domenica 13 ottobre 2019

Sly, Kamal Tabrizi (2018)

Una commedia iraniana di qualità, ad essere onesti, non è così frequente, specie se di taglio satirico. Accade con "Sly", film che riecheggia sin dal titolo un altro bell'esempio firmato dallo stesso regista Kamal Tabrizi: "The Lizard", in persiano Marmoulak, mentre "Sly" è Marmouz.



La lucertola del film del 2004 è un evaso che si traveste da mullah, con effetti comici destabilizzanti, che portano la pellicola alla censura ma anche a una vastissima popolarità: Tabrizi realizza l'anno seguente un video a sostegno della campagna presidenziale dell'ayatollah Rasfanjani con esiti controproducenti, poiché il pubblico associa il filmato alla precedente satira del clero.

Il camaleonte del film del 2018, interpretato da un attore in rampa di lancio come Hamed Behdad, è Ghodratollah Samadi, uno scalcagnato politico reazionario che sogna di approdare al Majles, il parlamento iraniano, e che acquisisce celebrità per caso grazie a un episodio controverso. In comune con l'opera precedente c'è il risultato trionfale al botteghino ma non la censura, visti il mutato clima politico e il bersaglio: il protagonista è chiaramente ispirato all'ex presidente Ahmadinejad, ormai caduto in disgrazia, i cui tentativi di ritornare in auge sono stati fallimentari. Anche il citare i monarchici in esilio, che Samadi incontra in Turchia, non sembra più un tabù, e la ministeriale Farabi Film Foundation sta facendo circolare "Sly" anche all'estero, per il momento in rassegne. In Italia si è visto a Roma.

Alla berlina c'è soprattutto la cultura ultraconservatrice, la retorica e i metodi di chi sbraita contro i prezzolati dal grande satana americano e contro i liberali, di chi si fregia dell'appellativo di haji (colui che ha assolto il dovere del pellegrinaggio alla Mecca), ma si arroga il diritto di usare violenza sostituendosi ai basij (la polizia morale). Ma Tabrizi non risparmia frecciate neanche al trasformismo dei politici di altro colore, né a tanti tic della società civile nel suo complesso (dalla chirurgia estetica, alla barba lunga) e alla volatilità dell'opinione pubblica. Ne esce uno spaccato intelligente e spassoso, sebbene non troppo profondo. Chissà che non trovi una distribuzione regolare anche nelle nostre sale.






giovedì 3 ottobre 2019

Libro: Conversations With Kiarostami, di Godfrey Cheshire (2019). Intervista all'autore

Nella vasta bibliografia dedicata al più studiato dei registi iraniani, una delle migliori uscite di sempre, che speriamo venga tradotta in italiano. Una lunga conversazione che ripercorre, film dopo film, compresi i più rari e invisibili, tutta la filmografia di Abbas Kiarostami fino a "Il vento ci porterà via" (1999). Il regista getta nuova luce sulla propria opera, svelando una miriade di aneddoti e segreti di lavorazione, incalzato dalle argute domande di un critico competente e attento. 

Veterano della critica cinematografica americana, autore per New York Times, Variety, Film Comment, The Village Voice, Interview, Cineaste, Godfrey Cheshire ha gentilmente concesso questa intervista al blog.




Lei è un critico molto importante, ed è uno dei principali divulgatori del cinema iraniano negli USA. Qual è stato il suo primo impatto con il cinema di Abbas Kiarostami?

Ho incontrato per la prima volta il cinema iraniano quando la rivista "Film Comment" mi ha chiesto di coprire il primo festival di film iraniani post-rivoluzionari che si è svolto a New York, nell'autunno del 1992. Anche se cerco sempre di tenermi informato sul cinema internazionale, non ero al corrente di una qualche attività significativa in Iran, quindi sono rimasto completamente stupito dalla qualità dei lavori che ho visto in quel festival: il numero di registi affermati e di film eccellenti. A quel tempo Kiarostami non era considerato dagli iraniani il loro regista più grande, ma sono rimasto particolarmente colpito dalla sua opera. Ho considerato il suo "Close-Up" uno dei film più incredibili che avessi mai visto, e mi sono piaciuti molto anche "Dov'è la casa del mio amico" e "E la vita continua"..


