giovedì 29 novembre 2018

Tre volti, Jafar Panahi (2018)



Il primo volto è quello di una ragazza, Marzieh, a cui la famiglia ha proibito di frequentare l'accademia di recitazione a Teheran. Ha filmato il proprio suicidio col telefonino ed è misteriosamente riuscita a inoltrare il video messaggio via Telegram. Destinataria, l'attrice Behnaz Jafari, il secondo volto, conosciuto in tutto il paese grazie alle serie tv (in Italia si è vista in "Lavagne" di Samira Makhmalbaf). Sconvolta dalla visione, è già partita con Jafar Panahi, di notte, in automobile, verso la remota provincia dell'Azerbaijan Orientale, di cui Panahi è originario anche se, essendo 'solo' un regista cinematografico, in zona nessuno lo conosce. Il messaggio sarà autentico? O una messinscena, magari architettata dallo stesso regista?
Panahi fa l'ennesimo film sul cinema, ma il discrimine tra realtà e finzione lo interessa relativamente; l'enigma del video messaggio è risolto neanche a metà film. Il discorso è ben più articolato e si muove in direzioni inedite.


A differenza di "Taxi Teheran", che era alquanto autocelebrativo, "Tre volti" (Se rokh) è innanzi tutto un grande omaggio al mentore Abbas Kiarostami e al cinema che faceva negli anni 90; a quello sguardo, dal finestrino di un auto, capace di riflettere sulla morte. E sulla vita. Riaffiora "Il sapore della ciliegia" quando il film parla di suicidio, anche assistito (che Panahi, vedendo un toro agonizzante, ammette per gli anziani in difficoltà); o quando si vede una donna prepararsi all'aldilà adagiandosi in una fossa; o nel colore della terra che domina il paesaggio collinare. 

Ma si ritrova anche "Il vento ci porterà via", nel viaggio di un regista verso una zona remota del paese, con difficoltà a trovare campo per il cellulare, a indagare su questioni funebri e alla scoperta di usanze locali bizzarre, qui anche 'basse' (si parla, con un certo effetto imbarazzante, di cadaveri che defecano, di prepuzi sacri e propiziatori, dei genitali del suddetto toro). Per Panahi, è inoltre l'occasione di abbandonare l'amata Teheran (era capitato solo in "Closed Curtain") alla ricerca delle proprie radici nell'area di Mianeh, suo luogo natio secondo l'anagrafe, ma in realtà, come rivelato a Jean-Michel Frodon, luogo di provenienza della famiglia in cui suo padre ha voluto registrarlo.

(In una sequenza Jafar farfuglia qualcosa in azero, subito stoppato da un abitante del luogo, che gli chiede di procedere in persiano. Purtroppo questo dialogo è sparito nell'edizione italiana, a cura di Babak Karimi. Tuttavia la versione doppiata è preferibile, poiché il film fa largo uso di voce off - fuori campo - e diventa complicato leggere i sottotitoli senza perdere qualche dettaglio visivo).

Ma l'omaggio più toccante arriva dall'ultima sequenza, con Mazieh che insegue/'corteggia' Behnaz procedendo verso valle, ripresa in campo lunghissimo da una camera fissa posta a monte. La scena ricalca il finale di "Sotto gli ulivi", film in cui un giovane Panahi compariva nella parte di se stesso, assistente alla regia del maestro. 'Signor Panahi!', lo chiamavano nella pellicola del 1994. Nello stesso modo deferente si rivolge a lui Behnaz Jafari in "Tre volti".

Va detto che lo stile non è felice come quello di Kiarostami, il senso di costruito è maggiore, manca quella straordinaria abilità nel far recitare gli attori con naturalezza, nello scrivere dialoghi profondi nella loro quotidiana semplicità - cosa che all'allievo riesce solo a tratti - e nel comporre l'inquadratura. Però Panahi persegue anche altri obiettivi, coerenti con la propria poetica. La riflessione si allarga infatti alla difficoltà di fare cinema in Iran, e a un interessante excursus storico, che culmina con due evocazioni del cinema prerivoluzionario, a confronto con il presente.* E il discorso si intreccia con la questione femminile, da sempre cara all'autore, che qui evidenzia maggiormente le dinamiche patriarcali.



Il passato ritorna, da un lato, nel personaggio di Shahrzad, il terzo volto, che non ci è dato vedere. La donna recitava e ballava nei film commerciali del genere cosiddetto filmfarsi, messo poi al bando in epoca khomeinista. L'ostracismo verso gli attori dell'epoca, specie di quei film 'peccaminosi', le impedisce di lavorare e l'ha portata a isolarsi nella propria abitazione modesta, consolandosi solo, di nascosto, con la pittura e con la poesia. Ma lo stigma della comunità è subito anche dalla giovane Marzieh, il mestiere dell'attore è ancora percepito, nelle piccole località rurali, come una devianza da scongiurare. Le tre donne giungono anche a un momento di confronto nella casa di Sharzad, ma la macchina da presa non le disturba e rimane all'esterno, nell'abitacolo dell'auto di Panahi.

Dall'altro lato, un anziano signore ha ancora un modello di riferimento: l'attore Behrouz Vossoughi, celeberrimo in patria, con i suoi personaggi virili che, dalla fine degli anni 60, hanno guidato il cinema iraniano nel passaggio dal filmfarsi (e dal sottogenere del 'tough guy', 'il duro') alla Nuovelle Vague, dal cinema di genere a quello d'autore. L'uomo conserva ancora la locandina di "Tangsir", opera giovanile di Amir Naderi (che ha diretto anche Shahrzad in "Tangna", mentre la coppia Vossoughi-Shahrzad compare in "Gheisar" di Masoud Kimiai, uno dei più grandi successi della storia in Persia). Vuole che Panahi consegni al divo un particolare messaggio con dono... Ma Vossoughi non può tornare in Iran, mentre Panahi non può uscire dal paese!



Quanto agli ostacoli di oggi, e ai cambiamenti intercorsi, non deve sfuggire l'accenno al ruolo della tecnologia e dei nuovi media, che non solo consentono agli aspiranti artisti di trovare espedienti per diffondere la propria voce, e realizzare video di qualità professionale, ma anche allo stesso Panahi di continuare a fare film in clandestinità; in questo caso, utilizzando una videocamera molto flessibile inviatagli da sua figlia, che risiede in Francia. Alla Jafari che si dispera per aver abbandonato il set ('della signora Hekhmat': verosimilmente questo film) per inseguire Marzieh, il nostro risponde che dalle difficolà può nascere qualcosa di positivo.
Certo, in queste condizioni, i film di Panahi denotano spesso una presenza ingombrante del loro artefice; ma non è detto che non sia una precisa scelta espressiva e che verrebbe abbandonata una volta ottenuto il nulla osta delle autorità. In ogni caso, la sua riflessione acquisisce di volta in volta maggiore complessità, e merita di essere seguita.

"Tre volti" ha vinto il Premio per la migliore sceneggiatura a Cannes 71. Contrariamente  a quanto era  avvenuto  per "Taxi Teheran", in  cui  il  nome  dei collaboratori  non  appariva  nei  titoli  di  coda,  questa  volta  c'è  il  cast  tecnico  al  completo. Forse il clima in Iran sta cambiando, e la questione Panahi è in via di risoluzione.


*Continua dunque la rinnovata attenzione verso il cinema iraniano degli anni 60 e 70, che avevamo già rilevato in film come "Il cliente" e "A Dragon Arrives!"

Nessun commento:

Posta un commento