Cinema Iraniano

martedì 31 gennaio 2017

I bambini del cielo, Majid Majidi (1997)

LA FELICITÀ IN UN PAIO DI SCARPE



Enzo Staiola piange ancora per le vie della capitale. L’eco si propaga, valica i confini italiani sino a giungere in Iran dove Amir Farrokh Hashemian è in ascolto. Dopo circa cinquant’anni da "Ladri di biciclette" di Vittorio De Sica (1948), Majid Majidi realizza nel 1997 "I bambini del cielo". Paragonato da molti critici al capolavoro neorealista, il film di Majidi ritrae la classe meno agiata in punta di piedi, con ineguale raffinatezza. Nominato agli Oscar al miglior film straniero nel 1998, il lungometraggio di Majidi si compone di una trama semplice. Il piccolo Ali aiuta la mamma ammalata nelle faccende domestiche e la sostituisce nelle commissioni quotidiane. Porta da un calzolaio le scarpe rotte della sorellina Zahra per ripararle ma maldestramente le perde. Conscio della situazione economica difficile in cui versa la famiglia, Ali decide di non recare un’ulteriore preoccupazione ai genitori e non dice nulla. Zahra reclama le sue scarpette ricattando il fratello. È pronta a spifferarlo ai genitori se non fosse che, dopo un fitto scambio di messaggi in sordina, un tenero botta e risposta sul quaderno di scuola, si raggiunge il compromesso. Ali è disposto a scambiare quotidianamente le sue scarpe da ginnastica con la sorella. Ciò implica inevitabilmente lunghe corse mattutine per garantire che l’altro non vada a scuola scalzo. I bambini assorbono i problemi degli adulti, ne diventano la valvola di sfogo e nei loro pianti, catturati in magici primi piani che stritolano il cuore, è iscritta la sofferenza di un secolo. Le pressioni sociali ricadono sulla parte indifesa della società che, a differenza del maturo, acciuffa le piccole gioie che il giorno presenta. Gioie fatte, perlopiù, di piccole cose. Si manifesta quindi la felicità materialistica del bambino. Zahra si accontenta di avere le scarpe del fratello e sorride quando Ali le regala una penna tutta dorata. La gioia dell’adulto, invece, passa per le soddisfazioni arrecate dalla fatica e dal lavoro. Una gioia sudata ma degnamente guadagnata. Nella fantastica scena in cui padre e figlio decidono di scendere nell’erebo borghese se ne ha la prova. In bici, l’unica ricchezza della famiglia, i due cercano qualche lavoretto da giardiniere nelle ville delle classi agiate. Trovano un signore anziano disposto a pagarli. Mentre Ali si diverte giocando, il padre si rimbocca le maniche mentre una sofferta goccia di sudore solca il viso rugoso da mille battaglie e sogni infranti. Il volto, rigato dal dolore, accenna un timido sorriso mentre, tra le mani, stringe la sua paga.


In Majidi prende il sopravvento uno sguardo realista volto ad accentuare la miseria in cui vivono i protagonisti e, in generale, il popolo muto. Il regista s’insinua nelle mura domestiche, spia la povertà e ricalca il disagio “sciocco” vissuto da Zahra. Il non possedere un proprio paio di scarpe diventa un complesso d’inferiorità sottolineato efficacemente dalle numerose soggettive che indugiano sui piedi delle sue compagne di classe. Scarpe colorate, lucenti e nuove e, lei a morire d’invidia, e noi a provare un leggero sentimento di compassione misto a rabbia. Ma Ali sa che deve rimediare al suo errore e non può certo vedere la sorella andare a scuola con scarpe lacere ed inadatte al suo piccolo piede. Decide, quindi, di iscriversi ad una gara di corsa a premi dove, per il terzo classificato, sono previste delle scarpe nuove. Ma non tutto va come si vuole ed Ali arriva primo in una gara sofferta e palpitante. Tra fotografi entusiasti e un allenatore colmo di gioia, come se avesse vinto lui, il piccolo è un torrente di lacrime. Sconfitto dal senso di colpa e afflitto torna a casa portando con sé una triste notizia alla sorella. Il mondo lo ha voluto perdente, in una fantastica plongée che tira i resoconti di un fantastico racconto. Eppure non sa che il padre, tra i vicoli della città, ha comprato due nuove paia di scarpe. Una piccola vittoria che per Ali e Zahra vale tanto, così tanto da non poter essere mostrata al pubblico, onnivoro mostro che, perversamente, si ciba delle felicità altrui.


Alessandro Arpa 

Pubblicato da Claudio Z. alle 00:30 3 commenti:
Invia tramite emailPostalo sul blogCondividi su TwitterCondividi su FacebookCondividi su Pinterest
Etichette: hashemian, I bambini del cielo, Majidi

giovedì 26 gennaio 2017

Pane e fiore, Mohsen Makhmalbaf (1996)


Da "Il velo sullo schermo", con tutte le lungaggini e i didascalismi già confessati.





La trama del film

Sull’immagine di un fiore, un ciak annuncia titolo e cast del film. Alternata ai titoli di testa, vediamo la scena di un uomo che cammina tra due binari, suona il campanello di una casa e chiede di Makhmalbaf. Il primo indirizzo è errato, ma la padrona di casa gli indica il portone esatto. Una bambina vi sta entrando e dice all’inatteso ospite che suo padre non è in casa. Gli chiede poi se è lì per un provino; egli risponde di sì, ma rivela di essere la guardia che, vent'anni prima, Makhmalbaf aveva tentato di disarmare.

Ellissi. Il ciak annuncia che “Il soggetto è stato scelto”. Iniziano i provini. “Tu cosa vuoi fare da grande?”, chiede il selezionatore. “Qualcosa che possa salvare l'umanità” dice il primo candidato. “Mi basta salvare me stesso” dice il secondo. Finalmente inquadrato, Makhmalbaf sceglie “il salvatore dell'umanità” come interprete di se stesso da giovane. L'uomo della prima inquadratura (“la guardia”) seleziona a sua volta il proprio alter ego. Si tratta di un bel ragazzo, per niente somigliante a lui. Ma la parte viene assegnata a un altro candidato, di aspetto molto più simile.

L'uomo si lamenta; il cameraman risponde: “Ma per lei questo film non era più importante del cibo?”.

Il prescelto si informa presso la guardia (che ha già avuto qualche particina in passato) circa le difficoltà della recitazione, le qualità del regista con cui si accinge a lavorare, l’accoglienza che potrebbe avere nel suo paese per aver accettato la parte.

Ma la guardia è restia a rispondere: la scelta dell'alter-ego non l’ha proprio soddisfatto, per cui decide di abbandonare il set. Se ne va su una strada innevata e chiede di essere contattato se eventualmente avessero cambiato idea. Makhmalbaf scommette su un suo repentino ripensamento. Il cameraman corre a riprenderlo, ma lui era già sul punto di ritornare.

Intanto, non inquadrato, “la sua giovinezza” chiede a Makhmalbaf (i due vengono chiamati anche “i suoi vent'anni” e “i suoi quarant'anni”) informazioni sul film.

La guardia fa amicizia con il giovane attore deputato a impersonarlo e rivela di essere stato inizialmente rude perché avrebbe voluto recitare la parte in prima persona.

Vanno a trovare un sarto che non si ricorda della persona cui, vent'anni prima, cuciva le divise (dovrebbe fare lo stesso per il film attuale). Il sarto, che dice di non aver amato lo scià, comincia a parlare del cinema americano di allora.

Successivamente, la guardia insegna il mestiere al ragazzino, che ora è in divisa. A non perdere di vista la pistola, a fare il saluto militare, a marciare.

L'uomo racconta che, il giorno in cui è stato ferito da Makhmalbaf (“Mi ha dato una coltellata, ora fa il regista”), avrebbe dovuto regalare un fiore a una ragazza di cui si era invaghito.

Successivamente, i due simulano il momento dell'incidente. Una ragazza si intromette per chiedere l'ora, un po' come faceva la quella di vent'anni prima, ripetendo tutti i giorni le stesse cose.

