sabato 27 febbraio 2021

Baran (Majid Majidi, 2001)




A fine 2019, per il sondaggio sui migliori film del decennio ho contattato, tra gli altri, la professoressa Natalia Tornesello, autrice del volume "Il cinema persiano". La docente, dopo avermi fornito la lista, mi ha scritto di sua iniziativa: Tra i film visti negli anni precedenti mi sono rimasti nel cuore e nella mente due veri capolavori. Si tratta di "Bashu, il piccolo straniero" (1989) diretto da Bahram BeizaiBaran (2001) diretto da Majid Majidi

A uno dei capisaldi indiscussi della cinematografia nazionale, la professoressa affianca dunque l'opera di un regista popolare - più all'estero che in Italia - e pluripremiato, ma non così vezzeggiato dalla critica.

Majid Majidi nasce a Teheran nel 1959. Dopo un apprendistato presso il Circolo artistico per l'organizzazione della propaganda islamica, dove fa anche l'attore e ha modo di collaborare ai film giovanili di Mohsen Makhmalbaf,  passa alla storia per essere stato il primo regista iraniano a raggiungere la shortlist degli Oscar per il miglior film straniero con "I bambini del cielo" (1997), ultimo successo internazionale del mitico istituto pedagogico Kanun. Manterrà sempre, anche nel recente "Sun Children", di nuovo in corsa per gli Oscar, una chiara etica religiosa, caratterizzata dall'attenzione per i drammi degli umili, spesso bambini o adolescenti. Assumerà inoltre posizioni alquanto istituzionali, tanto da essere chiamato a dirigere un kolossal su Maometto.

Con "Baran" (2001), Majidi affronta i temi del caporalato e dell'immigrazione. Una didascalia in apertura annuncia in particolare il dramma dell'Afghanistan, che dice essere cominciato con l'invasione sovietica del 1979, proseguito con il duro regime dei talebani e con la siccità. Attualmente - conclude la didascalia - l'Iran ospita 1,5 milioni di profughi. Il tema non è insolito nel cinema iraniano, essendo affrontato più volte dalla famiglia Makhmalbaf e, l'anno prima del film di Majidi, da "Djomeh" di Hassan Yektapanah


Il cantiere multietnico di Teheran in cui è ambientato il film è diretto dal caporale Memar con piglio paternalistico. L'uomo ha toni burberi, paga discrezionalmente e in ritardo le maestranze, ma è capace anche di slanci di generosità. Il protagonista Latif è invece un ragazzo azero iraniano diciassettenne, sveglio e furbo, che svolge lavori scarsamente impegnativi, come fare la spesa o preparare il tè per gli operai. Gli piace scherzare, facendo anche arrabbiare i colleghi, e lo fa perfino quando l'afgano Najaf ha un incidente che gli costa la frattura a un piede e l'impossibilità di continuare a lavorare. Al posto dell'infortunato arriva quello che viene presentato come suo figlio, di nome Rahmat. Sembra un ragazzo gracile; non parla, il suo accompagnatore Soltan risponde alle domande per lui. Giunge anche un'ispezione, con l'intento di capire quanti afgani irregolari lavorino nel cantiere.

Latif insegna al nuovo arrivato a portare sulla schiena i sacchi di calce, ma uno di questi è troppo pesante e il lavoratore  lo rovescia, "imbiancando" un collega. Ne segue un parapiglia, cui Memar mette fine affidando a Rahmat le mansioni di Latif, spostato a fare il manovale. Quest'ultimo si vendica in vari modi con Soltan e Rahmat, che dal canto suo risistema e abbellisce il vano adibito a cucina - separato dal resto del cantiere da una tenda - mentre gli operai si godono l'ottima qualità del tè e del cibo.


Ad un tratto, mentre il separé è mosso dal vento, Latif intravede, specchiata, l'ombra di Rahmat che si pettina i lunghi capelli e capisce che si tratta di una ragazza. L'impossibilità, dovuta alle regole censorie, di mostrare il capo femminile scoperto produce così una delle sequenze più poetiche e memorabili del cinema iraniano tutto.

La prima svolta è giunta a un terzo del film. Latif inizia a essere gentile con la ragazza, si veste a festa, la spia felice, sorridente, con la testa tra le nuvole. Tuttavia, se prima tutti la trattavano bene, ora qualcuno le è ostile. Con questo schematismo ingiustificato di sceneggiatura, il regista porta a compimento la metamorfosi di Latif, che può ergersi a difensore dell'amata.

L'incanto però non dura molto: la ragazza viene catturata dagli ispettori fuori dal cantiere, nonostante i tentativi di Latif di impedirne l'arresto (la sua corsa al ralenti rimanda al finale de "I bambini del cielo"). Per evitare ulteriori problemi, il caporale riscatta i detenuti, ma decide di licenziare tutti gli afgani. Con la seconda svolta nel racconto, inizia l'andirivieni di Latif, che cerca in tutti i modi di portare soldi alla famiglia della ragazza, come pretesto per rivederla, rimediandoli in modi disparati e consegnandoli adducendo pretesti vari. Quando vende il proprio documento, l'acquirente strappa vistosamente la fototessera, a simboleggiare come il giovane sia disposto a rinunciare a tutto, anche alla sua identità.