Lei suddivide, con molto acume, la carriera di Kiarostami in tre periodi di circa 15 anni l'uno. Ce li può riassumere?

Chiamo il primo periodo "Kanun". Il Kanun è l'istituto in cui Kiarostami ha lavorato, il Centro per lo sviluppo intellettuale dei bambini e degli adolescenti. È il periodo di prima che diventasse noto fuori dall'Iran. Corre tra il 1970 e il 1985 e comprende numerosi cortometraggi e mediometraggi oltre a due lungometraggi drammatici, "Il viaggiatore" e "The report" e al documentario "Gli alunni della prima classe".

Il secondo periodo, il periodo "Capolavori", va dal 1986 al 1999 e comprende i sette film che hanno reso Kiarostami famoso nel mondo: "Dov'è la casa del mio amico", "Compiti a casa", "Close-Up", "E la vita continua", "Sotto gli ulivi", "Il sapore della ciliegia" , "Il vento ci porterà via".

Il terzo periodo, che va dal 2000 fino alla sua morte nel 2016, lo definisco il periodo "Sperimentale". Include film drammatici digitali a basso budget, cortometraggi e documentari; film come "Five", "Shirin" e "24 Frames" che meritano di essere classificati come sperimentali; e due lungometraggi di sceneggiatura realizzati fuori dall'Iran, "Copia conforme" e "Qualcuno da amare".


Tra i suoi film preferiti c'è "L'abito di nozze", che non è uno dei più famosi. Ci spiega l'importanza e la bellezza di questo film?



"L'abito di nozze", un film di un'ora che Kiarostami ha realizzato a metà degli anni '70, è una commedia su due adolescenti che vogliono prendere in prestito un abito da un ragazzo che lavora da un sarto. Ha un sacco di umorismo, astuta osservazione sociale, psicologia interessante, persino un po' di suspense. Rappresenta i punti di forza del lavoro di Kiarostami nel periodo "Kanun" che porterà alla svolta internazionale di "Dov'è la casa del mio amico".


4) Ha avuto modo di chiacchierare con Kiarostami anche in merito ai film del terzo periodo? Ci sarà un 'Convesrations Vol. 2'?

Sfortunatamente no. Sono rimasto in contatto con Kiarostami ma non ho più interviste dopo il 1999. Tuttavia, molti dei pezzi che ho scritto sul suo lavoro, incluso il periodo "Sperimentale", saranno nel mio prossimo libro, "In the Time of Kiarostami: Writings on Iranian Cinema", che spero uscirà il prossimo anno.






martedì 1 ottobre 2019

Nel museo del cinema di Teheran

Caro diario, 
finalmente sono riuscito a coronare il sogno di visitare innanzi tutto l'Iran, e con esso il Museo del cinema di Teheran, una tappa per me assolutamente obbligata. 

Si tratta di un museo vecchia maniera, diverso dai moderni e interattivi musei del cinema italiani. 
Tralascio il bel palazzo qagiaro con annesso giardino in cui è collocato e comincio subito a parlare di settima arte.

Sul cancello d'ingresso vedo affisse le locandine dei nuovi film di Nima Javidi e Alireza Raisian, oltre che di "Just 6.5". Forse non proiettano più classici, ma solo prime visioni? Non saprei; non parlando persiano, reperire alcune informazioni è per me complicato; in ogni caso preferisco godermi la visita senza pormi troppi quesiti.