Intanto Makhmalbaf accompagna in macchina “la sua giovinezza”; vanno a trovare la cugina del regista, che aveva partecipato all'azione terroristica con il compito di distrarre la guardia. Mentre Mohsen scende dalla macchina, sentiamo le voci di sua cugina e della di lei figlia, che Makhmalbaf vuole nella parte che fu della madre.

La ragazza si avvicina al ragazzo in macchina, gli offre del tè, poi i due iniziano a recitare alcune battute del film che dovrebbero interpretare, o meglio della vita di Makhmalbaf e di sua cugina. Il ragazzo le dà un libro e lei torna a casa dicendo di essere stanca di recitare le battute allo specchio e nonché di studiare: vorrebbe fare l'attrice. La madre però è contraria a questa scelta.

A quel punto, Mohsen e il ragazzo si rivolgono a un’altra giovane. Il ragazzo ha mentito dicendo che si tratta di sua cugina. I due passeggiano insieme, poi si separano momentaneamente, mentre lei continua a chiacchierare come se lui le fosse ancora accanto. Parlano, a tratti con voce buffa, di quello che è il leitmotiv del film: si può provare a salvare l'umanità se si deve pensare a salvare la propria famiglia? Accendono una candela, promettendo di diventare dei buoni genitori dell'umanità. Ricostruiscono la trama del film: dovranno disarmare una guardia per poi fare una rapina in banca per comprare un fiore da piantare nel deserto, oppure pane da dare agli affamati.

La ragazza si allontana, va a chiedere l'ora a un orologiaio, che però ha solo orologi rotti e poi all'alter-ego della guardia, che sta provando la parte con la guardia stessa: è la medesima scena che abbiamo visto in precedenza.

E' notte e la guardia, sdraiata nel letto, chiede al suo alt-ego perché, secondo lui, la ragazza non l'abbia più cercato. Dice di voler fare la parte del buono in questo film, per conquistare la ragazza. (quella “nuova”, cioè quella che ha appena visto nel bazar). Se non otterrà la parte, non potrà perdonarlo a Makhmalbaf, che già una volta gli ha distrutto la vita.

Il ciak introduce la prima ripresa del film: vediamo il ragazzo vestito da soldato e la guardia che lo segue. Quest'ultimo parla con l'operatore chiedendogli consigli su come realizzare bene la scena. Un breve corteo funebre sopraggiunge e la guardia aiuta a trasportare la bara. Anche “la sua giovinezza” li segue, con il fiore in mano, ma la guardia gli ordina di tornare indietro perché “è ora”. Al ritorno, incredibilmente, non c’è più il sole. Ma neanche il fiore: l’ha preso una ragazza e lo ha messo a fianco a un forno, poiché era congelato. Prontamente glielo restituisce.

Makhmalbaf e la sua giovinezza sono ancora in auto. Il regista gli dice di provare a ferirsi con un coltello finto. Vanno a prendere la ragazza che ha accettato la parte e si avviano verso il set. Un ciak, ed ecco la stessa scena vista alle spalle dei due ragazzi. Makhmalbaf dà gli ordini, i due comprano del pane e ne danno un po' a una mendicante. La ragazza va a distrarre la giovane guardia, ma la telecamere rimane sul “giovane Makhmalbaf”, che scoppia a piangere: non riesce a accoltellare un uomo, neanche per finta. La scena viene ripetuta, ma il giovane fatica a trattenere le lacrime; a stento prosegue, tuttavia sul luogo dell’incidente la guardia non c'è: sono arrivati troppo presto. Tornano indietro, ma subito arriva la giovane guardia, alla ricerca della piantina. Anche questa scena l'abbiamo già vista.

Il tutto viene replicato, ma la vecchia guardia abbandona il set quando scopre che la ragazza sta con la giovinezza di Makhmalbaf (e che dunque la ragazza di cui vent'anni prima si era innamorato voleva ucciderlo). Il suo alter-ego lo insegue, mentre noi li vediamo in campo lungo nell'oscurità della notte. I due simulano una scena in cui la guardia imita la ragazza e la giovane guardia le spara. Il giovane non ci riesce e a quel punto le parti si invertono.

Segue una nuova ripresa, molto più montata. La ragazza chiede l'ora, ma la guardia medita di spararle. Dopo qualche esitazione, le porge il fiore. Contemporaneamente, l'alter ego di Makhmalbaf, non inquadrato, le dà la fetta di pane. 



Un'analisi

"Pane e fiore" è uno dei più espliciti tra i tanti film della Nouvelle Vague iraniana dedicati al cinema, che è qui è visto come strumento dalle grandi potenzialità: è in grado di evocare il passato, talvolta in maniera nostalgica, come nel caso del vecchio sarto che rimpiange i vecchi film americani (ma non lo scià), più spesso in modo critico; può spersonalizzare uomini e donne, visto che i personaggi del film hanno un alter ego e non sono chiamati col proprio nome, ma identificati con il ruolo che ricoprono; può affrontare questioni di importanza capitale anche attraverso uno stile stridente e ammaliante, come nella scena in cui gli attori recitano in maniera buffa, o senza badare alla coerenza di spazio e tempo (anche inteso come meteo!); può giocare a stordire lo spettatore coi tipici espedienti metacinematografici volti a confondere i livelli di realtà e di rappresentazione.

Inevitabile che al pubblico occidentale salti in mente Pirandello, ma Makhmalbaf trova spunto piuttosto nella tradizione delle arti del suo Paese: nella struttura a incastro della letteratura, nell’iterazione ossessiva dei temi nelle composizioni musicali e delle parole nella cultura orale, e in particolare nel poeta mistico Mevlana Rumi, citato più volte dal regista nelle interviste, che scrive ciò che segue: 


La verità era uno specchio che cadendo dal cielo si ruppe. Ciascuno ne prese un pezzo e, vedendo riflessa la propria immagine, credette di possedere l’intera verità.

Dunque lo stesso evento può essere visto da molteplici punti di vista e ogni osservatore può darne una propria interpretazione. Allo stesso modo, la medesima scena può essere girata con stili differenti: per gran parte del film gli attori sono inquadrati a lungo senza stacchi, ma nel finale il montaggio si fa più frequente.

Come ormai sappiamo, però, spesso le suggestioni metacinematografiche del cinema iraniano non sono autoreferenziali. In questo caso, forniscono l’occasione per un messaggio pacifista che prende le mosse da un’esperienza autobiografica. E’ autentica la vicenda narrata nel film, Makhmalbaf è stato realmente autore del gesto efferato che viene narrato (e che gli è costato quattro anni di prigione), ma ora è convinto che per salvare il mondo (ma anche la propria famiglia – per riagganciarci al tema ricorrente del film - e se stessi) non sia necessaria la violenza, bensì l’altruismo, simboleggiato dal pane e dal fiore.

Non c’è però soltanto l’autobiografia; emerge anche un raffronto generazionale. Makhmalbaf è cresciuto in un epoca in cui la violenza tra le truppe dello scià e le forze rivoluzionarie imperversava, i cittadini ne erano assuefatti. I giovani degli anni novanta, invece, non sono più in grado di brandire un coltello, sono pronti per una nuova epoca di pace. Nel film si respira infatti quel clima che avrebbe portato alla presidenza dell’Iran, nel 1997, il riformista Khatami, fautore del dialogo con l’Occidente, in contrapposizione allo scontro di civiltà più volte teorizzato dalla controparte. 


Curiosità

L'assistente alla regia, che vediamo più volte, è il protagonista del film di Makhmalbaf "Il ciclista". Da allora diventa un saltuario collaboratore del regista, che lo fa comparire anche in altri film, come "Salam Cinema".

La guardia non è la stessa che aveva ferito Makhmalbaf: si tratta di un attore. 
Il film è conosciuto anche con il titolo "Un istante di innocenza".





