giovedì 18 luglio 2019

Un oscuro leitmotiv: il suicidio nel cinema iraniano

Non è solo il tema del capolavoro di Abbas Kiarostami, "Il sapore della ciliegia", unica Palma d'oro approdata in terra di Persia: vero o fittizio, minacciato o simulato, sospetto o pianificato, tentato o effettivamente commesso, il suicidio è un inquietante leimotiv che accompagna da sempre il cinema iraniano d'autore e i suoi autori più prestigiosi.

Difficile spiegarne il motivo, in un paese con un tasso di suicidi non particolarmente elevato. I film non parlano di attentati, di jihadismo terrorista; i protagonisti non vogliono commettere uno dei peccati più gravi per l'Islam.
Di certo non si tratta banalmente, o esclusivamente di una reazione politica contro gli ayatollah, se è vero che si apre con un suicidio uno dei film che segnano la nascita della Nouvelle Vague persiana: "Gheisar" di Masoud Kimiai, opera del 1969, dieci anni prima della Rivoluzione. La giovane Fati si toglie la vita poiché disonorata da un uomo, assecondando la cultura retriva della sua famiglia per cui la morte autoinflitta è meno grave del disonore.


La giovane Fati soccorsa invano, in Gheisar


Ma ancor prima, nella realtà, si era ucciso a Parigi il più celebre scrittore di prosa del '900 iraniano, Sadegh Hedayat. Il suggestivo documentario "Talking with a Shadow" di Khosrow Sinai tratteggia la sua figura.
E casualmente molti dei maggiori cineasti, di diverse generazioni, affrontano il tema all'estero, forse perché in patria il Ministero della Culura e dell'Orientamento Islamico vieta i film che illustrano attività pericolose e criminose e mostrano scene di violenza e tortura. L'emigrato Sohrab Shahid Saless ne parla in Germania, nel suo ultimo film "Roses of Africa", Asghar Farhadi nella trasferta francese de "Il passato", in cui  la moglie di uno dei protagonisti è in coma dopo aver provato a uccidersi.
Appena oltre confine, nei teatri di guerra rispettivamente afgano e iracheno, operano invece Mohsen Makhmalbaf con "Viaggio a Kandahar", in cui una giornalista giunge dal Canada in soccorso a sua sorella che ha minacciato di suicidarsi programmando anche la data, e Bahman Ghobadi con "Turtles Can Fly", che come "Gheisar" si apre con l'insano gesto.


Tre volti

Per arrivare ai giorni nostri, in "Night Shift" di Niki Karimi la storia si sviluppa intorno a una donna sospettosa che il marito voglia farla finita, mentre in "Tre volti" Jafar Panahi insegue le tracce di una ragazza che ha filmato la propria (presunta) impiccagione. Ma già "Oro rosso" iniziava e terminava con il suicidio di un rapinatore.

Quale che sia la ragione, gli esempi sono così tanti, e legati a personalità e film di tale importanza, che non può essere una pura coincidenza. Alcuni li abbiamo anche omessi, chissà quanti ci sfuggono. Peraltro, di quanto fosse ricorrente l'argomento si è a suo tempo accorto anche il vignettista Mahmoud M, che tra i suoi satirici "Nove ingredienti per un film iraniano da festival o da corsa agli Oscar" ha inserito: suicidio dovuto ad afasia e noia.

giovedì 11 luglio 2019

L'isola di ferro, Mohammad Rasoulof (2005)



Mohammad Rasoulof è un regista con sottovalutate ambizioni autoriali, che dialoga sia con i colleghi del proprio paese sia con i maestri del cinema internazionale. Non molto prolifico già prima dell'arresto e delle vicissitudini giudiziarie, ha attraversato una breve fase in cui i film palesavano un gusto per i colori e le allegorie, per poi virare verso un cinema più diretto e cupo.

Nella fase di maggior impatto cromatico rientra "L'isola di ferro" (Jazireh ahani, 2005opera seconda e unica distribuita in Italia, che ricorda nello stile il cinema persiano del decennio o ventennio precedenti, ma il cui soggetto può rimandare in qualche modo a "Underground" di Emir Kusturica, forse citato nella sequenza di un parto al buio illuminato a intermittenza da un generatore.

Un'intera, per quanto piccola, comunità vive all'interno di una petroliera ancorata nel Golfo Persico, che però lentamente affonda e dovrà essere evacuata. Nel microcosmo si riproducono i classici meccanismi sociali, alcuni universali, se è vero che i bambini studiano in una classe mista, gli operai sgobbano mentre qualcuno fa affari, altri più legati, nella similitudine, alla realtà della Repubblica Islamica, come nella storia d'amore ancora osteggiata dalle famiglie, o soprattutto nel tema ricorrente per Rasoulof, che gli dedicherà anche il delizioso documentario "Head Wind", della passione proibita per le televisioni estere, captate attraverso antenne paraboliche. 

Il mondo immaginato dal regista è governato da un capitano che ha il nome evocativo di Nemat ed è interpretato da Ali Nasirian, uno dei più grandi attori persiani di sempre. Nemat comanda con fare paternalistico, ma giunge infine a disporre della vita e della morte di un ragazzo che potrebbe abbandonare la nave, in una sequenza che sembra uscita da "Sonatine" di Takeshi Kitano, insistita oltre i limiti di sostenibilità, che tramuta in definitivo un giudizio fin lì sospeso sulla realtà descritta e sull'incapacità di reazione alle crudeltà del popolo che ne è testimone.



Scene di tortura torneranno drammaticamente nel realistico "Manuscripts Don't Burn", film clandestino sulle persecuzioni degli scrittori iraniani dissidenti.

"L'isola di ferro" rimane invece ancora entro i limiti fissati dalla censura, sprigionando metafore non didascaliche e abbagliando con immagini di grande efficacia scenografica. Il tutto al servizio della narrazione e non di un'estetica fine a se stessa.
Memorabili alcuni personaggi, come il baby pescatore.

Per Taste of  Cinema, è uno dei migliori film iraniani di questo secolo.