Addentrandomi nel cortile mi accoglie il faccione di Ezatollah Entezami, il grande attore scomparso l'anno scorso. Scopro essere stato tra i fondatori del museo. E infatti lo si ritrova ovunque, è la vera superstar del luogo, celebrata anche con una statua di cera. Sarà anche perché ha interpretato lo scià qagiaro innamorato del cinematografo in "Once Upon a Time, Cinema" di Mohsen Makhmalbaf?





All'interno del palazzo, leggo le schede informative e mi accorgo subito di una cantonata, talmente colossale che mi sorge il dubbio di aver sempre avuto informazioni sbagliate sulla nascita del cinema in Persia: il primo film "Abi and Rabi" viene datato 1900 anziché 1930. In realtà si tratta di un refuso, tanto che poco più avanti si trova la locandina del film, con la targa questa volta corretta.




Le due sale principali ospitano le bacheche dedicate ai singoli artisti. La prima sala ha appese locandine di grandi classici non esportati (diciamo così). Chiedo a un'addetta quale sia il titolo internazionale di un film che non riconosco, lei telefona a qualcuno, poi su un pc me lo mostra: "Tranquillity in the Presence of Others". Annuisco e le dico il nome del regista: Naser Taghvai. Lei spalanca gli occhi stupefatta, ma in realtà ha chiesto il titolo di un'altra locandina, che io avevo scambiato per "The Pear Tree" di Dariush Mehrjui:






Ora pertanto rimango con il mistero: di che film è questa locandina che ho fotografato, che pur mi dice qualcosa? Potrei scoprirlo abbastanza facilmente, ma i misteri mi piacciono, per cui non indagherò. Tu lo sai, caro diario?



Tornando alle bacheche, lo spazio si basa fondamentalmente sulla generosità degli artisti, che hanno donato i premi ricevuti (davvero tanti in festival italiani!) e altro materiale. Questo crea la sovraesposizione di nomi poco rilevanti e l'esclusione da questa sezione principale di maestri come Bahram Beizai. Scelta probabilmente obbligata, nondimeno discutibile.

Caso vuole che l'artista più generoso abbia creato una bella contraddizione: è normale, diario, che un cineasta a cui è proibito girare film venga celebrato nel museo nazionale del paese che glielo impedisce? Ebbene sì, Jafar Panahi ha donato tutti i premi più importanti della prima parte della carriera, compreso il Leone d'oro per "Il cerchio", ha uno degli spazi più ampi e, addirittura, la sua scheda cita tra i film più importanti "Taxi Teheran", girato illegalmente, in violazione della sentenza che lo ha condannato!



Già ai tempi del processo, il cineasta nell'arringa aveva evidenziato il paradosso: lo spazio concesso ai premi di Jafar Panahi al Museo del Cinema di Teheran è molto più grande della cella della sua prigione.


C'è poi chi ha donato nientemeno che la Palma d'oro, invero l'unico iraniano ad averla vinta:



L'esposizione non è invece aggiornata ai trionfi di Asghar Farhadi.

Caro diario, se ti interessa una panoramica completa di questa sezione, ho fatto un filmino per te:





Le altre sezioni, al piano di sotto, sono molto più modeste e riguardano il cinema di guerra, i bambini attori, e le sagome cartonate di tanti protagonisti della nostra cinematografia preferita.
Nel complesso, il museo si visita in un quarto d'ora... io ci sto più di un'ora e mezza!

Uscendo, vado alla ricerca del 'famoso', segnalatomi sia da amici che dalla Lonely Planet, rivenditore di film rari e di gadget. Chissà che non trovi "Tangna" di Amir Naderi o "The Beehive" di  Fereydun Gole con sottotitoli in inglese, o i primi cortometraggi di Panahi, anche senza sottotitoli. L'unico negozio che vedo, però, vende libri. Chiedo se hanno qualche locandina. Risposta... sì, di "Harry Potter"!

Rinuncio a proseguire la ricerca e, dolorante alla schiena, mi concedo un paio degli ottimi cocktail alla frutta del bar del museo. È stata una visita giunta al termine di una giornata stancante. Però ne è valsa la pena.