Pubblicato da Claudio Z. alle 02:30 Nessun commento:
Invia tramite emailPostalo sul blogCondividi su TwitterCondividi su FacebookCondividi su Pinterest
Etichette: Il ciclista, mohsen makhmalbaf, Pane e fiore, Salaam cinema

sabato 21 gennaio 2017

Viaggio nell'animazione iraniana (parte II)

Un percorso in due tappe a cura di Alessandro Arpa. Qui la prima.



Come preannunciato, dopo la rivoluzione del ’79, in Iran si assiste ad un cambiamento progressivo non solo sociale ma anche culturale. Il cinema d’animazione è investito da nuove idee e alla vecchia guardia guidata da Sadeghi si aggiunge una nuova intelligencija composta da: Ahmad Arabani con “The Axe” (parabola ecologica in cui è protagonista un’ascia che taglia, ferocemente, tutti gli alberi di un bosco. Alla fine la natura si ritorcerà contro), Abdollah Alimorad che in “One is not enough” sperimenta la tecnica della clay animation mentre in “Bahador”, realizzato in stop motion, affronta il tema della lotta di classe tramite la rivolta organizzata da un topolino. Questa è un’opera corale in cui il gruppo è portavoce di quel sentimento di lotta collettivo verso l’oppressione esercitata da chi detiene il potere. Ad utilizzare la tecnica della clay animation è anche Asghar Zadeh in “Companion”. Basata su una storia di Asad Allah Khamesi, l’opera di Zadeh si compone di vuoti, di desolazioni. In un’area desertica, due uomini cercano rifugi per eludere la calura del sole o la pioggia torrenziale. Per risolvere tutti i loro problemi, infine, decidono di costruire una casa. Un dramma sulle solitudini umane risolte nella condivisione e nell’aiuto reciproco. Alla complessità di questi artisti si contrappone la semplicità del disegno delle animazioni di Mohammad Reza Abedi. Le figure si spogliano del superfluo e dei dettagli. Al rogo gli inutili complementi. In “The Playmate”, due bambini drasticamente stilizzati giocano insieme, si fanno i dispetti ma alla fine mostrano il loro lato debole, infantile e amorevole. “Noghli and the Snow Crystals” ha una trama esile compensata dalla visionarietà dell’artista. Il piccolo Noghli vede, attraverso le lenti degli occhiali del nonno, i fiocchi di neve cadere. La visione si distorce e comincia un viaggio allucinante e sperimentale nella mente del bambino. In questa rassegna di autori, non esaustiva ma evocativa non può mancare Farkhonde Torabi. Nel 1996 realizza “The rainbow fish”, una storia marina, un film sulla vanità. Un pesce arcobaleno grazioso ma vanitoso ha delle squame invidiate da tutti gli altri pesci, ricoperte di gemme scintillanti. La sua boria lo porta all’esclusione. La solitudine lo rende facile preda per i predatori marini ma, grazie all’intervento degli altri pesciolini, riuscirà a salvarsi. Riconoscente, il pesce arcobaleno rinuncerà alla sua bellezza regalandone un po’ ai suoi amici in una danza che, con movimenti sincopati, compone una lucente costellazione equorea. Del 1999, invece, è “Shangoul and Mangoul”, in cui è utilizzata l’animazione 2D e la tecnica cut-out [Immagine 1]. L’intrigo è semplice: un lupo attende il momento propizio per divorare dei caprettini. Quando la madre esce di casa, il furbo lupo attua il suo piano malefico. Le culture si fondono e la favola del lupo e dei sette caprettini dei fratelli Grimm si confonde con una delle fiabe iraniane più celebri.


Merita qualche accenno anche l’animazione del 2000. Tralasciando i lavori in digitale ancora acerbi ed imperfetti, la trattazione verterà su tre casi diversi tra loro sia per tecnica utilizzata che per i temi. Il primo cortometraggio animato preso in considerazione è “The Story of Apple” dove sono utilizzati dei dipinti ad olio eseguiti su una superficie vitrea. Di Mozafar Sheidayi e Seyed Romin Sheidayi, il lavoro racconta il ciclo vitale di una mela dalla sua maturazione alla caduta accidentale da un albero fino alla sua morte, mangiucchiata da vermi e bruchi. Ma la morte instilla nuova vita, nel seme che ingravida la terra c’è la speranza di rinascere. Del 2004 è “The General and the Kite” di Mohammad Ali Soleymanzadeh, una parodia del potere. Un generale tozzo, basso e bruttino riesce, indossando una divisa magica, a mutare conformazione fisica assumendo un’aria austera e solenne. Privato della sua divisa, però, ha una regressione ad uno stato infantile. Il protagonista ha comportamenti da poppante e si diletta a cavalcare un dondolo a gettoni. La smania di potere sarà smorzata dall’intervento di alcuni bambini che useranno l’uniforme militare come se fosse un aquilone. Il potere, defraudato della sua crudele regalità, è declassato e diventa un gioco comune. Ma, chiaramente, è la prima parte del corto a destare un notevole coinvolgimento. La stregata tenuta militare trasforma il generale nei grandi monarchi e dittatori della storia mondiale. Passano in rassegna: Napoleone armato di sciabola, Hitler mentre tiene un discorso, un diplomatico statunitense e Saddam Hussein che, tra le mani, stringe una bomba pronta ad esplodere [Immagine 2/3]. Per concludere, l’ultimo film trattato è “Farmer Duck” del 2004 di Aviz Mir Fakhrayi. Una papera instancabile lavora di giorno e di notte mentre il suo padrone, un abulico contadino, se ne sta a dormire. Proprio quando il giovane fannullone decide di controllare l’operato della papera-lavoratrice, la sorprende durante una meritata pausa. Il tentativo di redarguire il povero animale fallisce per l’intervento rabbioso di un cane che ringhia e attacca l’ozioso umano. Un film riflessivo dedicato a tutti coloro che impartiscono ordini senza poterselo permettere.




Pubblicato da Claudio Z. alle 23:46 Nessun commento:
Invia tramite emailPostalo sul blogCondividi su TwitterCondividi su FacebookCondividi su Pinterest

martedì 17 gennaio 2017

Dov'è la casa del mio amico, Abbas Kiarostami (1987)

Pezzo un po' didascalico - con tanto di lunga trama dettagliata - poiché preparato per la rassegna "Il velo sullo schermo"





Il film sequenza per sequenza 

I titoli di testa scorrono sull’immagine della porta socchiusa di una classe. Si sentono dei passi ed entra il maestro, che subito rimprovera gli alunni scalmanati, controlla i loro compiti e zittisce coloro che parlano senza essere interrogati. Uno dei bambini, Nematzadeh, si prende una sgridata per non aver scritto i compiti sul quaderno; il maestro gli strappa i fogli e il bimbo scoppia a piangere. Entra un ritardatario, accolto dal puntuale rimbrotto. Nematzadeh non ha il quaderno perché l’ha lasciato a casa di suo cugino, che è anche un suo compagno di classe e che prontamente glielo restituisce.

I bambini escono di corsa da scuola, Nematzadeh cade per terra e il suo amico Ahmad lo aiuta ad alzarsi. Quando quest’ultimo arriva a casa, gli altri fanciulli gli dicono di uscire, ma lui rifiuta, dicendo di dovere fare i compiti. Sua madre è alle prese con il neonato che ha in braccio e non fa altro che rivolgersi ad Ahmad con ordini perentori. Intanto, suo cugino sta finendo i compiti, mentre Ahmad deve ancora incominciare. Sta per farlo quando si accorge di aver preso per sbaglio il quaderno di Nematzadeh. Lo dice alla madre, che però pensa sia una scusa per andare a giocare anziché studiare. Inoltre l’amico abita troppo lontano e la madre è inflessibile. Convinta che comunque Ahmad non stia studiando, lo manda a comprare il pane. Ahmad, senza farsi vedere, prende il quaderno di Nematzadeh e esce di corsa.