Latif e la ragazza qualche volta si intravedono unilateralmente. Egli la scorge mentre lei serve cibo nel campo profughi e quando lavora raccogliendo massi dal fiume, dove cade e sbatte la schiena, mentre Latif non cede all'impulso di intervenire in soccorso. Origliando dietro alla porta di casa sua, scopre che si chiama Baran. Ed è proprio sulla soglia che finalmente i loro occhi si incrociano, mentre la giovane è avvolta nel chador e si schermisce chiudendo la porta. Tutto il film, a ben vedere, è un emozionante gioco voyeristico di sguardi, unidirezionali o incrociati, obliqui e attraverso gli usci.

L'inseguimento del povero Latif si conclude con la partenza di Baran per l'Afghanistan. Egli le dà una mano a caricare il camion con gli oggetti che le sono caduti; la ragazza gli concede finalmente un sorriso, perde una scarpa, Latif la aiuta a indossarla. Baran, che fino ad ora si è coperta solo il capo, cala sul volto il burqa, indumento tipico afgano, e si avvia. Latif sorride. Simbolicamente la pioggia - che in persiano si dice "baran" - cancella l'orma della ragazza e così si completa un finale splendido e indimenticabile.

La linda bellezza di una regia per altri versi ordinaria eleva una sceneggiatura che può apparire forzata nella prima, decisiva svolta. È sufficiente la presenza di una ragazza - che per altro non profferisce una sola parola per tutto il film (e questo sicuramente accresce il suo fascino misterioso) - perché il protagonista si innamori perdutamente, oltre a mettere la testa a posto e a scoprire il proprio lato romantico? Lo storico del cinema iraniano Hamid Naficy solleva il tema dell'ambiguità sessuale - che potrebbe essere la risposta a questa domanda retorica -, notando tra l'altro che "Latif" significa "delicato" o "bello". Il ragazzo sarebbe attratto irresistibilmente dall'aspetto androgino di Rahmat/Baran.

Wikipedia francese rileva inoltre diversi riferimenti alle tradizioni letterarie e mistiche persiane.
Ma, al di là dei vari livelli di lettura, "Baran" resta una delle opere più toccanti del regista, impreziosita dalle due sequenze da antologia di cui dicevamo.

Uscito al cinema doppiato in italiano, poi in dvd, per anni è sparito dai radar. Ora, ogni tanto, viene trasmesso da TV2000.

Curiosità: ho trovato una foto recente di Zahra Bahrami, la donna che interpreta Baran (gli attori del film sono tutti non professionisti).






















domenica 7 febbraio 2021

Fish & Cat (Shahram Mokri, 2013)



Classe 1978, laurea in cinema con specializzazione in regia alla Soore University di Teheran, Sharham Mokri è un autentico outsider della settima arte iraniana, di cui sta rinnovando la tradizione prerivoluzionaria rappresentata da un cinema di genere ma al contempo d'autore, il cui principale esponente è Masud Kimiai. Non a caso il rinomato "The Deer" del 1974 è omaggiato nell'ultima opera di Mokri, "Careless Crime".

È con il suo secondo lungometraggio, Fish & Cat (Mahi va gorbeh), che nel 2013 Mokri si affaccia alla ribalta internazionale, tornando da Venezia Orizzonti con il Premio speciale dopo aver stupito la platea, che non si aspetta un lavoro così insolito e geniale. Innanzi tutto si tratta di un horror (slasher), un genere che nel panorama persiano non è raro: è rarissimo. Curiosamente, negli anni successivi vi ci sono cimentati diversi registi iraniani, ma in produzioni estere (qui un esempio).

Ma ciò che lascia positivamente sbalorditi è la struttura del film: un'unica ripresa di 134 minuti, con incedere a passo d'uomo, che annulla ogni coerenza temporale mostrando le medesime scene più volte da diverse angolazioni, come se fossero successive a se stesse. Come in un'opera di Esher, dichiarata fonte di ispirazione del regista - anche sceneggiatore -, che ripeterà il prodigio tecnico e teorico con meno originalità nel successivo "Invasion".

Con la collaborazione di Mahmoud Kalari, uno dei più grandi e versatili direttori della fotografia iraniani, e del resto della troupe, Mokri ha provato con gli attori per un mese il suo perfetto meccanismo geometrico non euclideo, filmato nelle regioni del nord del paese, in riva al Caspio.

