Quando nel 2011 "Una separazione" (Jodāyi-e Nāder az Simin) vinse l’Orso d’Oro alla Berlinale, e nel 2012 il primo premio Oscar nella storia del cinema iraniano, la critica internazionale lo accolse come un capolavoro di coraggio e umanità. Il film di Asghar Farhadi fu letto da molti come un’allegoria della società iraniana, oppressa da rigidità religiose, patriarcato e tensioni generazionali. Ma fermarsi a questa chiave interpretativa significherebbe ridurre un’opera che invece si distingue per la complessità della costruzione narrativa e per la radicale ambiguità morale che la attraversa. "Una separazione" non è solo il racconto di una coppia in crisi: è un laboratorio cinematografico che interroga la verità, la giustizia, il linguaggio stesso e le modalità con cui costruiamo — o evitiamo — di assumerci responsabilità.
Il punto di partenza narrativo è semplice ma potente: Simin vuole lasciare l’Iran per garantire alla figlia Termeh un futuro diverso, ma il marito Nader si oppone perché si sente moralmente vincolato ad accudire il padre malato di Alzheimer. Da questa divergenza scaturisce una catena di eventi che coinvolge anche Razieh, una donna incinta e devota che accetta di lavorare per Nader, e che finirà per essere vittima e nodo centrale di un dramma giudiziario, e suo marito Hojjat, uomo facilmente irascibile e pieno di debiti. Ma "Una separazione" è molto più di una duplice vicenda familiare: è una frattura epistemologica, dove ciò che vediamo e ciò che ci viene detto divergono costantemente. La verità, se esiste, è sempre parziale, ritardata, distorta. I personaggi mentono o tacciono non per cattiveria, ma per necessità. Nessuno è interamente colpevole, nessuno è del tutto innocente. Ogni parola detta ha un peso specifico e ogni omissione produce conseguenze.
Il film costruisce un universo dove la verità è una costruzione discorsiva e le versioni dei fatti si rincorrono senza mai sovrapporsi perfettamente. Il sistema giudiziario rappresentato non è una garanzia di verità ma un luogo in cui i personaggi dosano ogni frase per evitare ripercussioni legali. Farhadi orchestra con minuzia questa tensione drammaturgica: ogni scena aggiunge un dettaglio, ma nessuna scioglie l’enigma. Nader ha davvero spinto Razieh, causandone l’aborto? E Razieh ha detto tutto ciò che sa? Le risposte non sono mai date: lo spettatore è chiamato a decidere, ma qualsiasi posizione sarà sempre provvisoria.
Questa dinamica è sostenuta da una messa in scena rigorosa, che unisce il realismo quotidiano a una tensione costante. La camera a mano, gli ambienti domestici, l’assenza di musica e le interpretazioni misurate di tutto il cast - a partire dai quattro protagonisti Leila Hatami, Peyman Moadi, Sareh Bayat e Shahab Hosseini - danno al film un tono sobrio e al contempo drammatico. L’estetica di Farhadi è deliberatamente sospensiva: più che coinvolgere emotivamente, sollecita il giudizio, costringe a pensare. Emblematica è la scena iniziale: Nader e Simin parlano direttamente alla macchina da presa, rivolgendosi a un giudice invisibile. È lo spettatore, dunque, a essere messo sul banco, in una posizione di responsabilità morale. Non può semplicemente osservare: deve interrogarsi, prendere posizione, sapere che ogni giudizio sarà parziale e forse ingiusto.
In questo processo, Termeh — la figlia undicenne — assume un ruolo fondamentale. Non è solo un personaggio secondario, ma una vera e propria figura osservativa, il cui punto di vista orienta l’intera struttura percettiva del film. Fin dalla prima apparizione la vediamo filtrata da un vetro, sfocata, mentre guarda la madre entrare in camera: un’immagine che anticipa il gioco di trasparenze e riflessi che attraversa tutto il film. L’appartamento familiare diventa una rete di sguardi incrociati, dove ogni superficie vetrata collega e separa i personaggi, creando una costellazione visiva in cui la distanza affettiva e la possibilità del legame convivono.
Termeh incarna anche un altro tipo di conflitto: quello tra due modelli educativi e sociali. Nader, pur affettuoso, la cresce nel culto dell’integrità assoluta; Simin, più pragmatica, la educa alla mediazione. Quando Termeh scopre che anche il padre mente, lo scarto etico che ne deriva è devastante: si incrina l’identificazione, si frantuma la coerenza morale. In quella rottura silenziosa si specchia il destino di una generazione e, simbolicamente, di un intero paese in bilico tra fedeltà e cambiamento.
La tensione tra visibile e invisibile è rafforzata da un uso sapiente delle ellissi. Farhadi taglia fuori dallo schermo i momenti decisivi: non vediamo la caduta di Razieh, né la telefonata con il consulente di legge islamica, né il momento esatto del furto. Lo spettatore, come i personaggi, è lasciato in sospeso, costretto a colmare le lacune con ipotesi, ricostruzioni, dubbi. L’importante non è il fatto in sé, ma la discussione che ne deriva. La verità non è ciò che accade, ma ciò che viene detto — o non detto — su ciò che è accaduto. Le ellissi non nascondono: rivelano, proprio in quanto omettono. Diventano luoghi di conflitto, generatori narrativi.
Il realismo del film si fonda su questa paradossale combinazione di precisione minuziosa e vuoti strategici. Farhadi riesce così a unire l’esattezza del dettaglio con la tensione drammatica; l’eccesso di costruzione non indebolisce il realismo, lo rafforza: la credibilità scaturisce non dalla semplicità, ma dalla complessità.
"Una separazione" è quindi un film che non denuncia, ma interroga; non prende posizione, ma costringe a prenderla. Parla del presente senza essere didascalico, perché pone domande universali: sul senso della giustizia, sulla responsabilità individuale, sull’etica della parola. È un cinema della responsabilità, dove il vero protagonista non è un personaggio, ma lo spettatore. Farhadi non offre risposte: crea condizioni affinché ciascuno si senta obbligato a porsi delle domande. In questo senso, "Una separazione" è uno dei più grandi film del XXI secolo, capace di restituire la complessità dell’umano in una forma tanto limpida quanto inquietante.