Percorrendo una strada a zig-zag giunge in cima a una collina, mentre suo nonno lo osserva. Superato un bosco, raggiunge le prime abitazioni di un paese limitrofo e domanda, invano, del suo amico. Una donna gli chiede di lanciarle un panno che le è caduto da un balcone, ma è troppo pesante e Ahmad ci riesce solo a fatica. Incrocia poi un altro suo amico, che però non conosce di preciso la strada per la casa di Nematzadeh, né può accompagnarlo, impegnato com’è nell’aiutare i suoi genitori a trasportare del latte. Anche un vecchio non lo aiuta. Del resto, senza conoscere non solo l’indirizzo preciso, ma neanche il quartiere, non è facile ottenere indicazioni. Ahmad crede di riconoscere i pantaloni di Nematzadeh tra alcuni panni stessi. Una vecchia malata prova a fatica ad aiutarlo, ma presto desiste. Alcune donne che stanno raccogliendo acqua da una fontana, gli dicono che la casa lì vicino è di Ahmadi, il cugino di Nematzadeh, che però è appena andato col padre a Qoker (il paese di Ahmad); si riesce ancora a vederlo in lontananza.




Ahmad corre indietro per raggiungerlo, passa davanti a suo nonno, che gli chiede cosa ci facesse a Poshteh e gli ordina di andargli a comprare le sigarette. In realtà non ne ha bisogno, glielo ha chiesto solo per educarlo, poiché non può permettersi di farsi ripetere un comando tre volte. Come suo padre gli dava le botte ogni due settimane – racconta al suo vicino di sedia - anche lui farebbe così con suo nipote, persino se si comportasse bene.

La macchina da presa ha ormai abbandonato Ahmad e si sofferma su alcuni artigiani di mezza età che trattano con un anziano il costo della riparazione di una porta. Torna Ahmad, che non ha trovato le sigarette. L’artigiano gli chiede un foglio, Ahmad gli dice che il quaderno non è suo e l’uomo glielo sottrae con l’imposizione, anche se non con la forza. Tra gli uomini c’è un signor Nematzadeh, Ahmad gli chiede se sia il padre del suo amico, ma questi non risponde, monta sul suo asino e se ne va, mentre Ahmad lo segue lungo la strada a zig-zag, poi nel bosco, fino a Poshteh. Rischia di perderlo di vista, ma poi nota l’asino legato all’esterno di un’abitazione, mentre l’uomo lo raggiunge, seguito da un bambino che trasporta un’anta. Il Nematzadeh che Ahmad ha trovato non è però Mohamed Reza, ma un omonimo, che può soltanto dargli un suggerimento su dove possa essere il suo amico.

Ormai è buio e Ahmad si aggira invano per Poshteh. Da dietro una porta si sente il rumore di una fresa; un uomo si affaccia, rivelando che l’indirizzo è sbagliato, ma dicendo di conoscere Nematzadeh: suo padre, un suo cliente di vecchia data è stato lì poco fa. Per la prima volta qualcuno si offre di accompagnare il nostro eroe, sciorinandogli le proprie miserie lavorative e familiari. Ecco che gli indica l’abitazione esatta, mentre egli si ferma a riposare. Ahmad però non bussa neanche, preoccupato di tornare a casa al più presto per evitare le legnate di suo padre; tra l’altro l’uomo è anziano e procede molto lentamente. Alla fine non ce la fa più e il bambino procede di corsa da solo, rallentato dagli abbai minacciosi dei cani.

Ahmad è rientrato a casa; la madre gli intima di mangiare, mentre il padre è alle prese con una radio. Ma il piccolo non ha fame, è sull’orlo del pianto e vuole assolutamente finire i compiti. Va a farlo nella sua cameretta, mentre sua madre gli mette il piatto vicino. Una folata di vento spalanca la porta, mostrando i panni stesi che svolazzano, raccolti dalla madre, e facendo sentire i latrati dei cani.

In classe: entra il maestro, mentre Ahmad è tra i ritardatari. Non è ancora arrivato quando il docente chiede i compiti, rimproverando chi non li ha svolti o non lo ha fatto correttamente. Nematzadeh apre la cartella e finge di cercare il quaderno; finalmente Ahmad arriva e glielo dà, con i compiti ricopiati. Il docente non si accorge di nulla e dà la sua approvazione per il buon lavoro svolto.



Un’analisi

Inseriti in una struttura circolare, troviamo in “Dov’è la casa del mio amico” alcuni elementi tipici del regista e del cinema del suo Paese. Innanzi tutto la scelta di un bambino come protagonista: la critica all’educazione autoritaria cui i giovani iraniani vengono sottoposti è affrontata ripetutamente da Kiarostami nei suoi film (da “Il viaggiatore” a “Compiti a casa”), sia precedenti che successivi, così come l’incapacità degli adulti di ascoltarli e capirli emerge sempre con chiarezza. I bambini sono costretti, dietro minaccia di punizioni, non solo a non sgarrare nello studio, ma anche a lavorare in casa per aiutare i genitori; Kiarostami, memore di un’infanzia relativamente travagliata e forte dell’esperienza maturata come direttore dell’Istituto per lo sviluppo intellettuale dei bambini e degli adolescenti (conosciuto con la sigla Kanun), è particolarmente sensibile a questo tema.

Il padre di Ahmad è autoritario tanto quanto il maestro, anche se per tutta la prima parte nel film (come in tutto “Il palloncino bianco”, scritto da Kiarostami e diretto da Panahi) non lo si vede: si avverte soltanto la sua presenza minacciosa. Ciononostante, il giovane protagonista, con la sua caparbietà e attraverso azioni reiterate, riesce a ottenere il risultato sperato, malgrado la società svolga il ruolo di vero e proprio antagonista.

Tuttavia, nel percorso di Ahmad, conta più il viaggio in sé, ovvero l’esperienza formativa, che la meta raggiunta.

Tali vicissitudini sono raccontate con uno stile semplice solo in apparenza, in parte sgrammaticato (stando ai parametri occidentali), basato sull’alternanza di inquadrature lunghe e multiprospettiche, con qualche soggettiva e qualche falso raccordo e che verranno ulteriormente depurati nei film successivi del regista, il quale dopo l’enorme successo di pubblico in patria e un premio a Locarno, che lo farà conoscere in Europa e negli Stati Uniti, oserà maggiormente.

Quanto agli aspetti metacinematografici, non sono così assenti come sembrerebbe: si notino infatti la scelta di interporre spesso oggetti (lenzuola stese, un ammasso di rami e foglie, una porta trasportata a mano) tra la macchina da presa e i personaggi filmati, in modo da ostacolare la visione, e il gusto (più evidente nelle opere successive) per le inquadrature di cornici o oggetti affini, come a individuare un secondo piano di visuale.



Curiosità

"Dov’è la casa del mio amico" contiene l’immagine più celebre del cinema di Kiarostami: La strada a zig-zag, con in cima un albero. Viene tracciata ad hoc ed è un rimando al simbolo del serpente, come raffigurato nel frontespizio di La pelle di zigrino di Balzac. L’albero, anch’esso collocato appositamente, è invece già presente in quadri e fotografie realizzati dal regista in anni precedenti..

Il vento, che spira quasi come in un film di fantasmi, è nella mente di Kiarostami “la metafora più vicina all’inquietudine spirituale”

"Dov’è la casa del mio amico" è il primo film di una trilogia, portata a termine dopo che i luoghi in cui il film è stato girato, il distretto di Mazandaran, viene colpito da un violento terremoto.

I discutibili metodi educativi narrati dal nonno di Ahmad (interpretato da un vecchio del villaggio, analfabeta), a quanto pare, sono gli stessi usati dal padre di Kiarostami con lui.

Il film è ispirato a una poesia di Sohrab Sepehri, cui è dedicato. Essa si intitola Dov’è la Dimora dell’Amico, con la”Dimora” a indicare la quiete mistica e “Amico” il Profeta Maometto. I passi che più interessano per un paragone con l’opera di Kiarostami sono i seguenti:

Tu andrai fino in fondo al viottolo
Fino al punto in cui spunterà l’adolescenza
Poi ti volgerai verso il fiore della solitudine.
A due passi da quel fiore tu ti arresterai
Ai piedi della fontana da cui sgorgano i miti della terra.
Là tu sarai travolto dalla brezza (..)
Vedrai un bambino arrampicato sulla cima di un esile pino
(…) Allora tu gli domanderai:
Dov’è la Dimora dell’Amico?