Le didascalie iniziali annunciano che si tratta di una storia vera, accaduta nel 1998. Dopo la scomparsa di alcuni studenti nella zona, un ristorante è stato chiuso per "violazione del codice sanitario" e i gestori arrestati con l'accusa di servire carne non commestibile, probabilmente umana. In questo modo l'incipit anticipa l'orrore, cui non assisteremo mai coi nostri occhi (magari anche per comprensibili ragioni di autocensura che, come spesso accade, contribuiscono al fascino della pellicola), ma di cui saremo sempre allertati. Al contempo, lo spoiler toglie mistero e ci consente di concentrarci anche su altri aspetti dell'opera.

Di certo, ci accorgiamo da subito di quanto siano inquietanti e minacciosi i due ristoratori interpretati da Babak Karimi e Saeed Ebrahimifar. Il film si chiama "Pesce e gatto" - dal nome dei due aquiloni della vittima e dal testo del brano che una band suona nel finale - tuttavia i due personaggi mi hanno ricordato iconograficamente il Gatto e la Volpe di alcuni adattamenti cinematografici di "Pinocchio". 

Ma procediamo in ordine cronologico (almeno nella recensione!). Un ragazzo scende dall'automobile con cui, assieme ai suoi amici, sta andando a un'esibizione di aquiloni sul lago. Si avvicina al ristorante, che esala un puzzo di carne rancida, per ottenere indicazioni stradali da Babak. Questi, piuttosto che rispondere puntualmente, gli chiede i documenti e fa una sorta di interrogatorio. Quindi, a parte, conviene con il socio che sia più prudente lasciare andare i giovani. I due ristoratori si addentrano nell'adiacente foresta, l'uno con un sacchetto contenente carne sanguinolenta, l'altro con una tanica in cerca di benzina.

Tra il bosco e il campeggio dei ragazzi in riva al lago si produce il loop temporale per cui assistiamo, più volte: alle discussioni tra i due soci sulle torbide vicende del collaboratore Hamid; alla vicenda del padre di Kambiz, tuttora ossessionato dal suo amore di gioventù; al censimento degli aquiloni, con Parviz che non trova la lampada per illuminare il suo, mentre invece Parvaneh ha perso i sui compact disc. Ci imbattiamo in due misteriosi gemelli vestiti uguali, uno privo del braccio destro, l'altro del sinistro, e in altri personaggi con strane storie da raccontare. Seguiamo il confronto tra i ristoratori e la guardia Asadi su una perdita d'acqua che allaga il locale e sulle trappole disseminate un po' ovunque. Ci spaventiamo quando una ragazza segue Babak nella foresta, e per le calzature che spuntano seminascoste dalle foglie.




Nel tortuoso, ciclico ripetersi con variazioni della trama, la cinepresa talvolta abbandona un personaggio per seguirne un altro, anche in lunghe camminate che corrispondono a cali drammatici talvolta un po' lunghi ed estenuanti, che preludono però a una nuova crescita della tensione. Il commento musicale di Christophe Rezai, a prevalente base di archi, ha la stessa funzione ed è piuttosto convenzionale, ma molto efficaci sono le sovrapposizioni sonore, ad esempio con la "Sonata al chiaro di luna" di Beethoven o "50mila" di Nina Zilli. Il sound design è a cura di Parviz Abnar.

Dalla situazione di stallo, determinata dal cortocircuito temporale, si esce solo negli ultimi minuti grazie alla comparsa di due nuovi personaggi, Hamid e Maral. Rispettivamente, il carnefice e la vittima. Si approda così al magnifico finale con Maral che racconta in voice over e al passato la propria morte, mentre una band suona dal vivo la "title track" e gli aquiloni aleggiano sopra lo specchio d'acqua.

Possiamo speculare liberamente sul fatto che i vari frammenti di racconto siano prodotti dell'inconscio, elucubrazioni mentali dei personaggi. Questi ultimi però appaiono per lo più come pedine al servizio di progetto d'insieme, senza spessore psicologico, se non nel toccante incontro tra Parviz e la sua vecchia fiamma che ora vive a Lione, è sposata ed è incinta; egli è al corrente delle novità perché la segue in incognito su Facebook (che in Iran è bloccato, ma raggiungibile tramite una VPN).




Per una analisi esaustiva sulle acrobazie intellettuali del film rimando al blog di Mohammad Vahdani, in persiano ma ben comprensibile anche in traduzione automatica. Mi sento invece anch'io di escludere, con Antonello Sacchetti, una lettura dell'opera come metafora politica delle difficoltà dei giovani iraniani.

Amato ovunque dai cinefili più curiosi, "Fish & Cat" mi risulta essere stato distribuito in patria senza tagli (del resto eliminare qualche scena avrebbe significato snaturarlo, essendo privo di montaggio) ed è celebrato come un  esempio di cinema nazionale giovanile cui guardare per emanciparsi da vecchi modelli. Infine, è stato meritatamente votato nel nostro sondaggione come uno dei migliori film iraniani del decennio passato.