Da trentatré anni, l'anziano e analfabeta Mohamad Sardari, che ignora la propria età anagrafica, è addetto al passaggio a livello di una stazione ferroviaria desolata. Nella casupola adiacente, in cui abita, sua moglie passa il tempo al telaio, a realizzare tappeti che ormai nessuno è disposto a pagare più del costo di produzione. Un giorno una lettera, che egli non sa leggere, comunica a Mohamad che è giunto il tempo di andare in pensione.
Sohrab Shahid Saless canta l'elegia di una realtà che pare immutabile e fuori dal
tempo, ma che è invece destinata a soccombere senza avere le forze per
resistere al cambiamento. Con una fotografia dai colori tenui, e
composizioni del quadro estremamente pittoriche e sempre variegate - pur nella staticità dell'insieme -, il film costringe lo spettatore ad adeguarsi ai
ritmi del protagonista, alle sue fumate, ai suoi colpi di tosse. Costui,
che trae linfa vitale dalla routine, non concepisce di aver maturato un
meritato riposo; con struggimento ma senza rancore, si sente infine scaricato dalla società, inutile agli
scopi di questa, ma incapace di vivere diversamente.
Il giovane che lo sostituisce (e lo sfratta) mostra
ben altra grinta, la stessa del figlio di Mohamad, di una generazione
che è pronta alle sfide della modernità, di qualunque epoca essa sia (i sottotitoli dicono che il
film è ambientato nel 1960, non nell'anno di realizzazione).
Secondo lungometraggio dell'autore - ultimo in patria, prima di trasferirsi in Germania causa mancate autorizzazioni per il successivo -, girato in soli undici giorni, vincitore dell'Orso d'argento a Berlino, "Still Life" (Tabiate bijan) è uno dei film più austeri della storia del cinema, non solo persiano. Se il precedente "Un semplice evento" anticipava lo stile dei film iraniani post-rivoluzionari, questa poesia in immagini dialoga, senza subalternità ma con eloquio non retorico, col miglior cinema d'autore rigoroso e minimalista di tutto il mondo. Non solo con Kiarostami e Naderi.
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