Pubblicato da Claudio Z. alle 06:00 Nessun commento:
Invia tramite emailPostalo sul blogCondividi su TwitterCondividi su FacebookCondividi su Pinterest
Etichette: Compiti a casa, Dov'è la casa del mio amico, Il palloncino bianco, Il viaggiatore, kiarostami, panahi

giovedì 12 gennaio 2017

Viaggio nell'animazione iraniana (parte I)

Un percorso in due tappe a cura di Alessandro Arpa

(il canale ufficiale youtube dell’Istituto Kanoon è: https://www.youtube.com/user/kanoon2011 )



Nel 1965 nasce, in Iran, l’Istituto per lo Sviluppo Intellettuale dei Bambini e dei Ragazzi, noto al mondo come Kanoon. Il principale obiettivo dell’istituzione è quello di valorizzare l’arte nazionale promuovendo la realizzazione di opere didattiche che possano accompagnare il bambino, ma anche l’adolescente, nel processo di crescita e maturazione. Non deve, quindi, stupire il diffuso moralismo che pervade queste opere. Teatro, editoria, pittura e, in particolar modo, il cinema di animazione, sono i campi promossi dal Kanoon. Attraverso i suoi workshop, ha contribuito alla crescita del Paese e ha puntato considerevolmente sui giovani artisti, considerati i pilastri su cui fondare il futuro della nazione. 

Con la nascita del Kanoon si assiste ad una diffusione internazionale delle opere di animazione e, in un certo senso, potrebbe cominciare la storia del cinema di animazione iraniano in quanto, i primi esperimenti del tardo 1950 non sono pervenuti. Mancando una documentazione esaustiva sull’animazione degli anni Cinquanta, si cercherà di approfondire la produzione post-fondazione del Kanoon ponendo il 1965 come data convenzionale di nascita dell’animazione iraniana. Possono essere, di conseguenza, individuati tre periodi differenti: 


1) 1965 al 1979: Ali-Akbar Sadeghi e Noureddin Zarrinkelk sono i padri dell’animazione iraniana, indiscussi maestri del genere. Tra questi va aggiunto il minimalismo primitivista di Farshid Mesghali;

2) 1980-1999: la rivoluzione del ’79 comporta un cambiamento tematico ma anche stilistico. Si passa dall’animazione disegnata di Sadeghi e Zarrinkelk all’utilizzo di differenti tecniche come la clay animation o il passo uno;

3) 2000- : il XXI secolo si presenta come un periodo di svolta in cui le innovazioni tecnologiche hanno influenzato fortemente la produzione cinematografica e hanno contribuito alla ridefinizione del genere. 

Ali-Akbar Sadeghi comincia la sua carriera artistica durante gli anni Cinquanta. Alla prolifica attività pittorica, si aggiunge un interesse al mondo animato che porterà l’autore alla realizzazione di una serie di affascinanti lavori di animazione negli anni Settanta. Nelle opere cinematografiche, attinge al suo immaginario pittorico riproponendo le stesse ambientazioni e il medesimo stile nel rappresentare le figure umane. Riconoscibili e unici, tutti i protagonisti dei film di Sadeghi hanno una delle seguenti caratteristiche: occhi verdi, sopracciglia marcate ed unite o vestono con abiti eccentrici ma raffinati, tipici della dinastia Qajar.

“The Seven Cities” può essere considerato a tutti gli effetti il primo film del regista. Realizzato nel 1971, il lavoro è un adattamento del poema, di circa 4500 versi, del poeta iraniano Farid ad-din Attar, intitolato “Il verbo degli uccelli”. L’opera racconta il difficile viaggio di alcuni volatili che vorrebbero giungere alla corte del re Simorgh (figura del folklore iraniano che ritorna in “Zal and Simorgh” e il cui nome significa “trenta uccelli”). Ne partono in centomila ma solo trenta di loro riescono a superare le sette valli ossia la rappresentazione simbolica degli stadi che conducono l’anima alla perfezione: la valle della ricerca, dell’amore, della conoscenza, del distacco, dell’unificazione, dello stupore e, infine, la valle della privazione e dell’annientamento. I versi presi in considerazione da Sadeghi e sviluppati in “The Seven Cities” sono quelli che riguardano la Valle dell’Amore. Il corto, della durata di soli 15’, si apre con le immagini di un cavaliere che, dopo un lungo viaggio, ritorna nel suo regno dove ad accoglierlo è un’atmosfera lugubre e triste. I lucchetti cuoriformi, il fiore appassito e i colori freddi rendono al meglio il concetto dell’amore infibulato e vietato. Per riaccendere il fuoco di un sentimento dimenticato, il cavaliere decide di raccontare la sua avventura. Strutturato in sette mini-narrazioni ambientate in epoche e luoghi diversi, l’eroe diventa il fantoccio del Tempo e delinea il percorso dell’amore nei secoli. Si parte dalla storia antica e dalla raffigurazione dell’istinto di sopravvivenza tra i dinosauri e, poi, tra gli animali, per passare ad una civiltà mesopotamica. Il capo-villaggio fonda il proprio potere sull’amore ed ordina ai suoi schiavi di trasportare sulla cima di una ziqqurat un massiccio cuore bluastro. L’amore assume una valenza prettamente religiosa nel terzo racconto che si svolge in epoca medievale. Dei monaci, espongono, in processione, il loro crocifisso in cui campeggia un cuore pulsante. Il quarto quadro analizza i rapporti tra sentimento e consumismo ed è accompagnato da un sottofondo futurista e meccanico, è una riproposizione visiva dell’intonarumori di Luigi Russolo. Un salto temporale ci porta al secondo conflitto mondiale. Il cavaliere racconta l’amore per la guerra in una delle parti più geniali del corto. Degli aerei vengono distrutti mentre, in sovrimpressione, compare il volto di Adolf Hitler, führer del disamore tra popoli, contrassegnato da suoi discorsi pubblici in sottofondo. L’ultimo aneddoto si colloca nel futuro. L’uomo è privo di identità ed è succube delle macchine. Robotizzato, conduce una vita abitudinaria fatta pressoché solo di lavoro. Non c’è spazio per le emozioni e, come se fosse un cartellino da timbrare, il cuore viene obliterato, sminuzzato lentamente dalla fatica del lavoro. Alla fine, il cavaliere non può che devolvere il suo cuore affinché possa, il popolo, ritrovare un po’ d’amore e di felicità.

L’anno successivo, Sadeghi realizza “Flower Storm”, una favola pacifista. Durante una battuta di caccia, la carcassa di un volatile diventa il pomo della discordia tra due sovrani di regni confinanti. Scoppia una guerra subitamente spenta dai giovani, la parte razionale dei rispettivi reami. Nella notta fonda, essi sostituiscono le palle di cannone con dei fiori. L’indomani, lo stupore s’impossessa dell’animo freddo dei monarchi e gli attesi scoppi e tonfi delle cannonate si tramutano in una pioggia di petali. 

A sfondo politico è anche l’originale “The Rook”, una partita a scacchi in cui le pedine si animano. La cattura dei pezzi incarna la tendenza classista diffusa nella società iraniana degli anni Settanta. Il più forte divora il debole ed il ciclo sembra immutabile ed interminabile e, una volta rimasti soli, ai due re non resta che ricominciare l’ennesima partita a scacchi. Seppure del 2004, anche in “Coalition”, realizzato con l’aiuto di Alireza Kavianrad, ritorna il tema politico come critica ai conflitti tra forze mondiali nei territori del Sud-est asiatico. Il film si compone di quaranta dipinti ad olio realizzati da Sadeghi.

