mercoledì 24 dicembre 2025

Chess of the Wind (Mohammad Reza Aslani, 1976)



 
 
Un grande film sfortunato, "Chess of the Wind"(Shatranj-e Baad): quando viene presentato in anteprima al quinto Tehran International Film Festival nel novembre 1976, un errore nell'ordine dei rulli alla prima delle tre proiezioni - un problema tecnico o un atto deliberato di sabotaggio - rende la trama quasi incomprensibile, mentre le lampade del proiettore difettose fanno sì che le scene interne, alcune delle quali sono illuminate ad arte usando la luce della candela, appaiano così buie da irritare gli spettatori. Seguono critiche feroci al regista Mohammad Reza Aslani e la consegna del film all'oblio.
 
Dopo decenni di invisibilità, i negativi del film furono ritrovati in modo fortuito e restaurati nell’ambito del World Cinema Project. La riscoperta ha riportato alla luce non solo il film, ma anche le storie dei suoi interpreti. Emblematica quella di Shohreh Aghdashloo, che interpreta la serva: iù occasione di rivedepoco dopo la realizzazione del film emigrò negli Stati Uniti e, per decenni, non ebbe l'occasione di vederlo. "Chess of the Wind" le è stato restituito solo con il restauro, come un frammento dimenticato della propria memoria artistica. 
 
La didascalia iniziale del film (che è visibile su Raiplay) ricostruisce nel dettaglio gli eventi:
 
Restauro finanziato dalla Hobson/Lucas Family Foundation. Shatranj-e Baad fu proiettato una sola volta al Festival Internazionale di Teheran nel 1976 e poi bandito nel 1979 dal regime islamico.
Da allora il film è stato considerato perso. Circolavano tra cineasti e collezionisti solo copie in VHS censurate e di qualità scadente. 
Nel 2015 i negativi originali sono stati trovati presso un antiquario a Teheran e restituiti al regista, Mohammad Reza Aslani, che è riuscito a inviare i negativi in un luogo sicuro.
Shatranj-e Baad è stato restaurato in 4k a partire dai negativi originali della pellicola e del sonoro in 35mm.
Il grading è stato un lavoro meticoloso, soprattutto per i rulli 9 e 10, la cui colorazione arancione riecheggiava il cinema muto degli esordi.
Il restauro è stato attentamente supervisionato da Mohammad Reza Aslani e Gita Aslani Shahrestani. Anche Houshang Baharlou, direttore della fotografia, ha collaborato all'ultima fase del grading.


All’epoca, "Chess of the Wind" fu deriso e rapidamente accantonato. Visto oggi, appare invece come un’opera di impressionante rigore formale: la fotografia pittorica, le composizioni geometriche, il découpage meticoloso, i rari ma significativi movimenti di macchina — in particolare quelli lungo la scalinata che collega i piani della villa in cui è ambientato interamente, salvo una finale panoramica sulla metropoli circostante — che acquistano un peso ancora maggiore proprio perché inseriti in una messa in scena per lo più statica, frontale, quasi scultorea. Ogni movimento diventa una frattura all’interno di un mondo irrigidito in pose e gerarchie immutabili.

La trama, deliberatamente ambigua, sembra meno interessata alla linearità narrativa che alla costruzione di uno stato mentale. Ambientato negli anni Venti del Novecento, in una dimora aristocratica che conserva ancora l’aria soffocante dell’Ottocento, il film segue una donna paraplegica che, con l’aiuto della serva, tenta di difendere la propria eredità dalla cupidigia del patrigno e dei suoi nipoti. È una storia di complotti, falsificazioni, eliminazione sistematica degli eredi potenziali, che si offre come racconto simbolico, aperto, più vicino alla percezione paranoica della protagonista che a un resoconto oggettivo degli eventi.

I versetti posti in apertura appaiono eloquenti:
Fare a gara nel contarvi vi allieta. Tanto che visitate i cimiteri. Voi saprete, in seguito saprete. No no. Magari sapeste veramente! (Corano, sura 102). La sura 102 del Corano, "At-Takāthur" (Il Rivaleggiare), è una condanna della competizione ossessiva per l’accumulo – di ricchezze, prestigio, numero di figli, potere o status sociale. Takāthur indica proprio il “fare a gara nel moltiplicare”, nel confrontarsi continuamente con gli altri per avere di più.

Intelligente la scelta di affidare la ricostruzione del contesto storico e sociale ai commenti delle lavandaie. Queste sequenze, concepite come veri e propri inserti, colmano i vuoti informativi lasciati dalla narrazione principale e rivelano progressivamente l’epoca in cui il film è ambientato: quella dell’introduzione del servizio militare obbligatorio in Iran, durante il regno di Reza Scià. Un dettaglio tutt’altro che neutro, che introduce sullo sfondo il tema della modernizzazione forzata (il film è realizzato pochi anni prima della Rivoluzione del 1979) e della violenza istituzionale, in contrasto con l’apparente immobilità della villa.

I dialoghi interrotti, le frasi appena udibili, le ellissi narrative diventano così dispositivi di inquietudine. Non spiegano, ma insinuano. È attraverso queste lacune che il film costruisce la sua atmosfera di minaccia costante. La soluzione dell’enigma finale sembra dialogare apertamente con una tradizione del thriller psicologico occidentale, in particolare "I diabolici" di Henri-Georges Clouzot, un film che aveva già influenzato "Anxiety" di Samuel Khachikian.
 
 

 

Per comprendere la formazione di Aslani e la sua collocazione nella stagione della New Wave iraniana, occorre tornare al 1966, quando Fereydoun Rahnema fonda il gruppo Iran Zamin, un laboratorio creativo che sostiene cineasti come Nasser Taghvai, Parviz Kimiavi e lo stesso Aslani nella realizzazione di documentari altamente poetici e sperimentali. È in questo contesto che Aslani, già scrittore come Ebrahim Golestan, poi anche sceneggiatore, sviluppa la sua sensibilità visiva, l’attenzione ossessiva per gli oggetti e una concezione del cinema come spazio di risonanza poetica più che di racconto causale. Come per l'altro grande documentarista Kamran Shirdel, l'esperienza nel lungometraggio di fiction è del tutto occasionale.
 
Ora, dopo decenni di invisibilità, la riscoperta di "Chess of the Wind" ha permesso di riconoscere non solo il talento di Aslani, ma quello di un’intera squadra: la fotografia di Houshang Baharlou, spesso illuminata solo da candele; la musica di Sheyla Gharachedaghi  — una delle pochissime compositrici iraniane dell’epoca — accompagna il film con una partitura atonale e irregolare, un cast comprendente anche il leggendario Mohammad Ali Keshavarz, noto in Italia per "Sotto gli Ulivi", ma visto anche in "Mattone e specchio". Le proiezioni internazionali a partire dal 2020 sono state accolte con un entusiasmo raro; come dice il regista Kiarash Anvarila sua riscoperta e la sua proiezione ne fanno uno degli eventi più significativi del cinema iraniano tra il 2001 e il 2025.

Dopo cinquant’anni di polvere, Shatranj-e Baad è tornato alla luce come i suoi personaggi-ombra e occupa finalmente il posto che gli spetta nell’atlante del cinema mondiale: non come reperto archeologico, ma come opera viva e inquieta.









 

 

 

 



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