venerdì 4 settembre 2020

The Wasteland - Dashte Khamoush (Ahmad Bahrami, 2020)


In questi primi giorni di Mostra di Venezia Dashte Khamoush è senza dubbio il film che ci ha colpito maggiormente, si tratta un lavoro estremamente politico e umano, e dal punto di vista formale pregevolissimo. È il racconto di una piccolissima comunità di dimenticati al confine nord iraniano; nel mezzo del deserto circa una ventina di persone - uomini, donne e bambini - lavorano in una fornace che produce mattoni ancora in modo tradizionale. Famiglie di etnie diverse faticano nella fabbrica e il capo sembra essere in grado di risolvere i loro problemi. Lotfollah, un quarantenne nato proprio nell'opificio, è il sorvegliante, ma funge anche da tramite tra operai e proprietario. In un giorno qualunque quest’ultimo ha chiesto a Lotfollah di riunire il personale davanti al suo ufficio perché deve annunciare una novità importante.

Il film ci mostra le azioni ripetitive nella fornace, lo scopo dell'attività è la produzione di mattoni identici e l’impatto di questo luogo e del lavoro meccanico ha evidentemente reso gli operai esseri umani disillusi e docili. La ripetizione è una delle caratteristiche principali del film, che è ambientato nel corso di un’intera giornata; la gestione del tempo è fondamentale in un'opera che, un po’ come "Satantango" di Bela Tarr, presenta una sequenza che si ripropone più volte e ci permette a poco a poco di scoprire sempre qualcosa di più della storia. Si tratta del momento in cui il padrone comunica agli operai il futuro del mattonificio; nel tempo che intercorre tra il reiterarsi di questa sequenza c’è il lavoro e ci sono i colloqui personali tra capo e maestranze in cui ognuno dice la sua verità, come avveniva in "Rashomon" di Kurosawa. Riferimenti altissimi per un film importante che ha nella forma un aspetto di grande interesse: il regista gira in 4:3 in un bianco/nero che ci riporta indietro nel tempo e che rinchiude i personaggi in un formato ristretto. Sostanzialmente girato solo con panoramiche per accentuare questa ripetizione dei movimenti, senza primi piani e con solo quattro leggerissime zoomate durante la famosa riunione: fare un film oggi con sole panoramiche è un'impresa che Bahrami compie con apparente semplicità, riuscendo comunque a creare empatia coi personaggi.

"The Wastland" è ovviamente un film importante sul lavoro, che racconta l’assenza di diritti. I dipendenti sono operai senza studi, senza futuro e ovviamente senza coesione sociale, vedono nel capo l’unico sbocco per cambiare qualcosa della loro povera esistenza: la pensione per il più anziano, la libertà per uno dei curdi, un futuro per una donna senza marito, qualcosa di diverso per un uomo di quarant'anni che ha visto solo la fabbrica in tutta la sua vita.

Ahmad Bahrami è un regista iraniano quasi cinquantenne che ha iniziato tardi con il cinema. Dopo aver partecipato nel 2010 a un workshop di Abbas Kiarostami, esordisce nel 2017 con il lungometraggio "Panah" - anche questo ambientato nel cuore del deserto iraniano - che racconta la vita di un piccolo villaggio che dipende dagli sforzi di un ragazzino pronto ad aiutare il prossimo. Con quest’ultimo film Bahrami continua a lavorare sul deserto persiano e con personaggi ai margini: i lavoratori senza documenti sono immigrati azeri o curdi. Le motivazioni del regista vengono dalla sua famiglia: il padre ha lavorato in fabbrica ed è andato in pensione dopo trent’anni di fatiche. Per il regista iraniano questo è un omaggio al genitore e a tutti coloro che, in ogni parte del mondo, lavorano duramente.

Dashte Khamoush, che in italiano vuol dire “terra desolata”, racconta una storia di oggi ma è sostanzialmente un film senza tempo perché non dà delle coordinate temporali e assomiglia terribilmente a molti altri lungometraggi visti negli anni. Siamo in Iran ma potremmo essere in molte regioni remote del mondo. Ci fa anche pensare al nostro passato. Crediamo sia giusto che il cinema si interroghi sulle periferie della terra e su una realtà lavorativa senza diritti e senza futuro. Lo sfruttamento del lavoro è uno dei mali di questo mondo e il bisogno di coesione sociale dei lavoratori è sempre più necessario.

Recensione di Claudio Casazza

giovedì 3 settembre 2020

Libro: Visioni di contrabbando - Il cinema inarrestabile di Jafar Panahi (Claudio Zito, 2020)


Nel 2016 ho aperto il blog e la pagina Facebook “Cinema Iraniano” per un motivo: da internauta mi sarebbe piaciuto trovare in rete qualcosa di simile, che però non c'era. È stato e resta un piacere, e anche una sorpresa, vedere tante persone che seguono il blog e gli account collegati.

Ma ancora prima, molto prima del 2016, avrei voluto leggere una monografia su uno dei miei registi preferiti: Jafar Panahi. Nessuno l'aveva scritta e già allora pensavo di farlo io. Ce l'ho fatta a distanza di anni: “Visioni di contrabbando – Il cinema inarrestabile di Jafar Panahi” esce oggi per Digressioni Editore. Spero e mi auguro che possa suscitare altrettanto interesse.

Per qualche giorno è possibile acquistarlo a prezzo scontato:
https://digressioni.com/prodotto/visioni-di-contrabbando/?fbclid=IwAR0bRKAG8E9GlRnLITKDa0Yf_wvQb_X22qZ0qCafbgYqOLs9BrMsBD92J3o

Grazie a tutte e a tutti coloro che vorranno leggerlo!