Rispettivamente del 1975 e 1977, “The Sun King” e “Zal and Simorgh” si basano su “Il libro dei re” di Ferdowsi. La prima opera è la storia di un principe che s’innamora della fanciulla ritratta in un quadro. Quindi, egli parte alla ricerca della splendida ragazza superando numerosi ostacoli e scontrandosi con mostri dall’aspetto demoniaco. Il passaggio da un ambiente all’altro è scandito visivamente dall’atto di voltare pagina. Il rifiuto e l’abbandono sono i temi del secondo lavoro animato. Saam Nariman è il sovrano di Zabolestan e desidera fortemente avere un bambino a cui affidare, in futuro, il regno. Ma a nascere è un bimbo albino e, considerato un piccolo demonio dai genitori, viene abbandonato sulle alture di Alborz dove, trovato dal saggio uccello Simorgh, viene accudito come se fosse un suo cucciolo.

Immagine 1
L’altro grande maestro è Noureddin Zarrinkelk. Il suo stile è caratterizzato da un tratto di disegno sottile e da un’essenzialità che permette una totale focalizzazione sui temi trattati. Nel brevissimo “Duty first”, crea uno sketch comico in cui un poliziotto corre forsennatamente… ma dove corre? Ad acciuffare il ladro? Ad abbracciare la sua amata o a salire su di un treno in corsa? Nulla di tutto ciò, la fatica dell’uomo è per smuovere la puntina di un grammofono, inceppata da tempo sulla stessa nota. Nel 1973, con “Association of Ideas”, un disegno si trasforma in continuazione e propone chiari simboli della cultura americana. Compare Oliver Hardy, Chaplin, la statua della libertà armata prima di sciabola poi con una pistola o mentre tiene una melanzana (ricorda “Good-bye Elvis and Usa” del nipponico Keichii Tanaami) [Immagine 1]. “Atal Matal”, invece, risale al 1974 e fa riferimento ad una filastrocca per bimbi persiana che recita:

“Atal matal tootoole
How is Hasan's cow?
It has neither milk nor breast!
Its milk is carried to India
Take a Kurdish wife
Call her Am-qezi!
With red around her hat
Hachin o wachin
Lift one of your legs!”

Immagine 2


I bambini saranno ancora protagonisti di altri lavori di Zarrinkelk come “A playground for Babousch” e “Identity”, entrambi del 1992. Ma i due corti più originali del regista iraniano sono senza ombra di dubbio “Mad Mad World” del 1975 e “Super Powers” del 1987. Nella prima opera citata, l’Europa si anima: l’Italia/stivale scalcia via la Sicilia; la penisola scandinava, come fosse un brachiosauro, fagocita la Danimarca mentre, nelle vicinanze, il Regno Unito difende l’isola irlandese portandola al petto. “Super Powers” riprende l’essenzialità di “Mad Mad World” e, attraverso il conflitto tra i due più comuni simbolici matematici (+/-), viene descritta la guerra tra Iraq e Iran. La carica positiva invade la negativa e viceversa. Lo scontro s’inasprisce in una scena che ricorda il gioco del tetris [Immagine 2]. Continua la battaglia fino al tragico epilogo: un cimitero di segni grafici con le lapidi formate da una serie di + e le fosse dai - [Immagine 3]. Una scelta visiva insolita ma efficace.




Prosegue con la seconda parte







Pubblicato da Claudio Z. alle 04:32 Nessun commento:
Invia tramite emailPostalo sul blogCondividi su TwitterCondividi su FacebookCondividi su Pinterest
Etichette: mesghali, sadeghi, zarrinkelk

domenica 8 gennaio 2017

Il cliente, Asghar Farhadi (2016)


Archiviata la trasferta francese de "Il passato", in attesa di ripartire con destinazione Spagna per un nuovo progetto sotto l'egida di Pedro Almodovar, il premio Oscar Asghar Farhadi sosta a Teheran per regalarci un altro, straordinario affresco sulle relazioni umane osservate dal punto di vista della giovane borghesia intellettuale iraniana; nonché un atipico revenge movie.
Emad (Shahab Hosseini), insegnante dall'approccio moderno e progressista molto amato dagli studenti, e sua moglie Rana (Taraneh Alidoosti) vivono in un palazzo che sta crollando a causa degli scavi a scopo edilizio nel cortile di fronte. Si ritrovano costretti a evacuarlo in fretta insieme agli altri inquilini.
Entrambi sono anche attori teatrali alle prese con l'allestimento di "Morte di un commesso viaggiatore" di Arthur Miller, in cui interpretano i protagonisti Willy e Linda Loman.
Il loro collega di palcoscenico Babak (Babak Karimi) li aiuta a trovare un nuovo alloggio, offrendo un suo appartamento. I coniugi però non sanno che la precedente inquilina era una prostituta, molto chiacchierata dai vicini. Un giorno Rana apre inavvertitamente la porta a un cliente della donna e subisce, in bagno, un'aggressione dai contorni non chiari. Mentre Rana rimane in stato di shock, nei giorni seguenti Emad raccoglie, con mezzi discutibili, gli indizi necessari per risalire all'uomo e fare giustizia in proprio, prima all'insaputa poi con la disapprovazione della moglie, consumando così una cieca vendetta.

Qualche coordinata

Il titolo italiano "Il cliente", che ricalca il "Le client" scelto dal distributore francese, ribalta il focus del titolo originale, che significa invece "Il venditore", in conformità al Salesman di Miller e con riferimento all'attività lavorativa dell'aggressore di Rana, Naser (Farid Sajjadi Hosseini).

L'arte di Farhadi affonda le radici, oltre che nei serial televisivi, proprio nel teatro di prosa, che il cineasta ha frequentato in giovane età in qualità di attore, regista, drammaturgo. Mai nascosta, questa origine era già evidente nell'impostazione di scrittura e regia dei film precedenti. Qui si traduce in un parallelismo, tutt'altro che scolastico, con la pièce americana.

Una novità è invece la citazione di un classico del cinema prerivoluzionario, "The Cow" (1969) di Dariush Mehrjui, proiettato in classe da Emad agli alunni. Farhadi, che nell'orazione funebre per Kiarostami ha ringraziato quest'ultimo per aver fatto conoscere il cinema iraniano nel mondo, sembra guardare a una stagione precedente, quella della prima nouvelle vague locale, che risale agli anni 60. Un cinema innovativo per l'epoca, ma più tradizionale rispetto a quello degli 80-90. Anche in questo caso, nulla che non emergesse da una visione attenta della sua filmografia. Un lato però interessante è che il richiamo a classici coevi è comune anche a un'altra pellicola recente, "A Dragon Arrives!" (2016) di Mani Haghighi, che omaggia ampiamente "Mattone e specchio" (1964) di Ebrahim Golestan (per altro nonno del regista). Che sia in atto una tendenza a ripudiare i padri e riscoprire i nonni?





Tornando a "Il cliente", è palese il parallelo con l'opera dello scrittore Saedi portata sul grande schermo da Mehrjui, che racconta di un uomo che impazzisce e si immedesima nella sua defunta vacca: "Professore, questa storia è vera?" "No, ma in un certo senso sì, le atmosfere e le tipologie di personaggi e le relazioni sono molto, molto vere". "Come si fa a diventare una bestia?" "Con il tempo". Chiaramente il dialogo a scuola, nei primi minuti di pellicola, anticipa metaforicamente l'imbarbarimento di Emad.

Più da interpretare il riferimento a "Morte di un commesso viaggiatore". Ci aiuta lo stesso Farhadi, prodigo di spiegazioni del suo film:  È un'opera di critica sociale su un periodo di storia americana in cui la brusca trasformazione urbana, la modernizzazione, ha schiacciato la parte di società che non è riuscita ad adattarsi. La New York di allora somiglia alla Teheran odierna: una città che cambia a ritmo vorticoso e abbatte ciò che è vecchio, palazzi al posto di frutteti e giardini. 
Possiamo aggiungere che le indicazioni di regia di Miller, rispettate nello spettacolo allestito nel film, sono volte all'abbattimento delle pareti tra un ambiente di scena e l'altro. In modo analogo, il film si svolge tra case che crollano - con Emad che, in un primo moto di giustizia fai da te, esclama che vorrebbe abbatterle e ricostruirle (ma Babak replica: "Il problema è che le hanno già buttate giù una volta, e questo è il risultato”) -, interni poco o affatto arredati, dialoghi su balconi o scale con vista sulla città.

Più chiari i riferimenti al dramma milleriano per quanto concerne la crisi dell'istituzione-famiglia e - collegamento a doppio filo - l'indossare pirandellianamente una maschera da parte dei rispettivi protagonisti, che alla lunga svelano comportamenti viscerali. Non a caso la scena madre che vediamo, poi sentiamo una seconda volta, è quella di Loman scoperto con l'amante dal figlio; rivelazione che marchia la psiche di quest'ultimo e di riflesso le sorti di tutta la famiglia. Nel film, un figlio è il grande assente: Emad rivela a Babak che dall'essere in due potrebbero diventare tre. Sembra una boutade, ma in seguito Emad pare viverla diversamente; inoltre, gli unici momenti di serenità e distrazione in famiglia, invero di breve durata, sono determinati dalla presenza di un nipotino, ospite per una sera.


Sessuofobia e censura, maschilismo e contrappasso


La consueta (nei film di Farhadi) complessità di personaggi e situazioni fa sì che il protagonista non sia l'unico a celare un'indole diversa dalle apparenze. Il discorso vale anche per Babak e a contrario per Naser, il quale, per stare alla metafora pirandelliana, vorrebbe tanto indossare di nuovo quella maschera che gli eventi gli hanno fatto togliere.
Le occasioni di imbarazzo e ipocrisia sono offerte dal convitato di pietra della vicenda, la meretrice senza nome che mai vediamo e a cui i personaggi si riferiscono utilizzando perifrasi ("questa tipa", "quella donna"). Per estensione, è la sfera sessuale repressa, in una società sessuofobica, che smuove gli eventi e che cambia la prospettiva dei personaggi e dello spettatore sui personaggi. Così, l'altruista e disinteressato Babak può sembrare un depravato, mentre il mostro Naser risulta un innocuo anziano amatissimo dalla famiglia, vittima di un'innocente debolezza (ma in fondo anche la prostituta parrebbe solo una povera donna con un figlio da mantenere).

Non sappiamo cosa sia successo esattamente nel bagno, anche perché la censura impone ai cineasti iraniani di non mostrare i contatti, potenzialmente passionali, tra uomo e donna (e Rana sostiene di aver sentito una mano sui capelli, ma nega a Emad che ci sia stato "qualcosa che non si può dire": riecco la perifrasi e l'autocensura). Così la conseguenza è che noi spettatori siamo partecipi di uno sviluppo drammaturgico che parte da un evento a cui non abbiamo assistito. A cui non potevamo assistere. Similmente, nello spettacolo l'amante sostiene di essere nuda, ma è per forza completamente vestita e questo genera l'ilarità di un altro attore. L'allestimento del "Commesso viaggiatore" provoca anche discussioni con le autorità governative.




Se la prostituta assente è il motore della prima parte del film, Emad si autoassegna il ruolo di demiurgo della seconda. Una persona benestante, istruita e colta (per i cinefili: si intravvede il dvd di "Uzak" su uno scaffale) reagisce in modo ultraconservatore, al limite della legalità (per le indagini approfitta del padre di uno studente che ha accesso agli archivi della prefettura), in modo sproporzionato (invade più volte l'altrui privacy), irascibile (diventa severo con gli studenti), ossequioso di precetti religiosi (getta il cibo comprato coi soldi sporchi di Naser), profondamente maschilista.

È Rana a subire l'affronto ed è lei che rifiuta di sporgere denuncia. Sappiamo che il diritto penale non tutela adeguatamente (per dirla con un eufemismo) le donne iraniane per i reati a sfondo sessuale. Ma è Emad che, in maniera retriva e tradizionalista, si sente disonorato, si preoccupa delle dicerie sul loro conto, in ultima istanza si arroga il diritto di decidere per la donna.
Di fronte a un colpevole di estrazione sociale più umile (il confronto tra ceti è altro tema tipico farhadiano), il giustiziere applica la tribale pena del contrappasso e sceglie il ludibrio privato in famiglia; come i vicini - siamo in una casa popolare - proponevano il ludibrio pubblico in strada. Emad perde ogni sovrastruttura di civiltà e si abbandona al moralismo reazionario, arcaico almeno quanto quello degli abitanti di quei palazzi che voleva distruggere; peggio, senza pietà per una persona che palesa anche evidenti problemi di salute, a cui anzi impedisce il soccorso medico. Un'involuzione agghiacciante, che il film tratteggia con complessità e credibilità magistrali.


I solisti

Senza nulla togliere alla sensibile Taraneh Alidoosti, il grande mattatore è Shahab Hosseini, che si dimostra molto versatile nell'interpretare altrettanto magnificamente un personaggio assai diverso dall'ignorante e umile, patetico e impulsivo Houjat di "Una separazione". Farhadi lo fa rendere sempre al meglio, anche se in altri film Hosseini è più trasformista ("Resident of the Middle Floor", sua anche la regia) o più virtuosistico ("The Painting Pool" di Maziar Miri). Con "Il cliente"  ha vinto il Prix come migliore attore a Cannes. Questo prestigioso premio non ha precedenti, nessun attore connazionale l'aveva ottenuto. Alla Croisette è stata premiata anche la sceneggiatura del film.

Indimenticabile è però anche Naser, interpretato con bravura e partecipazione da Farid Sajjadi Hosseini.



Discorso a parte per Babak Karimi, il cui personaggio è solo apparentemente secondario, in realtà complesso, emblematico e cruciale. Karimi si doppia da solo e cura i dialoghi italiani. In questo intervento a Hollywood Party, dal minuto 10, racconta i seguenti aneddoti sulla lavorazione del film:

- Il casting per i personaggi secondari è stato fatto sui social network: Farhadi ha chiesto ai suoi fan di inviare un video di tre minuti in cui si presentassero. I video pervenuti sono stati innumerevoli.

- Karimi ha avuto modo di leggere due sceneggiature complete alternative, prima della definitiva; con personaggi che poi sono spariti e scene de "Il commesso" talmente estese da far prendere in considerazione un allestimento teatrale vero e proprio dello spettacolo.









Pubblicato da Claudio Z. alle 01:00 15 commenti:
Invia tramite emailPostalo sul blogCondividi su TwitterCondividi su FacebookCondividi su Pinterest
Etichette: A Dragon Arrives!, alidoosti, babak karimi, farhadi, golestan, haghighi, hosseini, Il cliente, kiarostami, Mattone e specchio, mehrjui, miri, Resident of the Middle Floor, The Cow, The Painting Pool, Una separazione

martedì 3 gennaio 2017

Oro rosso, Jafar Panahi (2003)

Il numero uno della nostra classifica alternativa. Fonte: Ondacinema, 05/06/2008
 


Dopo il trionfo veneziano de "Il cerchio", Panahi sorprende tutti con un film decisamente diverso, ma altrettanto riuscito, di cui al solito è anche produttore e montatore. Alla sceneggiatura, ispirata a un fatto di cronaca, il regista di Mianeh ritrova invece il suo maestro Kiarostami, che già aveva realizzato lo script per il suo debutto nel lungometraggio, "Il palloncino bianco".

Giunto al suo quarto film, Panahi insiste con l'ambientazione urbana, quasi a voler penetrare nel cuore della società iraniana, mentre molti suoi colleghi connazionali preferiscono descrivere realtà rurali. Se nei primi due film aveva scelto di farci vedere il mondo attraverso gli occhi di due bambine, se ne "Il cerchio" aveva abbandonato queste mediazioni sbattendoci in faccia la drammatica condizione della donna iraniana, con "Oro rosso" per la prima volta Panahi sceglie gli uomini come personaggi principali, suggerendoci che anche loro non se la passano tanto meglio. I censori non possono far finta di niente e anche quest'opera viene messa al bando in patria.

Il piano-sequenza iniziale è indimenticabile per implacabilità e asciuttezza, nonostante l'azione sia concitata e drammatica. La telecamera fissa riprende un uomo, Hossein Aghà, intento a rapinare una gioielleria minacciando con la pistola il principale, che però riesce a divincolarsi e ad azionare un sistema d'allarme che imprigiona il rapinatore portandolo all'omicidio e al suicidio, mentre un lento carrello in avanti ci mostra le reazioni del complice Alì e dei passanti, escludendo dal campo gran parte dell'avvenimento principale.



La struttura circolare del film ricorda quella de "Il cerchio" e di molti film iraniani, ma qui è accompagnata da un'analessi. Subito dopo il prologo uno stacco, all'unisono col colpo di pistola fatale per il protagonista, ci riporta a quando Hossein era ancora in vita, con Alì che lo raggiunge al tavolo di un locale per discutere della loro nuova attività microcriminale. Tale scelta narrativa non è solo un vezzo, poiché costringe lo spettatore a rimettere in discussione il suo frettoloso giudizio sul ladro assassino della prima scena. 


Nel corso del film, il crimine appare infatti come il prodotto di un Iran di cui "Oro rosso" fornisce uno spaccato assolutamente straordinario. La società è fortemente suddivisa in classi e tali differenze sono facilmente percepibili attraverso il linguaggio, gli atteggiamenti, i comportamenti, il modo di vestire delle persone. Come in molte parti del mondo, la classe media è scomparsa e le risorse disponibili sono appannaggio di una ristretta élite, mentre al polo opposto la classe subalterna sopravvive a stento, fino a compiere scelte estreme, come il crimine e l'accattonaggio, ma senza abbandonare il sogno consumista di matrice occidentale, diffusissimo nei paesi esportatori di petrolio, né il moralismo tipico del Paese della rivoluzione islamica.



Come sempre di fronte a un'opera nuova e originale, la critica spiazzata ha fatto di tutto per ricondurre "Oro rosso" a modelli preesistenti, ovviamente in Occidente.

Sarà per la drammaticità della vicenda, sarà per l'ambientazione prevalentemente notturna, sarà per la colonna sonora jazz dell'ultima parte, fatto sta che in molti lo hanno definito un noir. Qualcuno ha visto analogie con "Taxi Driver", anche perché i protagonisti di entrambi i film sono reduci di guerra. Si potrebbe aggiungere che la coppia Hossein-Ali, basata sui contrasti (grosso, impacciato, taciturno, ritardato il primo; piccolo, agile, chiacchierone, sveglio il secondo) ricorda le coppie tipiche delle commedie e dei film comici americani. Ma si tratta senza dubbio di forzature, che rischiano sminuire la portata innovatrice di questo grande film e di un talento, quello di Jafar Panahi, di cui troppo pochi si sono accorti.







Pubblicato da Claudio Z. alle 08:30 Nessun commento:
Invia tramite emailPostalo sul blogCondividi su TwitterCondividi su FacebookCondividi su Pinterest
Etichette: il cerchio, Il palloncino bianco, kiarostami, Oro rosso, panahi
Post più recenti Post più vecchi Home page
Iscriviti a: Post (Atom)

Pagina Facebook

Translate

IN EVIDENZA

Indice - Tutti i post del blog

Archivio blog

  • ►  2023 (8)
    • ►  marzo (1)
    • ►  febbraio (5)
    • ►  gennaio (2)
  • ►  2022 (13)
    • ►  dicembre (3)
    • ►  novembre (5)
    • ►  ottobre (2)
    • ►  settembre (2)
    • ►  gennaio (1)
  • ►  2021 (9)
    • ►  dicembre (1)
    • ►  novembre (1)
    • ►  ottobre (1)
    • ►  settembre (1)
    • ►  agosto (1)
    • ►  aprile (1)
    • ►  febbraio (2)
    • ►  gennaio (1)
  • ►  2020 (20)
    • ►  dicembre (1)
    • ►  novembre (1)
    • ►  ottobre (1)
    • ►  settembre (3)
    • ►  luglio (3)
    • ►  giugno (1)
    • ►  maggio (1)
    • ►  aprile (2)
    • ►  marzo (2)
    • ►  febbraio (3)
    • ►  gennaio (2)
  • ►  2019 (41)
    • ►  dicembre (3)
    • ►  novembre (4)
    • ►  ottobre (3)
    • ►  settembre (2)
    • ►  agosto (1)
    • ►  luglio (2)
    • ►  giugno (3)
    • ►  maggio (3)
    • ►  aprile (4)
    • ►  marzo (7)
    • ►  febbraio (5)
    • ►  gennaio (4)
  • ►  2018 (37)
    • ►  dicembre (4)
    • ►  novembre (5)
    • ►  ottobre (3)
    • ►  settembre (4)
    • ►  agosto (5)
    • ►  luglio (2)
    • ►  giugno (1)
    • ►  maggio (5)
    • ►  aprile (3)
    • ►  marzo (3)
    • ►  gennaio (2)
  • ▼  2017 (49)
    • ►  dicembre (2)
    • ►  ottobre (3)
    • ►  settembre (4)
    • ►  luglio (1)
    • ►  giugno (10)
    • ►  maggio (5)
    • ►  aprile (5)
    • ►  marzo (6)
    • ►  febbraio (6)
    • ▼  gennaio (7)
      • I bambini del cielo, Majid Majidi (1997)
      • Pane e fiore, Mohsen Makhmalbaf (1996)
      • Viaggio nell'animazione iraniana (parte II)
      • Dov'è la casa del mio amico, Abbas Kiarostami (1987)
      • Viaggio nell'animazione iraniana (parte I)
      • Il cliente, Asghar Farhadi (2016)
      • Oro rosso, Jafar Panahi (2003)
  • ►  2016 (18)
    • ►  dicembre (5)
    • ►  novembre (7)
    • ►  ottobre (6)

Post più popolari

  • Il cliente, Asghar Farhadi (2016)
  • I migliori film iraniani... per la critica iraniana
  • I bambini del cielo, Majid Majidi (1997)
  • Il dubbio - Un caso di coscienza, Vahid Jalilvand (2017)
  • E la vita continua, Abbas Kiarostami (1992)
  • Il sapore della ciliegia, Abbas Kiarostami (1997)
  • 24 Frames, Abbas Kiarostami (2017)
  • Dov'è la casa del mio amico, Abbas Kiarostami (1987)
  • The Cow, Dariush Mehrjui (1969)
  • Bashù il piccolo straniero, Bahram Beizai (1989)

Etichette

akbari (4) ali hatami (1) alidoosti (6) Asgari (1) ayari (1) azarbayjani (1) babak karimi (6) bani-etemad (7) barat (1) beizai (13) classifica (1) entezami (4) ershadi (2) farahani (4) farhadi (40) farmanara (5) farrokhzad (5) ghafari (1) ghafori (1) ghobadi (15) gole (2) golestan (8) golshiri (2) haghighi (9) hana makhmalbaf (7) haritash (1) hashemian (1) hatami (2) hekmat (3) homayoun (1) hosseini (4) intervista (1) jalali (2) jalilvand (4) javaherian (1) javidi (4) keywan karimi (3) khachikian (7) kiarostami (53) kimiai (12) Kimiavi (4) libro (5) Majidi (10) mehrjui (14) mesghali (2) meshkini (5) milani (5) miri (1) mirkarimi (4) moaadi (3) mohammadzadeh (3) mohsen makhmalbaf (34) Mollagholipoor (1) mossaffa (2) naderi (19) neshat (2) nirumand (2) nourizad (2) ohanian (1) panahandeh (2) panahi (49) parastui (1) payami (4) pitts (2) Rasoulof (13) saberi (1) sadeghi (1) saedi (1) samira makhmalbaf (15) satrapi (4) Sesso e filosofia (1) shahid-saless (5) shirdel (2) tabrizi (2) taghvai (7) taherian (1) taslimi (1) tavakoli (2) vossoughi (7) yektapanah (4) zarrinkelk (1) zaynalzadeh (1)

Informazioni personali

La mia foto
Claudio Z.
Visualizza il mio profilo completo

BLOG AMICI

  • I cinemaniaci
  • Iran per tutti
  • Tomobiki Märchenland
Tema Semplice. Powered by Blogger.